Le lezione di Aldo Moro ignorata, o tradita, a 40 anni dal sequestro

            Nel quarantesimo anniversario del tragico sequestro dell’allora presidente della Dc Aldo Moro, si sprecano le rievocazioni giornalistiche, come si sprecheranno dopodomani, 16 marzo, le corone e le personalità davanti alla lapide, peraltro rinnovata, e quasi profanata prima ancora che venisse risistemata, all’incrocio fra le via Fani e Stresa, a Roma. Dove le brigate rosse assaltarono davvero il cuore dello Stato sterminandone la scorta e prelevandolo per ucciderlo dopo 55 giorni di penosa e drammatica prigionia, in un intreccio di errori, omissioni, depistaggi e altro che segnarono la decapitazione della Repubblica.

            I terroristi assaltarono- ripeto- il cuore dello Stato senza rendersi neppure conto della loro impresa. Diversamente da quanto ha raccontato in questi giorni Adriana Faranda sui criteri politici della selezione degli obiettivi delle brigate rosse, Moro era stato scelto, e  chiamato da loro “friz” per quella frezza bianca che ne distingueva i capelli sulla fronte, solo perché risultato il meno o il peggio difeso fra quelli entrati nel mirino e scrutati per mesi. Egli disponeva di una troppo vecchia auto blindata e di una scorta della quale non si può proprio dire che avesse saputo instaurare con Moro quel rapporto di distacco e di severità necessario alla sua sicurezza. Era -pace agli uomini che la componevano- una scorta più familiare che militare, che non dettava e non cambiava ogni giorno il tragitto, ma lo lasciava scegliere ad uno scortato troppo abitudinario. E, in più, soleva mettere parte delle armi nei bagagliai delle auto.

            I brigatisti rossi -tanto per ricordare una circostanza- erano talmente sicuri che Moro quella mattina sarebbe passato per via Fani, come scorciatoia per raggiungere la Camera, dove stava per presentarsi il quarto governo Andreotti, che durante la notte avevano squartato, sotto casa di un fioraio abitante in un’altra parte della città, le gomme del furgone della sua mercanzia che avrebbe dovuto raggiungere, come ogni giorno, quel mortale incrocio e stazionare nelle sue vicinanze.

            Solo dopo averlo sequestrato, e soprattutto dopo averlo interrogato, e visto il modo con cui egli cercava disperatamente, con quell’intensa attività epistolare solo in parte rivelata, di gestire politicamente la sua prigionìa, i terroristi si resero ben conto di chi avessero davvero fra le mani. E di quale colpo avessero quindi inferto allo Stato.

            Il caso ha voluto che il quarantesimo anniversario del sequestro e poi della morte di Moro coincidesse politicamente con un passaggio politico analogo a quello del tutto eccezionale che il presidente della Dc aveva saputo dirigere: le elezioni politiche del 1976. Dalle quali erano usciti quelli che lui definì i “due vincitori”: la sua Dc e il Pci di Enrico Berlinguer, distanziati di soli quattro punto ed entrambi sprovvisti degli alleati di cui avevano bisogno per governare l’uno contro l’altro, come avevano fatto dal 1948.

            Moro capì che i due vincitori dovessero concordare una tregua, o attraversare il deserto, come gli capitava di dire agli amici. E la trovarono l’uno realizzando un governo addirittura monocolore e l’altro sostenendolo dall’esterno.

            I due vincitori di allora non sono neppure paragonabili, per qualità e dimensioni, specie il secondo, a quelli del 4 marzo scorso. I grillini hanno la stessa consistenza elettorale della Dc ma ne sono agli antipodi, anche se l’aspirante a Palazzo Chigi Luigi Di Maio cita ogni tanto Alcide De Gasperi e si compiace dello stile andreottiano attribuitogli troppo generosamente dal direttore nientemeno del Corriere della Sera, Luciano Fontana. I leghisti di Matteo Salvini, col loro 18 per cento, stanno ai comunisti di Enrico Berlinguer come un gatto a un leone, anche se hanno fatto il colpo di sorpassare nelle urne, all’interno della coalizione di centrodestra, il partito di Silvio Berlusconi.

            Eppure sono loro -i grillini e i leghiti, ripeto- i vincitori delle elezioni del 4 marzo. Senza di loro, senza un loro contatto diretto, diciamo pure una trattativa, non si può pensare di uscire dall’impasse evitando nuove e anticipate elezioni, e il loro scontro finale e risolutivo, che schiaccerebbe tutti gli altri. Invece il palcoscenico politico e mediatico è affollato di attori che vorrebbero che a sciogliere i nodi tra i vincitori fosse il Pd sconfitto dell’ex segretario Matteo Renzi.

           uesztE’ come se nel 1976 democristiani e comunisti avessero pensato di poter fare sciogliere i loro nodi dal partito socialista dell’ex segretario Francesco De Martino, dimessosi per avere portato il Psi al suo minino storico schiacciandosi sulla linea e sugli obiettivi del Pci, e lasciando la Dc senza una maggioranza di governo.

            Chi ha imboccato e sta percorrendo questa strada, in alto e in  basso, a destra e a sinistra, celebra Moro a distanza di 40 anni dal suo sequestro e dalla morte senza avere capito nulla della sua lezione. O tradendola, magari inconsapevolmente, se l’avesse mai capita. Lo scrivo e lo dico pensando anche al Quirinale, con tutto il rispetto che merita naturalmente il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, peraltro di cultura politica morotea.

             

Il Pd si libera di Renzi segretario, ma non della sua linea politica

E’ curiosa davvero questa storia del Pd, o questo capitolo della sua storia scritto dalla direzione riunitasi dopo la sconfitta elettorale del 4 marzo. Il partito si è liberato di Matteo Renzi come segretario ricevendone le dimissioni, ma non della sua linea politica. Che l’ormai ex pilota non poteva più chiaramente esprimere sfidando i due vincitori pifferai usciti dalle urne -il grillino Luigi Di Maio e il leghista Matteo Salvini, entrambi aspiranti alla guida del governo- a dimostrare di cos’altro potranno essere capaci, poco importa a questo punto se insieme o da soli, o ciascuno con l’aiuto di altri che abbiano la voglia e lo stomaco di prestarglielo.

            Si fa presto -si sa- a promettere mari e monti e poi ad annegare nei primi e a precipitare dai secondi. E a spianare la strada al tiranno di turno, com’è già accaduto in passato, in Italia e altrove.

            Renzi, al quale di certo non sono mancati  errori di temperamento ed anche di cultura politica, ma non il coraggio -bisogna ammetterlo- delle sfide, ha lasciato la guida del Pd inchiodandolo ben bene all’opposizione. Da cui può darsi che riesca a smuoverlo non l’inconcludente governatore della Puglia Michele Emiliano, smanioso di soccorrere i grillini, ma il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Che  senza Renzi non sarebbe certamente arrivato al Quirinale tre anni fa.

            Il capo dello Stato ha il ruolo e gli strumenti per smuovere il  Pd dall’opposizione e indurlo a contribuire con senso di “responsabilità” alla formazione di un governo. Che non potrà però essere né quello perseguito da Salvini né quello perseguito da Di Maio, né quello che i due dovessero fare insieme disponendo dei numeri parlamentari, ed anche della disinvoltura necessaria: magari maturata dopo qualche passaggio inutile, e insieme liberatorio, della lunga procedura istituzionale e politica che comincerà formalmente il 23 marzo, quando si insedieranno le Camere ed eleggendone i presidenti si comincerà a giocare con le maggioranze e le minoranze.

            L’ex segretario del Pd se ne starà alla finestra come il classico convitato di pietra. E continuerà -credo- ad essere un incubo per i suoi avversari, che già hanno mostrato di temerne il ritorno, come dimostra la prima pagina appena dedicatagli dal Manifesto. Che nella sua avversione all’ex ormai di tante cose è più trasparente e insieme misurato del Fatto Quotidiano.

Addio a Gianni Prandini, uomo leale e innocente tritato dalla follia di Tangentopoli

Mentre i grillini continuano a festeggiare la loro vittoria elettorale, per quanto mutilata dalla mancanza della maggioranza assoluta dei seggi parlamentari, promettendo la “terza Repubblica”, quella “dei cittadini”, come la chiama l’aspirante presidente del Consiglio Luigi  Di Maio, si è spento nella sua casa di Lonato, nel Bresciano, uno degli ultimi protagonisti e vittime, insieme, della prima Repubblica. E’ il mio amico -lo dico subito, per la trasparenza dovuta ai lettori- Gianni Prandini, col quale ho condiviso, come scherzavamo fra di noi, la corsa verso gli 80 anni. Che si è purtroppo chiusa per lui a circa 22 mesi dal traguardo.

Tangentopoli esplose, nel 1992, quando Prandini guidava il Ministero dei Lavori Pubblici: il più rischioso ed esposto sul fronte del finanziamento irregolare dei partiti. Ai quali arrivavano contributi, senza distinzione fra maggioranza e opposizioni, dalle imprese che solevano spartirsi gli appalti a tavolino, con gare cui si preparavano senza bisogno che qualcuno in alto commettesse imbrogli per fargliele vincere.

Erano contributi non volontari ma volontarissimi, che nelle Procure della Repubblica, a cominciare da quella pilota di Milano, scambiarono per contributi estorti perché così dicevano gli imprenditori convocati, o spontaneamente in fila davanti alle porte giudiziarie, smaniosi di raccontare la loro verità. Così essi riuscivano spesso a giustificare anche volgari ammanchi aziendali, e a scaricare bancarotte fraudolente sulla solita politica vorace, pronta a dissanguare persino i moribondi.

In quel clima allucinante, con le strade e le piazze invase da manifestanti che chiedevano ai magistrati di farli sognare smanettando gli antipatici  o nemici di turno, Prandini fu sommerso da una valanga di avvisi di garanzia e incolpazioni, e arresti cosiddetti cautelari. Che gli consentirono di scoprire in carcere, prima dei domiciliari disposti con tale durezza da non poter ricevere nella sua abitazione romana neppure i familiari, un’umanita’ migliore -mi disse una volta- di quella che fuori l’aveva condannato prima ancora che cominciassero i processi più o meno regolari nei tribunali. Già, perché il suo processo di primo grado, in cui rimediò una condanna a sei anni, fu talmente poco regolare da essere annullato.

Seguii buona parte di quel processo, a Roma, scoprendomi l’unico giornalista presente in aula. Non c’era uno straccio di cronista giudiziario di agenzie, giornali e televisioni interessato ad un procedimento che pure doveva essere emblematico di Tangentopoli: forse anche più di quello celeberrimo chiamato Enimont, dove Bettino Craxi fronteggiò l’irruente sostituto Antonio Di Pietro mettendolo tanto in difficoltà da procurargli una ramanzina di Eugenio Scalfari su Repubblica. Arnaldo Forlani, l’amico e capocorrente di Prandini, che da segretario della Dc lo aveva mandato imprudentemente nel 1989  al Ministero dei Lavori Pubblici col penultimo governo di Giulio Andreotti, subì invece con tanto disagio l’assalto di Di Pietro da farsi sorprendere rovinosamente con la bava alla bocca.

Quel processo per concussione, corruzione e quant’altro, chiamato o targato Anas, andò avanti anche dopo che la Corte Costituzionale aveva bocciato la norma procedurale che consentiva ai testimoni di accusa di sottrarsi al confronto in aula con l’imputato e i suoi difensori. E si concluse, ripeto, con la condanna, per quanto la stessa accusa avesse tagliato di una buona metà la lista dei capi d’imputazione, lungo all’origine come un menù di ristorante.

I giudici d’appello rimediarono alla ostinata distrazione dei colleghi di primo grado annullandone la sentenza e rimandando gli atti alla Procura, perché le indagini ricominciassero daccapo e il procedimento si svolgesse finalmente secondo le regole ripristinate dalla Corte Costituzionale. I testimoni di accusa furono tutti riconvocati per ripetere la loro “verità'”, con l’inconveniente del possibile contraddittorio. Non si presentò nessuno dei presunti concussi, evidentemente timorosi di finire tra i corruttori. E il pubblico ministero titolare del fascicolo chiese il proscioglimento di Prandini, sentenziato dal giudice dell’udienza preliminare perché “il fatto non sussiste”, a dodici anni di distanza dall’inizio del calvario dell’ex ministro democristiano.

“Il fatto non sussiste”, ripeto. Altro che la “prescrizione” rimproverata a Prandini qualche mese fa dal solito Marco Travaglio, sia pure di sfuggita, in un editoriale scritto contro uno degli accusatori originari dell’ex ministro, il collega di partito Lorenzo Cesa, appena entrato nella coalizione di centrodestra per le elezioni del 4 marzo scorso.

Travaglio dispone evidentemente di un casellario giudiziario tutto suo, che rilascia certificati scommettendo sulla debole memoria altrui, o sullo sfinimento fisico del malcapitato di turno, alle prese con le sue ultime settimane di vita.

Con Gianni Prandini perdo un amico, ma non il ricordo di un uomo generoso e di un politico di prim’ordine non solo per la sua terra bresciana, generosa di leader di ogni tipo: da Papa Montini all’ultimo, per quanto sfortunato segretario della Dc Mino Martinazzoli.

Prima di approdare al Ministero dei Lavori Pubblici, Prandini era stato fra il 1987 e il 1989 , nei governi di Giovanni Goria e di Ciriaco De Mita, il ministro della Marina Mercantile dello storico scontro con i Camalli, come erano chiamati gli scaricatori del porto di Genova, contrari a modificare le condizioni di lavoro che avevano  allontanato da quello scalo marittimo gran parte del traffico commerciale, dirottato a Rotterdam. Giorgio Bocca su Repubblica elogio’ la determinazione di Prandini proprio mentre, su incarico di De Mita, il sottosegretario a Palazzo Chigi Riccardo Misasi cercava una mediazione con i sindacati che rischiava di mettere nell’angolo il ministro.

Come dirigente prima periferico e poi nazionale del partito, in un percorso graduale che non usa più in questi tempi, Prandini non si fece mai distogliere dalla necessità del rinnovamento nella salvaguardia dei legami fra la base e i vertici. Fu sua, nella seconda metà degli anni ’70, all’epoca della segreteria Zaccagnini, la gestione dei gruppi di impegno democratico: una specie di sezioni ambientali del partito, che si apriva così agli “esterni”.

Fanfaniano tra i più convinti ed entusiasti sin dai primi anni della militanza democristiana, Prandini si rifiutò nel 1973 di seguire l’allora presidente del Senato nell’operazione congressuale di rovesciamento dalla segreteria del partito del pur delfino Arnaldo Forlani. Che vi era arrivato nel 1969 con un patto di svolta generazionale stretto con De Mita in un convegno a San Ginesio.

Prandini salutò il ritorno di Fanfani alla guida dello scudocrociato, dopo esserne stato allontanato nel 1958 per avere concentrato troppo potere, essendo anche capo del governo, con dichiarazioni a dir poco esplosive. Egli parlò in auto con Guido Quaranta, allora a Panorama, della sua pur amata Dc come di un partito “di canaglie” indegno di un “gualantuomo” come l’appena deposto Forlani.

Bruscamente invitato da Fanfani, nel suo stile, durante una cena su lago di Garda, ad “allinearsi”, Prandini rifiutò rivendicando il diritto e il dovere della lealtà verso Forlani. E si sentì rispondere così :” Questo tuo atteggiamento ti fa onore, ma rimarrai a lungo senza potere”.

La profezia quaresimale di Fanfani, analoga a quella da lui stesso annunciata al congresso al segretario uscente del partito, era tuttavia destinata a ritorcersi contro l’anziano leader del partito. Che già due anni dopo avrebbe perduto  nuovamente la segreteria, dopo la clamorosa sconfitta referendaria sul divorzio nel 1974. Una sconfitta che il prudente Forlani aveva evitato nel 1972 facendo rinviare di due anni un referendum che aveva avvertito come una trappola fatale per il partito, quale in effetti si sarebbe poi rivelata.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

Occhio alla crisi nel centrodestra, e non solo a quella del Pd

            Mentre tutti guardano al Partito Democratico, dove la sconfitta elettorale ha già procurato una vittima, avendo dovuto Matteo Renzi presentare le dimissioni da segretario e rinunciare al progetto di congelarle per almeno un paio di mesi, in modo da partecipare alla gestione delle trattative -o non trattative- finalizzate alla formazione del nuovo governo, è scoppiata una crisi ancora più grave e significativa nel centrodestra.

         Quella del centrodestra è una crisi, paradossalmente, da vittoria perché la coalizione allestita prima delle elezioni dal volenteroso Silvio Berlusconi col solito sistema, che è quello di rinviare a dopo i nodi nascosti sotto la facciata dell’unità, pur avendo nel nuovo Parlamento la distanza minore dalla maggioranza assoluta dei seggi rispetto anche ai grillini, non ha retto al trauma del sorpasso netto e chiaro della Lega di Matteo Salvini sulla Forza Italia dell’ex presidente del Consiglio.

         E’ stato, quello di Salvini su Berlusconi, e gli uomini pronti a scaldare il posto fino al termine del periodo di incandidabilità del loro capo, un sorpasso tanto diffuso sul territorio nazionale e solido nei numeri che il signore di Arcore non vuole sentir parlare di elezioni anticipate. Che invece egli aveva messo nel conto prima del voto del 4 marzo scandendone persino i tempi: fra i sei e i dodici mesi, cioè fra l’autunno di questo 2018 e la primavera dell’anno prossimo, quando gli italiani dovranno comunque andare alle urne per rinnovare il Parlamento europeo.

          Ora Berlusconi ha il fondato sospetto di non potere recuperare a breve -e lui non ha l’età per poter pensare ad operazioni a lungo e forse neppure a medio termine- la leadership strappatagli nel centrodestra dal giovane segretario leghista. Il quale ha preso tanti voti, e mostra di avere dentro di sé tanta energia, che i suoi vecchi o potenziali avversari o concorrenti interni, a cominciare dall’ormai ex governatore della Lombardia Roberto Maroni, avranno per un bel po’ scarsa voglia di sfruculiarlo.

         L’unico che si permette un po’ di lanciare ancora frecciate contro Salvini nella Lega è il vecchio e malandato Umberto Bossi, che gli ha già ricordato pubblicamente di togliersi dalla testa l’idea di arrivare a Palazzo Chigi a dispetto di Berlusconi: un dispetto invece palpabile dalla prima pagina del Giornale di famiglia, diciamo così, dell’ex presidente del Consiglio. Che sembra una postazione d’artiglieria tra un editoriale del suo direttore Alessandro Sallusti, puntato contro le ingrate gerarchie cattoliche, tutte attente adesso alla fede ritrovata o ostentata dai grillini con le citazioni quotidiane di encicliche e varie da parte del loro “capo” Luigi Di Maio, e un titolo di cosiddetta cronaca politica contro la pretesa di Salvini di “ballare da solo”. Cioè di muoversi, come lo stesso Sallusti ha spiegato nell’arena televisiva di Massimo Giletti, su La 7, come se fosse ancora soltanto il pur molto ambizioso segretario del suo partito e non ancora il leader, come si proclama, di un’alleanza composita, con il conseguente dovere di tenere conto delle aspettative e degli interessi degli alleati, a cominciare naturalmente da Berlusconi. Nel cui partito si ha la sensazione -diciamo così- che Salvini stia trattando o abbia già trattato con Di Maio la spartizione tra i loro uomini delle presidenze delle Camere. E ciò magari come antipasto di operazioni di governo, se i grillini non dovessero agganciare il Pd e il segretario leghista fosse destinato a vedere Palazzo Chigi in cartolina per le manovre di Berlusconi.

         Nella sua olimpica ingenuità o astuzia, secondo i gusti, il Giornale di famiglia -ripeto- dell’ex presidente del Consiglio ignora, o finge di ignorare, la missione affidata da Berlusconi al solito Gianni Letta di marcare stretto il Pd per sottrarlo alle tentazioni grilline dell’ala più a sinistra e dirottarlo verso il centrodestra, assicurandogli i numeri necessari alla fiducia in Parlamento, anche a costo, o proprio al costo, di chiedere a Salvini la rinuncia alle sue ambizioni di premier, essendone la figura politicamente indigesta ai piddini pur sensibili alla sirena berlusconiana.

         Non ci voleva, francamente, molto acume per capire che la missione di Gianni Letta fosse alquanto indigesta al segretario della Lega proprio come leader della coalizione più votata dagli elettori.

Il protagonismo di Di Maio contraddetto da Grillo: “l’elevato”

Le piccole cose, si sa, aiutano a capire quelle più grandi. Mentre Luigi Di Maio, il vice presidente uscente della Camera, reduce dal successo elettorale del suo movimento, riempie le agenzie, i giornali e le televisioni di dichiarazioni e moniti, e divide anche quel che resta della sinistra dopo il voto del 4 marzo fra chi vorrebbe accordarsi con lui, chi vorrebbe quanto meno andare a vedere le sue carte e chi invece non intende perdere tempo non fidandosene, o fidandosi troppo delle rocambolesche promesse elettorali, sufficienti a far ballare il Paese nei mercati finanziari nel momento in cui se ne dovesse discutere davvero; mentre Lugi  Di Maio, dicevo, ha letteralmente occupato la scena da protagonista, Beppe Grillo ha rovesciato la posizione delle 5 stelle in materia di Olimpiadi. E ha dato alla sindaca di Torino l’autorizzazione, negata invece a quella di Roma, entrambe pentastellate, a chiederle per la propria città.

            “L’elevato”, come si chiama il comico di Genova con tanto di cartello appeso al collo, o qualcosa del genere,  per indicare meglio la funzione solo di “garante” che ha deciso di svolgere nel suo movimento dopo il famoso passo indietro o di lato annunciato incoronando capo con i soliti riti digitali Di Maio, è al di sopra di tutti e di tutto dalle sue parti. Sopra anche a Davide Casaleggio e a tutte le scartoffie fra le quali gli esperti delle 5 stelle  cercano continuamente prove e indizi per potere attribuirgli addirittura la proprietà del movimento.

            Non si facciano quindi illusioni quanti si apprestano o hanno già cominciato, più o meno dietro le quinte, a trattare con Di Maio prescindendo dalla imprevedibilità di Grillo le le condizioni d’intese di governo e/o istituzionali, come sono quelle che in ordine di tempo dovranno precedere tutto riguardando l’insediamento delle nuove Camere, il 23 marzo, e l’elezione dei rispettivi presidenti. In mancanza dei quali il capo dello Stato non potrà neppure avviare al Quirinale il rito delle consultazioni per cercare di dipanare la matassa del nuovo governo. E magari arrivare alla soluzione che gli ha già proposto quel genio della politica, pervaso da una confessata e incontenibile “passione”, che si considera Massimo D’Alema, a dispetto degli elettori che prima -a sentire lui- lo hanno sollecitato a candidarsi e poi non lo hanno eletto. O non si sono ritrovati in tanti da poterlo rimandare in Parlamento dopo la pausa impostasi  cinque anni fa per togliere l’allora segretario del Pd dall’imbarazzo di sostenerne la candidatura in deroga alle regole interne sul numero dei mandati parlamentari consentiti.

            Pur convinto della necessità che altri -non potendolo fare lui direttamente- vadano a vedere le carte di un movimento che sventola le vecchie “bandiere  della sinistra”, quella decisa a togliere a chi più ha per darlo a chi ha meno o non ha proprio niente, come sempre più frequentemente avviene anche dopo che a governare il Paese non è sempre capitato alla destra, D’Alema ha precisato meglio natura e contorni del “governo del Presidente” da lui già immaginato prima delle elezioni “per non farci troppo del male”.

            Dal governo del Presidente dovranno tenersi fuori tutti i partiti per un periodo di decantazione: una specie di riedizione del governo tecnico di Mario Monti, ma non guidato dallo stesso Monti, ora felicemente senatore a vita, bensì da un’altra personalità “esterna”. Questo governo dovrebbe portare il Paese con una certa calma a nuove elezioni, naturalmente con una nuova legge elettorale, perché ormai in Italia non si riesce più a votare con le stesse regole della volta precedente: un altro segno dell’impazzimento politico del Paese e della sua cosiddetta classe dirigente.

            “Un governo senza di noi sarebbe un insulto alla democrazia”, ha reagito Di Maio mandando a quel posto parole e ragionamenti di D’Alema e di chiunque altro volesse seguirlo sulla strada della riflessione “dopo una mazzata”. Parola -ha detto il primo e sinora unico post-comunista affacciatosi a Palazzo Chigi- di “una persona esperta anche nel prendere botte”, più spesso ormai di darle.  

Bossi e Berlusconi giocano nel centrodestra con Salvini come due gatti col topo

            Umberto Bossi, non potendo certamente contestare il successo elettorale della Lega in edizione assai diversa dalla sua, ha potuto togliersi solo una soddisfazione, in polemica con chi ha dovuto raccogliere il partito nello stato penoso in cui lui praticamente gliel’aveva lasciato, e ha saputo portarlo così avanti da sorpassare all’interno della coalizione di centrodestra Forza Italia. Egli ha mandato a dire a Matteo Salvini con un po’ di intervistine in carta vetrata che le sorti delle sue ambizioni presidenziali, mirate verso Palazzo Chigi, rimangono pur sempre nelle mani di Silvio Berlusconi. Di cui Bossi è notoriamente più amico ed estimatore del segretario leghista.

            Il monito del vecchio fondatore della Lega, diventata nel frattempo qualcosa di molto diverso, e non solo per quel “Nord” tolto dal nome del movimento, è arrivato a Salvini con la notizia, diffusa un po’ da tutti i giornali, di una missione affidata da Berlusconi al solito Gianni Letta di sondare come un anfibio, sopra e sott’acqua, se e quante possibilità esistano davvero nel malmesso Pd di aiutare la nascita di un governo di centrodestra, al di là dei rifiuti di facciata già arrivati. E che si possono considerare obbligati, almeno in questa fase, per il dovere degli interessati di non indebolire tatticamente il no annunciato anche ai grillini.

            La notizia della missione di Berlusconi a Gianni Letta non può essere piaciuta a Salvini per motivi di forma e di sostanza. Per moti di forma, o di buona educazione, perché l’annuncio è arrivato dopo che lo stesso Salvini, ora impegnato a presentarsi come “leader del centrodestra”, e non solo della Lega, si era assunto il compito di contattare il Pd. Una leadership o si accetta, e si rispetta, o no.

            I motivi di sostanza per i quali Salvini non può avere accettato di buon grado la notizia della missione di Gianni Letta stanno nel timore comprensibilmente avvertito che Berlusconi non aspetti altro che di poter dire che un’intesa col Pd potrebbe essere trovata solo se il segretario leghista rinunciasse a Palazzo Chigi. E ciò a favore di un altro esponente di centrodestra, persino del suo stesso partito. Che per Salvini sarebbe una soluzione ancora peggiore.

            Si profilano pertanto altri temporali, dopo quelli alternatisi durante la campagna elettorale, nella coalizione che pure è uscita dalle urne formalmente vincente, avendo largamente sorpassato l’altra, di centrosinistra, raccoltasi attorno al Pd di Matteo Renzi. Tanto vincente che, essendo meno distante dei grillini, che pure da soli hanno preso più voti, dalla maggioranza assoluta dei seggi parlamentari, ha rivendicato all’unisono, senza distinzione tra forzisti e leghisti, il diritto di ottenere dal capo dello Stato il primo incarico per tentare nella nuova legislatura la formazione del governo.

            Il fatto è che Berlusconi notoriamente non ha ancora digerito il sorpasso elettorale della Lega  su Forza Italia, e tutto ciò che ne consegue: compresa la speranza appena espressa da Salvini ai parlamentari leghisti eletti di vederne presto crescere i gruppi parlamentari, naturalmente per arrivi dall’esterno. Un esterno -scusate il bisticcio delle parole- anche interno alla coalizione di centrodestra: un incubo per l’ex presidente del Consiglio e il suo missionario anfibio.  

Di Maio aggancia Mattarella e interloquisce col governo sul Def del 10 aprile

            Reduce da una stretta di mano con Sergio Mattarella tanto casuale quanto galeotta, nel corso della cerimonia al Quirinale per la festa della donna, il candidato delle 5 stelle alla guida del nuovo governo ha quanto meno tentato di agganciare meglio il presidente della Repubblica con una intrigante intervista al Corriere della Sera.

Innanzitutto Luigi di Maio ha definito “sacrosanto” l’appello alla “responsabilità” lanciato da Mattarella ai partiti, e condiviso dal predecessore Giorgio Napolitano, perché mettano gli interessi generali del Paese, e le sue vere urgenze, sopra quelli particolari dei vincitori e degli sconfitti nelle elezioni del 4 marzo.

            Del nuovo governo non si vedono ancora i lineamenti politici, i confini, i contenuti, ma già se ne conosce quindi la definizione. Sarà un governo appunto di “responsabilità”, magari col solito aggettivo “nazionale”. E così potrà fare quanto meno rima completa col governo di “solidarietà nazionale” formatosi nel 1976, dopo l’elezione anticipata di un Parlamento con troppi vincitori -due, la Dc e il Pci, come disse l’allora presidente dello scudo crociato Aldo Moro- per poter pensare ad un governo tradizionale, che vedesse i due partiti contrapposti come nella campagna elettorale.

            Qualcuno si è subito affrettato a tradurre il quadro, come ha tentato il presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky sul solito Fatto Quotidiano di simpatie grilline, in un accordo di governo fra il movimento delle 5 stelle e il Pd o, più in generale, il centrosinistra. Ma il costituzionalista ha scambiato il Pd per il secondo vincitore delle elezioni del 4 marzo. In realtà, esso è il partito principalmente sconfitto, tanto che il suo segretario ha dovuto dimettersi, ed anticipare anche l’effetto di queste dimissioni, che aveva invece tentato di congelare in attesa della formazione del nuovo governo.

            A smentire Zagrebelsky, e Il Fatto diretto da Marco Travaglio, prodigo di consigli e moniti amichevoli ai grillini, ha provveduto lo stesso Di Maio. Il quale ha chiarito all’intervistatore del Corriere della Sera, Emanuele Buzzi, che appartiene ai giornali, non a lui, né al suo partito, la rappresentazione di un movimento teso a confrontarsi o a trattare, come preferite, soprattutto col Pd. Per niente, Di Maio vuole confrontarsi, o trattare, con tutti, compresi quindi i leghisti, gli altri vincitori delle elezioni. E li ha invitati a formulare le loro proposte, invertendo del tutto la rappresentazione  accreditata dallo stesso Di Maio nelle scorse settimane di un uomo e di un partito provvisti di un programma ed anche di una squadra di governo, poco o per niente disponibili a trattare sul primo e ancor meno sulla seconda.

            Questo cambiamento di marcia o di indirizzo, conseguente anche al fatto che a entrambi i vincitori delle elezioni manca una maggioranza autosufficiente in Parlamento,  è il frutto dell’appello del capo dello Stato alla responsabilità  e del “sacrosanto” datogli da Di Maio? Forse.

            Ma l’intervista al Corriere della Sera dell’aspirante delle 5 stelle all’incarico di Mattarella per Palazzo Chigi contiene un’altra e ancora più importante novità: la disponibilità a concorrere alla formulazione e all’approvazione, con la prescritta maggioranza assoluta del Parlamento, del documento di economia e finanza (Def) che il governo deve presentare entro il 10 aprile. E che la Commissione esecutiva dell’Unione Europea naturalmente aspetta con la solita diffidenza, più o meno dissimulata.

            Il 10 aprile è una data troppo vicina all’insediamento delle nuove Camere, il 23 marzo,  all’elezione dei loro presidenti, al completamento degli organi istituzionali, alle consultazioni di rito al Quirinale e a tutto il resto per immaginare che possa essere il nuovo governo a formulare il Def. Vi deve provvedere il governo uscente di Paolo Gentiloni, che pertanto diventerà di fatto il primo interlocutore di chi aspira a succedergli. E l’esito del confronto -chiamiamolo così- sul documento di economia e finanza potrà risultare, per gli sviluppi della situazione politica, ancora più significativo o decisivo delle prove alle quali le nuove Camere saranno chiamate eleggendo i loro presidenti.

            Se quella stretta di mano al Quirinale fra Mattarella e Di Maio è stata la prima rondine, che non fa necessariamente primavera, come dice un vecchio e prudente proverbio, non resta che vedere se altre voleranno sui palazzi romani della politica e delle istituzioni.

Le tempeste nei bicchieri d’acqua di Eugenio Scalfari

Un’altra tempesta si è scatenata nel bicchiere d’acqua di Eugenio Scalfari, come nello scorso mese di novembre. Quando il fondatore di Repubblica, ospite di Giovanni Floris nel salotto televisivo  di martedì , a La 7, disse di preferire Silvio Berlusconi a Luigi Di Maio, nel caso in cui avesse dovuto scegliere fra i due nelle urne.

L’ipotesi era a dir poco irrealistica. Un ballottaggio fra i due, o i rispettivi partiti, non era contemplata nè dalla legge elettorale nè dagli schieramenti in campo, essendo Berlusconi solo una parte, pur importante, e per giunta incandidabile, della coalizione di centrodestra, peraltro destinato ad essere sorpassato nelle urne dall’alleato leghista. Ma Scalfari accettò ugualmente la sfida paradossale dell’intervistatore e diede la sua risposta, avventurandosi anche in una spiegazione che aumentò la sorpresa e aggravò le polemiche per  il dovere da lui rivendicato di distinguere tra valutazioni morali e politiche.

Il disorientamento investì anche i lettori, la redazione e la proprietà di Repubblica, divisasi fra le proteste pubbliche di Carlo De Benedetti- che, se avesse potuto, avrebbe licenziato Scalfari da fondatore e editorialista del giornale- e il silenzio dei figli, forse messi in imbarazzo più dal loro genitore che dal decano del giornalismo italiano.

Nello stesso salotto televisivo dell’altra volta  quel diavolo di Floris, cui i paradossi debbono piacere più della carriera, dei soldi e delle donne, non so in che ordine, ha indotto Scalfari in tentazione di scelta fra Di Maio e Matteo Salvini dopo il voto del 4 marzo, e nel confuso scenario politico che n’è derivato. Di Maio, ha risposto Scalfari, che ne aveva appena elogiato l'”intelligenza” mostrata in campagna elettorale anche con l’allestimento di una potenziale squadra di governo.

Con quella intelligenza, al netto evidentemente dei problemi che il giovanotto campano ha ogni tanto con i congiuntivi e la geografia, fisica e politica, Scalfari si è messo in attesa di vedere se davvero Di Maio può rivelarsi un uomo di sinistra, e persino il capo della sinistra, come è sembrato di volere o poter essere con tutti quei voti portati a casa. Ma è sembrato, appunto. Il che significa che Scalfari ha in realtà sfidato il vice presidente uscente della Camera a dimostrare di che pasta politica sia davvero.

Bisognerà poi vedere di che sinistra Di Maio vorrà o potrà rivelarsi di essere: se di una sinistra velleitaria, alla quale Scalfari non ha fatto sconti in passato, o di una sinistra riformista e di governo,  europeista davvero, non a giorni o ore alterne, per la quale il fondatore di Repubblica è tornato domenica scorsa a votare mettendo la croce nelle schede al seggio non sul Movimento delle 5 stelle, ma sul candidato uninominale del centro sinistra alla Camera e al Senato, e sulla lista del Pd per la quota proporzionale. Lo aveva già annunciato scrivendo, per esempio, dei suoi preferiti Marco Minniti, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, e lo avrebbe anche ripetuto in televisione prima del voto, ospite di Bianca Berlinguer a Rai 3, se la conduttrice non lo avesse trattenuto nel timore di incorrere in qualche censura dell’autorità di vigilanza.

Le parole di Scalfari sono state così poco comprese da Di Maio che questi ha ricambiato la cortesia, diciamo così, con una lettera a Repubblica di quasi autoinvestitura di uomo o capo di sinistra in cui ha messo nel suo Pantheon, citandolo, un solo uomo: non Enrico Berlinguer, che Scalfari rimpiange sempre, ma Alcide De Gasperi. Il quale non fu certamente un uomo di destra, come ha giustamente ricordato Emanuele Macaluso ricordando il rifiuto dell’alleanza a Roma col Movimento Sociale che   procurò all’allora presidente democristiano del Consiglio il no  a un’udienza nel Vaticano di Pio XII, ma neppure un uomo di sinistra. Fu piuttosto il maestro politico di Giulio Andreotti, suo sottosegretario alla guida dei governi centristi. Al cui “stile” Di Maio è stato piuttosto paragonato generosamente dal direttore del Corriere della Sera, Luciano Fontana, in un libro fresco di stampa.

Fra i sorpresi e critici di Scalfari su Di Maio c’è stato nella famiglia di Repubblica il valentissimo Vittorio Zucconi. Che leggo e ascolto sempre volentieri anche perché è la copia felicissima del padre: il mio compianto amico Guglielmo, che mi onorò del ritorno alla collaborazione col Giorno quando, assumendone la direzione, mi capitò di diventare uno dei suoi successori.

Intervistato dal Dubbio, Vittorio ha ironicamente rivendicato la sua condizione di “laico” rispetto ad uno Scalfari “divino” per autorità ed esperienza. Beh, temo -per lui- che anche Vittorio abbia frainteso “Barpapà'”, come molto meno divinamente, più laicamente e più affettuosamente Scalfari è stato abitualmente chiamato dai suoi collaboratori.

 

 

 

Pubblicato sul Dubbio

Luigi Di Maio fra i modelli di Andreotti, di De Gasperi….e di Lenin

            Generosamente paragonato, prima ancora di vincere le elezioni del 4 marzo, a Giulio Andreotti addirittura da Luciano Fontana, direttore pur sempre del Corriere della Sera, il grillino Luigi Di Maio si è messo sulla buona strada per essere scambiato per un nuovo Lenin, in salsa italiana, anzi campana. Non ne ha la calvizie, ma potrebbe venirgli con i pensieri e i traumi che già gli stanno forse procurando i suoi improvvisati estimatori di sinistra. Fra i quali il più clamoroso, sorprendente e quant’altro è apparso –ma solo apparso, come spiegherò- il fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari, spintosi nello studio televisivo di Giovanni Floris, a la 7, a preferirlo a Matteo Salvini: un paradosso uguale a quello cui ricorse qualche mese fa nello stesso studio, a costo di procurare un mezzo infarto al suo ex editore e amico Carlo De Benedetti, per preferire Silvio Berlusconi proprio a Di Maio, già allora candidato del movimento delle 5 stelle a Palazzo Chigi.

            All’età di vegliardo che ha, e con la passione che ha conservato seguendo, commentando e cercando ancora di influenzare la politica, Scalfari può permettersi questi ed altri paradossi. Ma sarebbe disonesto prescindere dal carattere appunto paradossale delle sue sortite e inchiodarlo a croci che non gli spettano, come quella di un Di Maio destinato a diventare il capo di una sinistra moderna di governo: l’unica per la quale il fondatore di Repubblica sia disposto a votare e che il 4 marzo egli ha individuato nel Pd di Matteo Renzi.

            Paradosso per paradosso, Scalfari ha dato per vero ciò che Di Maio cerca ora di “sembrare”: parola, questa, che lo stesso Scalfari ha adoperato parlando di come l’”intelligente” aspirante grillino sta muovendosi per guadagnarsi l’incarico di presidente del Consiglio e poi i voti in Parlamento che gli elettori non gli hanno concesso per ottenere la fiducia che ancora occorre ad un governo. Ma  Di Maio si è mostrato, proprio dopo il paradosso di Scalfari, tanto convinto e adatto a diventare il capo della sinistra da scrivere una lettera a Repubblica richiamandosi alla lezione politica di Alcide De Gasperi. Che la sinistra cercò nel 1948 di cacciare a calci -parola di Palmiro Togliatti- dal governo. E fu il maestro o il superiore, come preferite, di quell’Andreotti al cui stile il direttore del Corriere della Sera ha paragonato quello dell’aspirante grillino a Palazzo Chigi.

            Per niente paradossale mi è apparsa invece l’apertura ai grillini fatta in una intervista proprio al Corriere della Sera dopo il voto del 4 marzo dal vecchio e ultimo tesoriere dei comunisti: l’ormai ex senatore del Pd Ugo Sposetti. Che ha reclamato un processo al già dimissionario segretario del partito Renzi -ora davvero dimissionario, con un reggente riconosciuto nella persona del vice segretario Maurizio Martina- dicendogliene di tutti i colori.

            Quando l’intervistatore ha ricordato a Sposetti come i grillini siano quelli che hanno fatto di tutto, e probabilmente riprenderanno a fare nelle nuove Camere, per togliergli o tagliargli il vitalizio di ex parlamentare, da lui difeso con argomenti neppure campati in aria, l’ex senatore non ha fatto una piega. “Quella -ha detto- è la loro battaglia politica, che io non condivido. Ma fanno battaglie politiche loro, non personali”, come evidentemente Sposetti ritiene che siano state quelle condotte da Renzi e dai suoi amici inseguendo su quel terreno i grillini.

            Anche di Lenin, e poi di Stalin, si diceva così a sinistra: che facessero battaglie lodevolmente o comprensibilmente politiche, a prescindere dai metodi e dagli effetti.

 

             

             

             

Tornano i dorotei della vecchia Dc, se mai se ne sono andati

            Il Partito Democratico, uscito certamente malconcio dalle urne del 4 marzo, ma non meno del Partito Popolare-ex Dc dalle elezioni del 1994 o del Pds-ex Pci da quelle del 1992, le prime dopo la caduta del muro di Berlino e di tutto ciò ch’esso avevo significato per tanto tempo, è ora a un bivio. Che il pur perdente e uscente segretario Matteo Renzi ha avuto il merito di segnalare per primo: un merito che i suoi vecchi e nuovi avversari, prolifici come conigli, naturalmente gli negheranno ma che per onestà gli va riconosciuto da chi, non militando nel suo partito, né in altri concorrenti, ha quanto meno la possibilità di vedere le cose con maggiore distacco.

            Il bivio del Pd è fra il rimanere compatto all’opposizione ad un governo che i vincitori delle elezioni –leghisti da una parte e grillini dall’altra- hanno a questo punto il diritto e il dovere quanto meno di tentare, se non avranno la faccia tosta di ammettere di avere preso in giro con le loro promesse di cambiamento tutto il Paese, e il farsi dividere dagli altri. Che poi sono soprattutto  i grillini. I quali, avendo più numeri dei leghisti in Parlamento, dopo averne preso di più nelle urne, sono quelli che più hanno da offrire. O più possibilità di giocare la partita.

            Infatti il candidato delle 5 stelle a Palazzo Chigi, Luigi Di Maio, si è già rivolto più o meno esplicitamente ad un Pd “derenzizzato”. Che significherebbe per Di Maio un Pd a sinistra, o più a sinistra, perché di sinistra si sentono pure i grillini, anche se ogni tanto essi  contestano la possibilità di continuare a parlare ancora di destra e di sinistra. E non mancano nel Pd persone come il governatore pugliese Michele Emiliano, per non parlare di quelli che ne sono usciti e contano nel nuovo Parlamento ancora meno che nel vecchio, pronte a rispondere sì a Di Maio. Ce ne sono, come lo stesso Emiliano, che hanno persino preceduto Di Maio offrendosi: un Di Maio peraltro appena  messo alla prova di sinistra in televisione da Eugenio Scalfari, forse più scettico che fiducioso.

            I fiancheggiatori dei grillini, come quelli del Fatto Quotidiano, destinati ora ad affollare i salotti televisivi ancora più di prima, hanno deriso un Pd contrario ai grillini come un partito destinato a scendere nelle prossime elezioni al 10 per cento. Che è la stessa quota elettorale attribuita a Renzi da Beppe Grillo in persona in vista di nuove elezioni. Ma quanto varrebbe un Pd caduto in tentazione grillina, diciamo così? Quanto di più o di meno del 10 per cento?

            Il bivio attuale del Pd è lo stesso nel quale si trovò nel 1994, alla nascita della cosiddetta seconda Repubblica, la ex Dc di Mino Martinazzoli, e poi di Rocco Buttiglione, Gerardo Bianco e Franco Marini, prima di dissolversi nella Margherita di Francesco Rutelli e di unificarsi con i post-comunisti di Walter Veltroni. La ex Dc si spaccò nelle scelte fra centrodestra e centrosinistra e si disperse.

            Durante la cosiddetta prima Repubblica, nella Dc che la rappresentava più compiutamente quelli sempre pronti a resistere alle novità ma poi anche a cedervi quando le vedevano vincenti, cercando di ricavare il massimo trattando, erano chiamati dorotei, dal nome di un istituto religioso in cui nacquero come corrente separandosi dai fanfaniani. Dorotei divenne un sinonimo di opportunisti.

            Ecco, i piddini pronti a sostenere i grillini sono, consapevoli o a loro insaputa, secondo i casi, i  nuovi dorotei della terza, nascente Repubblica. E’ gente semplicemente terrorizzata all’idea di passare all’opposizione. E Dio solo sa quanto mi dispiaccia vedere tra costoro Sergio Staino. Che, in una vignetta comparsa sul Dubbio, dove però un post-comunista dal nome storico di Luigi Berlinguer ha preferito schierarsi per il passaggio all’opposizione, ha contestato il no già gridato da Renzi ai grillini rivendicando il diritto di parola della direzione del partito. Che tuttavia è stata già regolarmente convocata dal segretario sfidando i suoi critici a contestarlo, se ne hanno gli argomenti e i numeri. Ma Renzi –ha argomentato Staino- è un’anatra zoppa, anzi un’anitra, come preferiscono dire in Toscana: zoppa per i voti che ha perduto nelle elezioni e per le dimissioni che ha prenotato, destinate a diventare operative e a ad avviare la successione congressuale dopo i tanti adempimenti istituzionali e politici della nuova legislatura, compresa la formazione del nuovo governo. Come se un reggente o una commissione di reggenza, reclamata dagli avversari di Renzi, non fosse un’altra anatra zoppa. Via, Staino, questa tua vignetta purtroppo non mi ha fatto né ridere né sorridere.  

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