Il centrodestra tra il sogno e l’incubo di un altro Pdl

Col cuore lanciato sempre oltre l’ostacolo il solito Renato Brunetta -e chi sennò?- già festeggia la vittoria del centrodestra nelle elezioni regionali di novembre e prenota quella che seguirà nelle elezioni politiche successive, con qualsiasi legge si finirà per andare alle urne: anche con quei due monconi usciti dalla Corte Costituzionale dopo la bocciatura di parti consistenti delle norme per il rinnovo del Senato e della Camera contestate davanti ai giudici del Palazzo della Consulta.

Sì, certo, resta ancora da definire anche per l’ottimista capogruppo forzista di Montecitorio qualche dettaglio, a dir poco, dello scenario della nuova legislatura: a chi toccherà, per esempio, ottenere l’incarico e tentare di formare il governo, anzi formarlo tout court, nel caso in cui -ha ammesso Brunetta in una intervista- la fastidiosa incandidabilità di Silvio Berlusconi prodotta dalla condanna definitiva di tre anni fa per frode fiscale non dovesse essere sanata in tempo per le elezioni dalla giustizia europea investita del ricorso dell’ex presidente del Consiglio. O cosa accadrebbe -mi permetto di aggiungere- se,  pur tornato in corsa, Berlusconi inciampasse nel sorpasso leghista, all’interno di una ricostituita coalizione di centrodestra, e dovesse quindi fare i conti con l’ambizione dello scalpitante Matteo Salvini. Che peraltro è diventato ancora più nervoso del solito da quando il suo partito rischia il sequestro giudiziario della cassa per i pasticci combinati a suo tempo da Umberto Bossi, familiari e amici condannati in primo grado per la gestione dei fondi di finanziamento pubblico della Lega.

Ma per Brunetta anche queste sarebbero infine bazzecole. Egli già pensa al predellino su cui Berlusconi, chissà in quale città, in quale piazza e di quale macchina, tornerà a saltare per ritentare, con quello che lo stesso Brunetta ha chiamato “il partito unico” del centrodestra, l’avventura del Pdl. Che, prima ancora della formale dissoluzione nel 2013, era naufragata nel 2010 -ricordate ?- con la rivolta, a ditino alzato, dell’allora presidente della Camera Gianfranco Fini, impaziente di pensionare chi pure lo aveva sdoganato nel 1994.

Ora Fini, ex di tutto, ha notoriamente altri problemi, di natura prevalentemente giudiziaria e familiare. E i post-finiani di Giorgia Meloni non sono poi messi molto meglio di lui, anche se sono riusciti a far digerire a Berlusconi la candidatura di Nello Musumeci a governatore della Sicilia, senza neppure passare per la procedura delle primarie da loro rivendicata quasi con la stessa foga adoperata sull’altro versante in questi giorni da Rosario Crocetta per difendersi dalla detronizzazione decisa a tavolino da Matteo Renzi, a Roma..

Ma i leghisti di Salvini stanno un po’ meglio dei fratelli d’Italia della Meloni. E temo che, in caso di sorpasso sui forzisti a livello nazionale, non riuscirà a metterli  in riga neppure l’ardito Brunetta, che mi sembra francamente preso  da ebrezza politica.

Alfano come Moscarda in Uno, nessuno e centomila

Nato ad Agrigento come il grande Luigi Pirandello, ma 103 anni dopo di lui, il povero Angelino Alfano rischia di emularne il personaggio più famoso e tragico: quel Vitangelo Moscarda -non Mostarda, come vorrebbe il mio ignorantissimo computer- che nel celeberrimo romanzo “Uno, nessuno e centomila” impazzisce a furia di cercare la sua vera identità, in cui poter essere riconosciuto davvero da tutti, dopo che la moglie gliene aveva imperdonabilmente fatto perdere contezza eccependo sul suo naso.

Pirandello impiegò notoriamente una quindicina d’anni per ideare e scrivere compiutamente il suo capolavoro, dopo averlo peraltro pubblicato a puntate sulla Fiera Letteraria. Angelino Alfano ha impiegato solo una quindicina di giorni nella sua Sicilia per smarrire la sua fisionomia politica. Che lui pensava fosse rigorosamente centrista, tanto da togliere il riferimento alla destra dal nome dato al suo partito alla nascita, tre anni fa, quando separandosi dall’uomo di Arcore per essere “diversamente berlusconiano”  lo chiamò “Nuovo Centro Destra”.

Nell’acqua passata in tre anni, appunto, sotto i ponti della politica, navigando sempre al governo ma cambiando ruoli, da vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno a solo ministro dell’Interno e infine a ministro degli Esteri, prima con Enrico Letta e poi con Matteo Renzi e con Paolo Gentiloni a Palazzo Chigi, Alfano ha un po’ visto, provato e trovato di tutto, anche la sensazione di poter costituire addirittura l’”Alternativa Popolare” -da “Partito Popolare Europeo” cui la sua formazione partecipa insieme con la “Forza Italia” di Berlusconi- a quella informe area di centro della politica italiana, che si scompone e si scompone continuamente, come una maionese. Vasto progetto, direbbe scettico la buonanima del generale Charles De Gaulle allungando da lassù lo sguardo sull’Italia. Ma l’Alternativa alfaniana si è persa rapidamente persino nei titoli e nelle cronache dei giornali, anche dei più autorevoli, dove il nuovo nome del partitino centrista è stato ostinatamente declassato ad Azione Popolare. Che è sempre un nome attivo, non statico, ma vuoi mettere la differenza da Alternativa ?

Già costretto a fare i conti con sondaggi che lo danno al limite della sopravvivenza politica nazionale, ma forte nella sua Sicilia di una percentuale che avrebbe potuto e potrebbe tuttora risultare decisiva a quello che fu il centrodestra, Alfano è stato per un bel po’ corteggiato in vista delle elezioni regionali del 5 novembre dal plenipotenziario di Berlusconi e amico Gianfranco Miccichè. Che ce l’ha messa davvero tutta ma alla fine si è dovuto arrendere non so francamente se più alle indecisioni e agli umori di Berlusconi o ai veti dei leghisti  di Matteo Salvini e dei post-missini di Giorgia Meloni, convinti che Alfano sia uno sporco traditore di sinistra, degno compare di Matteo Renzi e persino di Giuliano Pisapia. Che però non sono riusciti a farlo ingoiare come alleato al resto della sinistra, dove al ministro degli Esteri semplicemente non si perdona di esistere, come spesso accade da quelle parti, anche a costo di rinunciare al classico biglietto della lotteria. E solo alla lotteria il cosiddetto centrosinistra avrebbe potuto e potrebbe pensare di vincere in Sicilia, proiettandosi a livello addirittura nazionale, dopo l’esperienza vissuta con quell’ottovolante costituito dal governatore uscente Rosario Crocetta.

E’ un ottovolante, quello di Crocetta, dove peraltro è salito e si è trovato a suo agio anche il centrista Giovanni Ardizzone, presidente dell’assemblea regionale.

Il giallastro di Cirillo, Cutolo, Moro, Peci, Senzani……in ordine alfabetico

A un mese ormai dal 30 luglio, giorno della morte di Ciro Cirillo, l’assessore regionale campano della Dc sequestrato dalle brigate rosse fra il 27 aprile e il 24 luglio del 1981, e liberato dopo una misteriosa trattativa in cui fu coinvolta, a dir poco, la camorra guidata in carcere da Raffaele Cutolo, si può forse scrivere che egli non ha davvero lasciato memoriali o altro a qualche notaio. Lo aveva annunciato dopo la liberazione, fra le polemiche politiche e le indagini giudiziarie, per poi smentire, cioè per ripensarci. Sulle minacce hanno forse prevalso le promesse agli amici altolocati del suo partito, alquanto malmessi nella esposizione mediatica per avere violato con lui quella cosiddetta linea della fermezza, cioè di rifiuto di ogni cedimento al terrorismo, che tre anni prima era costata la vita ad Aldo Moro. La cui tragica scomparsa, preceduta dalla strage della sua scorta, aveva portato alla fine della politica di cosiddetta solidarietà nazionale col Pci di Enrico Berlinguer e a quella che Carlo Donat-Cattin, molto amico del presidente democristiano, definì “l’infarto della Democrazia Cristiana”.

         Esponente del potente gruppo di Antonio Gava, che a sua volta deteneva l’azione d’oro, diciamo così, della segreteria del partito detenuta da Flaminio Piccoli, l’assessore Cirillo aveva tra le mani nel momento in cui fu sequestrato la ricostruzione dell’Irpinia e delle altre zone meridionali danneggiate dal terremoto del 1980: quello che aveva mandato su tutte le furie, per i ritardi e altri pasticci dei soccorsi, il presidente della Repubblica Sandro Pertini.

Forse le brigate rosse non avevano pensato proprio a quei lavori di ricostruzione quando decisero di mettergli le mani addosso. Ma ci pensò la camorra, più lesta dello Stato nel controllo del territorio e probabilmente nell’individuazione del covo brigatista in cui il sequestrato era stato rinchiuso. Pertanto le brigate rosse, avventuratesi in una zona off limits con una imprudenza che si erano risparmiate in una regione, per esempio, come la Sicilia, dovettero fare i conti anche con i camorristi per portare avanti e chiudere la loro avventura.

Furono pagati per la liberazione, versati di notte a Roma su un tram al regista del sequestro in persona, Giovanni Senzani, poi condannato per questo ad uno degli ergastoli accumulati, un miliardo e mezzo di lire. Eppure Senzani, che vive ormai in piena e legittima libertà dal 2010, ha sempre smentito che dietro quel pagamento ci fosse stata qualche trattativa in cui fossero state coinvolte brigate rosse, Democrazia Cristiana e camorra. Se segreti di quel sequestro e di quel rilascio vi fossero davvero, si potrebbe pensare che solo Senzani possa conoscerli, a dispetto delle sue smentite. Che sarebbe però imprudente contestare perché l’uomo è tosto e –come vedremo- facile alla denuncia .

Nelle brigate rosse Senzani aveva assunto ruoli apicali dopo la cattura a Milano, proprio in quel 1981, di Mario Moretti -che nel 1978 aveva diretto a Roma il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro- e del compagno di idee e di lotta Enrico Fenzi. Di cui peraltro Senzani era cognato, avendone sposato la sorella.

Oltre al sequestro Cirillo toccò a Senzani gestire anche, nello stesso anno, il rapimento ma poi anche l’esecuzione, con altra condanna, di Roberto Peci, che pagò la colpa di essere fratello di Patrizio, il terrorista pentito che aveva permesso di sgominare mezza organizzazione sotto gli incalzanti interrogatori del generale Carlo Alberto dalla Chiesa e del magistrato Gian Carlo Caselli.

In uno scenario quasi esoterico che si ritrova navigando tranquillamente per internet il povero Roberto Peci fu trattenuto dai suoi aguzzini per 55 giorni e ucciso con undici colpi d’arma di fuoco: 55 quanti erano stati i giorni di prigionia di Aldo Moro, tre anni prima, e 11 quanti i colpi sparati contro l’inerme presidente della Dc processato dal fantomatico tribunale del popolo delle brigate rosse.

 

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E’ curiosa davvero la storia di questo Senzani: una storia che ho avuto la sfortuna di incrociare personalmente con una vertenza giudiziaria finita anche all’esame dell’ultima commissione parlamentare d’inchiesta sul sequestro e sull’assassino di Moro, presieduta da Giuseppe Fioroni.

Siamo a cavallo fra il 2000 e il 2001. Dalla commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi incompiute, presieduta dal senatore Giovanni Pellegrino, dei Democratici di sinistra, arrivano voci clamorose sul ruolo che avrebbe svolto Senzani anche nel sequestro di Moro, tre anni prima dei fatti terroristici che gli avrebbero procurato processi e condanne.

Mi avvicina in Transatlantico, a Montecitorio, l’amico Nicola Lettieri, sottosegretario democristiano all’Interno all’epoca del rapimento del presidente del suo partito, e mi confida la sua inquietudine ritenendo che durante il sequestro proprio Senzani, da lui ritenuto quanto meno consulente del Ministero della Giustizia come criminologo, anche se lo stesso Senzani definirà pure questa una fandonia in una intervista del 2014 al Garantista, era stato contattato dal Viminale per aiutare politici e funzionari a interpretare i comunicati delle brigate rosse.

Tracce di questa presunta consulenza tuttavia non si trovano fra le carte del Viminale. Me lo esclude, su richiesta formulatagli personalmente, anche Francesco Cossiga, ministro dell’Interno all’epoca dei fatti. Vengono invece fuori dalla commissione di Pellegrino altri fatti, come una deposizione del magistrato toscano Tindari Baglioni, occupatosi di terrorismo a Firenze. Che, invitato a dire se il sequestro Moro fosse stato possibile più per la debolezza dello Stato che per la forza delle brigate rosse, risponde che entrambi avevano in comune un consulente, appunto Senzani. Del quale viene riferito alla stessa commissione che la Procura di Firenze chiese l’arresto dopo il fermo di un giovane armato che abitava presso di lui. Il capo della Digos locale, sempre secondo il racconto alla commissione, chiese prudenza trattandosi di un collaboratore dello Stato, comunque arrestato nel 1979, ma per soli cinque giorni, come dallo stesso Senzani ricordato poi nella già citata intervista del 2014 al Garantista. Egli comparirà solo due anni dopo quel breve arresto sulla scena del terrorismo con i sequestri di Roberto Peci e di Ciro Cirillo. Che in quella stagione tuttavia, come ha ricordato sul Dubbio Paolo Comi, non furono gli unici due rapiti dalle brigate rosse o affini.

Furono prelevati dai terroristi anche il povero Giuseppe Taliercio, del polo petrolchimico della Montedison a Mestre, trovato poi ucciso, e Renzo Sandrelli dell’Alfa Romeo, fortunatamente sopravvissuto.

Quando la Commissione stragi conclude i propri lavori, nel finale della legislatura 1996-2001, prendendo la decisione di inviare un rapporto alla Procura di Roma per chiedere praticamente un’indagine sul ruolo di Senzani nel sequestro Moro, ed esce anche un libro-intervista del presidente Pellegrino, pieno di riferimenti allo stesso Senzani, scrivo un articolo sul Giornale diretto da Maurizio Belpietro per auspicare un chiarimento sulla vicenda.

Senzani, in regime allora di semilibertà, dichiaratosi sempre estraneo –ripeto- al sequestro Moro e alla sua gestione, si sente diffamato non dalla Commissione stragi, dai magistrati da essa ascoltato o dal suo presidente ma curiosamente da me. E mi denuncia.

La solerte Procura di Monza manda immediatamente agenti della Polizia giudiziaria al Giornale per rilevare la mia identità e mi comunica già dopo un paio di mesi, a maggio, la chiusura delle indagini, senza mai interrogarmi e -temo- senza neppure leggere o solo sfogliare il libro intervista di Pellegrino e quant’altro. L’udienza dal giudice per le indagini preliminari, finalizzata al rinvio a giudizio, viene fissata per i primi giorni di luglio, ma salta per qualche errore di notifica e viene rinviata a pochi giorni prima di Natale.

L’avvocato del Giornale, cui naturalmente ho provveduto ad inviare tutta la documentazione raccolta, compresi alcuni verbali delle audizioni della Commissione stragi segnalatimi dallo stesso presidente, rimane colpito dai tempi dell’inchiesta giudiziaria, rapidissimi come una freccia rossa dei giorni nostri. Prende -presumo- i suoi contatti, assume le informazioni del caso e, sentendo puzza di misteriosi interventi, anche in relazione al rapporto della Commissione stragi inviato alla Procura di Roma, che in effetti dopo qualche anno archivierà i dubbi e le sollecitazioni degli inquirenti parlamentari, mi consiglia di chiudere la vicenda patteggiando. E così avviene, immagino con soddisfazione di Senzani e dell’accusa.

 

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Anche Paolo Comi, pur non conoscendo forse la mia disavventura, nella rievocazione del sequestro di Ciro Cirillo ha giustamente e prudentemente scritto di Senzani sul Dubbio con una certa cautela, da me condivisa dopo l’esperienza avuta, ricordandone certamente il ruolo, d’altronde sanzionato in sede giudiziaria e definitiva, ma anche riportandone le smentite già ricordate ad una gestione delle trattative per il rilascio dell’assessore democristiano estesa alla Dc, alla camorra, ai servizi segreti e a quant’altro.

Eppure lo storico boss della camorra Raffaele Cutolo si è personalmente e ripetutamente vantato della collaborazione chiestagli e da lui concessa a pezzi importanti della Dc e dello Stato, intesi questi ultimi come servizi segreti, per arrivare alla liberazione di Cirillo. E non credo proprio che lo avesse fatto a titolo di generosità e di patriottismo, non essendo la camorra, in nessuna delle sue ramificazioni, un’associazione né benefica né patriottica. Anch’essa evidentemente riteneva di poterne trarre vantaggio, come poi si capì con la spartizione degli appalti per la ricostruzione delle zone della Campania danneggiate dal terremoto del 1980.

Non mancarono d’altronde inchieste giudiziarie sul ruolo della camorra nella gestione del sequestro Cirillo, con grossi e inquietanti tentativi di depistaggio. Il più clamoroso dei quali fu certamente il falso dossier passato ad una giornalista dell’Unità che chiamava in causa, fra gli altri, il democristiano Enzo Scotti, soprannominato Tarzan nel partito per la facilità con cui passava da una corrente all’altra e destinato a diventare dopo molti anni ministro dell’Interno.

Il giornale del Pci dovette scusarsi e il suo direttore Claudio Petruccioli dimettersi. Allora il giornalismo era una cosa seria, o più seria di adesso, e si usava fare così. Che era poi il modo più efficace anche per limitare i danni del depistaggio, evitando che si parlasse troppo a lungo non delle indagini sul sequestro Cirillo ma dell’infortunio del giornale del principale partito di opposizione.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

Sinistra e destra suicide in Sicilia. Grillo se la ride

L’odio acceca anche in politica, e non solo nei rapporti personali. Lo hanno dimostrato la sinistra e la destra, insieme, nelle ultime ore in Sicilia, dove in odio appunto ad Angelino Alfano, e a quel che potrà rimanere del suo piccolo partito di centro nato tre anni fa dalla rottura con Silvio Berlusconi, i grillini rischiano davvero di vincere le elezioni regionali del 5 novembre. Rischiano, perché una loro vittoria sarebbe destinata a riprodurre in quella regione lo spettacolo non certo esaltante che il movimento di Beppe Grillo sta dando nell’amministrazione di Roma. E -cosa ancora più clamorosa- potrebbero replicare il successo a livello nazionale dopo qualche mese, quando verranno rinnovate le Camere non si sa ancora con quale legge, visto che si dovrà giocare prima o dopo la vera partita di fine legislatura. Che non è quella del bilancio, o della legge finanziaria del 2018, ma dell’armonizzazione reclamata dal capo dello Stato fra le due leggi in vigore prodotte dai tagli apportati dalla Corte Costituzionale ai testi approvati a suo tempo dal Parlamento.

L’ipotesi coltivata, pur tra le nebbie e le contraddizioni di mezze interviste e sortite, dal sindaco di Palermo Leoluca Orlando e dall’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia di associare o allargare il centrosinistra siciliano ad Alfano, che pure a livello nazionale fa ancora parte di una maggioranza di governo in cui ancora convivono a modo loro il Pd di Matteo Renzi e l’anti-Pd di Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema, ha letteralmente frantumato quello schieramento. Che ha ceduto alla tentazione del suicidio -il solito a sinistra- di correre alle elezioni con ben tre candidati al cosiddetto governatorato dell’isola.

La battaglia, quindi, sarà alla fine -salvo sorprese, sempre possibili nella terra dei pupi- fra la destra e i grillini, a distanza fra Silvio Berlusconi e Beppe Grillo. Ma Berlusconi, cedendo pure lui all’odio dei suoi, e forse anche proprio, nei riguardi di quello stesso Alfano che lui aveva scambiato negli anni scorsi per uno statista in erba improvvisandolo segretario dell’allora Pdl, ha subìto il candidato impostogli dalla destra post-missina e post-finiana di Giorgia Meloni e dalla Lega post-padana di Matteo Salvini. Si tratta di quel Nello Musumeci già sconfitto in altre  due corse corse alla regione, proprio per questo originariamente scartato dal diffidente e scaramantico uomo di Arcore. Che ha però pensato di poterlo alla fine rigenerare affiancandogli come vice un avvocato non nuovo alla politica isolana ma verniciatosi grillinamente con l’invenzione di un movimento, lista e quant’altro di “Indignati”, rigorosamente con la maiuscola.

Eppure proprio Berlusconi, in una delle sue partecipazioni ormai più che ventennali a quello che pure chiama sprezzantemente “il teatrino della politica”, con l’esperienza che ha di venditore ha avvertito che il pubblico alla fine preferisce l’originale all’imitazione. E il “suo” avvocato Gaetano Armao, che fa casualmente rima col famoso Cacao Meravigliao degli spettacoli televisivi di Renzo Arbore, somiglia francamente più all’imitazione che all’originale della indignazione grillina.

 

 

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Vi racconto gli ultimi balletti politici in Sicilia fra Grillo, Berlusconi, Renzi e Alfano

Rivincita italiana a Versailles sul fronte europeo dell’immigrazione

In attesa di capire bene dai fatti più che dalle parole- sempre facili purtroppo agli equivoci, specie quando cadono sul terreno del dibattito politico intossicato da una campagna elettorale in corso ormai dalla sconfitta referendaria di Matteo Renzi sulla riforma costituzionale- se i disordini nella piazza romana dell’Indipendenza per lo sgombero di un palazzo troppo a lungo occupato abusivamente da immigrati e le polemiche che ne sono derivate produrranno davvero un rallentamento dell’azione del governo per il ripristino della legalità, godiamoci per una volta un passaggio della politica europea favorevole all’Italia. E’ il vertice convocato a Parigi dopo intense consultazioni fra la stessa Parigi, Berlino, Roma e Madrid per quella che potrebbe segnare una svolta, finalmente, nella gestione del fenomeno dell’immigrazione sinora rovesciatosi sulle coste italiane e greche fra la sostanziale indifferenza di troppi governi di quella che pure si chiama Unione Europea. E che è invece il vero traguardo dei disperati che approdano suoi suoi confini meridionali.

La solenne cornice di Versailles scelta per questo vertice potrà anche soddisfare la vanità del nuovo e giovane presidente francese Emmanuel Macron, consolandolo persino del calo che sta subendo nel suo Paese dopo il trionfale approdo all’Eliseo, ma l’evento è una rivincita una volta tanto italiana sulla pretesa, o presunzione, dello stesso Macron di dettare legge, o solo di avere le vere chiavi di apertura delle porte nel paese più destabilizzato eppure anche più cruciale del Nord Africa da dove parte la maggior parte dei migranti: la Libia.

Per ottenere un vero cambiamento del clima politico, delle disponibilità e delle azioni concrete di contrasto libico all’ignobile traffico di carne umana, che è purtroppo la faccia peggiore del fenomeno dell’immigrazione, si sono rivelati più utili i pazienti e spesso più segreti che pubblici contatti del ministro dell’Interno italiano Carlo Minniti con gli amministratori locali, chiamiamoli così, della Libia che l’incontro improvvisato e reclamizzatissimo di Macron a luglio, con piglio napoleonico, nel castello di Saint Cloud, alle porte di Parigi, con i capi dei due governi che si contendevano e si contendono tuttora il controllo e il governo di quel pezzo d’Africa.

Ha ottenuto più Minniti con la gestione del cosiddetto codice di comportamento imposto alle organizzazioni volontarie impegnate nei soccorsi dei migranti nel Mediterraneo, per evitare che esse diventassero, nolenti e qualche volta persino volenti, complici dei cosiddetti scafisti, cioè dei trafficanti di uomini, donne, vecchi e bambini ridotti alla schiavitù, che Macron con quella spocchia che sta deludendo anche i suoi connazionali.

 

 

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Migranti, la spocchia di Macron e la concretezza di Minniti

Scontro al Corriere sui Dioscuri della Repubblica

Ernesto Galli della Loggia, 75 anni, e Valerio Onida,, 81, due pezzi da novanta della cultura storica e costituzionale d’Italia, se le sono dette e anche date di santa ragione, a loro modo, sulle pagine del Corriere della Sera.

Il primo ha scritto lunedì 21 agosto un editoriale per spiegare ai lettori, immaginandoli allievi di uno dei suoi brillanti corsi universitari, come l’ingovernabilità prevedibile anche nella nuova legislatura per la mancanza di una  seria legge elettorale sia destinata a indebolire ulteriormente la figura del presidente del Consiglio. Che è già zoppicante di suo dagli esordi della Repubblica per la concorrenza, o qualcosa del genere, che gli fa  dal Quirinale il capo dello Stato. Da cui il capo del governo è nominato, anche quando nella cosiddetta seconda Repubblica gli è capitato di pensare o di illudersi di essere stato designato direttamente dagli elettori, avendo guidato la coalizione vincente nelle urne.

Dell’assenso del presidente della Repubblica il presidente del Consiglio, per quanto provvisto della fiducia delle Camere, ha bisogno non solo per emanare i decreti legge imposti dalle urgenze del Paese, ma anche solo per presentare al Parlamento un disegno di legge. Non parliamo poi della prerogativa, tutta del presidente della Repubblica, di sciogliere le Camere limitandosi a “sentirne” i presidenti, come lo obbliga la Costituzione, lasciando al presidente del Consiglio solo la formalità della controfirma.

Valerio Onida, professore pure lui,  ma in più ex presidente della Corte Costituzionale, che lavora e sentenzia insindacabilmente sulle leggi e sui conflitti di competenze istituzionali in un palazzo situato nella stessa piazza del Quirinale, dove si affacciano  pure gli uffici del capo dello Stato protetti dai Corazzieri, ha contestato il sabato successivo la rappresentazione dell’editorialista del Corriere rovesciandola. Egli ha cioè sostenenuto che in realtà il presidente della Repubblica nulla possa fare davvero senza il consenso e la controfirma delle competenti autorità di governo, neppure -in teoria- lo scioglimento anticipato delle Camere, cui nessun presidente del Consiglio risulta essersi opposto quando vi si è trovato di fronte. Ma Onida non ha neppure provato ad immaginare, e tanto meno a scommettere con i lettori, come si sarebbe dovuto o potuto risolvere un contrasto, se fosse esploso, o non fosse stato soffocato da quello che potremmo chiamare il galateo istituzionale.

Al linguaggio tutto dottrinale e sobrio del costituzionalista Onida, quasi avvolto ancora nei panni pur dismessi del giudice e del presidente della Corte nota anche come Consulta, Galli della Loggia ha risposto dichiaratamente e orgogliosamente “fuori dai denti”, nella stessa giornata di sabato, vedendo “ipocrisia” e “disinvoltura” negli argomenti e ragionamenti del suo contraddittore. Al quale ha anche rimproverato di sottovalutare la  scarsa “trasparenza” del semplice “potere di persuasione” riduttivamente attribuito al capo dello Stato: un potere -aggiungo io-  più volte ricordato o vantato dal presidente in carica, Sergio Mattarella, come per dire di non averne altri.

Più leggevo e rileggevo i due duellanti, più pensavo -vi confesso- alle statue dei Dioscuri nella piazza del Quirinale immaginandoli come il presidente del Consiglio e il presidente della Repubblica, e chiedendomi chi dei due prevalesse davvero sull’altro. Mi chiedevo insomma se avesse più ragione Galli della Loggia o Onida. Forse il primo, mi sono detto. Ma quanti lettori del Corriere della Sera -mi sono anche chiesto- avranno avuto la possibilità e la voglia di fare le stesse riflessioni  e di porsi le stesse domande arrivando a pagina 28 del loro giornale, non invogliati da richiamo alcuno in prima pagina: neppure due righe fra i titoloni, i titoli e i titolini dedicati, nell’ordine dall’alto in basso e da sinistra a destra, ai dubbi sulla ripresa economica, agli sgomberi delle case occupate a Roma dopo i disordini in Piazza Indipendenza, alla crescita dell’Europa perseguita dal governatore della Banca centrale Mario Draghi, ai problemi della sindaca grillina della Capitale, alle preoccupazioni del buon Pier Luigi Battista per la deriva del nuovo partito di sinistra di Bersani e D’Alema, alla fortunata donna americana diventata milionaria con la lotteria, al nuovo uragano che spaventa i lontani Stati Uniti, al ritorno all’obbligo del vaccino nelle scuole e ai 26 mila euro spesi vanitosamente dal nuovo e pur giovane presidente francese Emmanuel Macron per truccarsi, o lasciarsi truccare, credo sotto la sorveglianza della sua Brigitte.

E’ sempre antipatico -lo so- fare le pulci ai colleghi. Ma, Dio mio, lo scontro fra Galli della Loggia e Onida sui Dioscuri della Repubblica, la nostra Repubblica, un richiamino forse se lo meritava in quella prima pagina del giornale considerato il più diffuso e autorevole d’Italia. 

Il solito Brunetta fra le solite parole e i soliti fatti

L’amico Renato Brunetta non me me ne vorrà se lo colgo in castagna, ma la tentazione è troppo forte per farmela e lasciargliela scappare.

Il capogruppo di Forza Italia alla Camera alla fine di una intervista piena, come sempre, di ottimismo e di certezze per la sua parte politica e per Silvio Berlusconi in particolare, spaziando dalla Sicilia alle Alpi, e vantandone “il potere di coalizione” o “la centralità”, ha parlato con grande e lodevole competenza di un problema che a Palazzo Madama, pur chiuso o semichiuso per ferie, sta sfasciando il Pd. E’ quello, passato al Senato dalla Camera, della legge non sull’abolizione dei cosiddetti vitalizi parlamentari, ma sul ricalcolo e su una riduzione dal 30 al 50 per cento di quanto percepiscono  gli ex deputati e senatori, o le loro vedove. E’ un campionario di qualche centinaio o migliaio di persone scelto dai grillini e dagli amici di Matteo Renzi, in un curioso inseguimento sulla strada della demagogia, che potrebbe fare da cavia per un intervento, pur escluso a parole dai renziani, sulle pensioni di milioni di italiani che percepiscono un trattamento calcolato col vecchio sistema retributivo. E che, al pari degli ex parlamentari o superstiti, potrebbero essere ricalcolati col sistema contributivo, e quindi ridotti.

“Una follia contro la Costituzione”, ha gridato Brunetta preannunciandone o la bocciatura al Senato o quella alla Corte Costituzionale, e augurando a Grillo e a Renzi “una brutta fine”.

Sin qui le parole di Brunetta. Che deve però spiegarmi a questo punto perché, quando la legge  è stata approvata a Montecitorio, egli non è riuscito a trattenere un solo deputato del suo gruppo, neppure se stesso, perché votasse contro, ricorrendo ad un certo punto per telefono a Berlusconi, o subendone l’ordine di fare uscire tutti. E magari solo per non farli votare alla stessa maniera, cioè contraria, degli odiati “traditori” alfaniani, cui proprio Brunetta, capendone l’avversione dichiarata da leghisti e fratelli d’Italia come alleati nelle vicine elezioni regionali siciliane, pur collaborandovi in tante altre regioni e città italiane, ha contestato di stare ancora al governo. Ma almeno essi dissentono e votano contro alla luce del sole, quando capita. O no, caro Renato ?

Gli auguri di Ennio Flaiano, da lassù, a Virginia Raggi

Chissà come si sta divertendo la buonanima di Ennio Flaiano, da lassù, vedendo ciò che accade a Roma, dove sin dal 1954, ben 18 anni prima di morire, egli provò ad immaginare l’arrivo di un marziano, ricavandone nel 1960 una fortunata commedia tradotta infine nel 1983 in un film. Che trent’anni dopo il genovese Ignazio Marino cercò di interpretare a suo modo scalando elettoralmente il Campidoglio e raccontandosi, dopo rocambolesche crisi della sua sindacatura, in un libro intitolato proprio “Un marziano a Roma”. Che notoriamente nella commedia cinematografica finì tanto sbeffeggiato dai romani, dopo un esasperato interesse, da preferire il ritorno volontario nello spazio planetario.

Flaiano forse non gradì, sempre da lassù, trovando esagerata la pretesa dell’ex sindaco, ex senatore e ed ex d’altre cose ancora di paragonarsi al suo marziano. Ma potrebbe rifarsi adesso con la sindaca grillina Virginia Raggi, viste le prove che, succeduta in Campidoglio a Marino, la signora sta dando, volente o nolente, cioè sbagliando da sola o con l’aiuto dei suoi amici e dirigenti di un partito non a caso chiamato 5 Stelle, in qualche modo proveniente quindi dallo spazio nella immaginazione collettiva.

La chiamata alla guida dell’assessorato capitolino al Bilancio di una quarta persona in un anno, scegliendo o accettando in questa occasione l’indicazione di un compagno di partito  sperimentato a Livorno, con precedenti alla cassa di una discoteca ma consapevole a tal  punto dei propri limiti da dire lui stesso che “se ci sono, le  mie competenze verranno fuori poco alla volta”, ha fatto rizzare i pur pochi capelli che ha già alla sua età il povero Marco Travaglio, solitamente indulgente, comprensivo e altro ancora con i grillini, ma forse fiducioso a sua volta nella loro comprensione quando è obbligato pure lui a storcere il naso. Come gli è appena accaduto scrivendo sul suo Fatto Quotidiano, che l’andirivieni di assessori, dirigenti, consulenti eccetera in Campidoglio “è l’ennesima prova del dilettantismo, del pressappochismo, dell’improvvisazione e dell’inesperienza in cui non solo Virginia Raggi, ma tutto il M5S hanno affrontato un’impresa di per sé disperata: governare Roma”. Ma per poi governare la Sicilia, a novembre, e poi ancora tutta l’Italia. Che oltre ai terremoti dovrebbe quindi meritarsi anche questo.

E’ francamente difficile che da qui al 30 settembre, quando scadranno i termini per il cosiddetto bilancio consolidato del Comune di Roma,  considerando anche le voragini delle aziende municipali, in particolare l’Atac, il nuovo assessore troverà il tempo per svelare tutte le sue competenze recondite ed evitare il commissariamento -questa volta vero, non quello politico già in corso da tempo ad opera dei dirigenti del suo partito: un commissariamento disposto dal governo e previsto  o temuto da Federica Tiezzi. Che non è una maga seduta a fare le carte all’angolo di qualche strada della Capitale, magari al primo incrocio a sinistra dopo la scalinata del Campidoglio, ma la presidente del collegio dei revisori dei conti del Comune di Roma. Che naturalmente fa i conti, appunto, in euro, non in lire e neppure in sesterzi.

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net il 26 agosto 2017

Il contributo degli intellettuali al linguaggio e alla politica dell’odio

Se fosse solo una questione di linguaggio, pur con la diffusione moltiplicata dalla tv, dove la ricerca dell’audience è esasperata, e da quelli che Enrico Mentana ha brillantemente definito una volta “webeti”, potremmo anche fare spallucce all’odio che pervade la comunicazione e intossica i rapporti sociali e persino personali. Sì, lo so. Le parole possono ferire come pietre. “L’intera società –ha scritto sul Corriere della Sera Claudio Magris- è culturalmente e umanamente una plebe volgare e pretenziosa”. Ma siamo pur sempre alla lapidazione come metafora.

Il guaio è che l’odio è diventato anche una componente della politica, dove la tolleranza sembra a volte scambiata per una parolaccia, come una volta si disse a sinistra del riformismo.

La tolleranza è ormai sinonimo di resa, di vigliaccheria. La riflessione e il ripensamento che ne può conseguire equivalgono spesso nel confronto politico al tradimento. E anche il confronto è diventato pleonastico, perché è più di moda lo scontro, fino alle estreme conseguenze, che nella vita dei partiti sono le scissioni, comuni ormai a tutte le forze: grandi, medie, piccole e persino piccolissime.

Si attribuì una volta alle ideologie la tendenza all’intolleranza, al fanatismo e persino all’odio. Ma non mi sembra francamente che il quadro sia cambiato con la fine delle ideologie. Tutt’altro: dai calci nel sedere di Alcide De Gasperi promessi nel 1948 da Palmiro Togliatti, uomo di grandissima cultura ma smanioso di vincere le elezioni col suo fronte popolare destinato invece ad essere sconfitto, si è passati l’anno scorso alle pur folcloristiche parole del governatore della Campania Vincenzo De Luca contro la presidente della commissione antimafia Rosy Bindi, peraltro sua compagna di partito. “L’ucciderei”, si lasciò sfuggire il personaggio meglio imitato da Maurizio Crozza, non perdonando alla Bindi di avergli fatto rischiare la sconfitta nelle elezioni regionali del 2015 con la decisione di inserirlo quasi sulla soglia delle urne in una lista di “impresentabili” per pendenze giudiziarie. Si, lo so, anche a Roma si grida per strada “t’ammazzerei” e “li mortacci tua” più a vanvera che seriamente, ma un dirigente politico dovrebbe darsi un altro linguaggio. E non irrompere con un cappio nell’aula di Montecitorio, come fece il legista Luca Leoni Orsenigo a suo tempo, o spettacolizzare la loro opposizione, sempre in Parlamento, come fanno i grillini scimmiottando i vecchi comunisti alla Giancarlo Pajetta. Che avevano però ben altre credenziali per esasperare l’opposizione, per esempio quando contrastarono animatamente, diciamo così, la cosiddetta legge elettorale truffa, essendosi fatta molte volte la galera per restituire al Paese una democrazia che non c’era.

Non parliamo poi dell’odio planetario, senza frontiere, diffuso e praticato nel mondo dal terrorismo islamista, rispetto al quale l’odio di casa nostra diventa una bazzecola.

Intervenute nel dibattito aperto dal Dubbio appunto sul linguaggio dell’odio e persino sull’azione che in Italia n’è conseguita, e può ancora conseguire, prima Tiziana Maiolo e poi Stefania Craxi si sono richiamate alla stagione per niente gloriosa delle cosiddette mani pulite: la prima ricordando i cortei di quanti a Milano incitavano i vari Antonio Di Pietro a farli sognare con le manette e la seconda denunciando il linciaggio del padre Bettino la sera del 30 aprile 1993, dopo che la Camera aveva osato rifiutare alcune delle autorizzazioni a procedere chieste contro di lui per il diffusissimo fenomeno del finanziamento illegale della politica, e per la corruzione che poteva averlo accompagnato. Ma che non sempre l’accompagnò, come dimostrarono tante sentenze destinate a non fare notizia né in prima pagina né all’interno dei giornali.

Certo, quello contro l’allora già ex segretario socialista, dimessosi spontaneamente dopo l’arrivo degli avvisi di garanzia, e quando già le voci di un suo coinvolgimento nelle indagini gli avevano procurato al Quirinale il rifiuto dell’incarico di presidente del Consiglio, fu uno spettacolo ignobile. Fu un’ostentazione d’odio allo stato puro, si fa per dire: qualcosa che grida ancora vendetta, e non solo perché Craxi poi sarebbe morto anche di quello spettacolo, in un esilio contestato dai magistrati in quanto considerato latitanza, nonostante Bettino fosse espatriato sei anni prima con un regolare passaporto. E non fosse andato a nascondersi in qualche caverna, trovandosi a casa sua, in Tunisia.

Tiziana e Stefania hanno ragione. Ma una volta fu proprio Bettino, ad Hammamet, a consolarsi di quell’orrendo linciaggio subìto davanti all’albergo dove risiedeva a Roma dicendomi che ad altri era capitato di peggio. E sapete a chi si richiamò? Al povero commissario di polizia Luigi Calabresi. Che era morto ammazzato a Milano come un cane sotto casa il 17 maggio 1972, meno di un anno dopo che più di settecento intellettuali -ripeto, intellettuali- avevano firmato un manifesto pubblicato a più riprese sull’ Espresso per attribuirgli praticamente la responsabilità della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, fermato in Questura per la strage del 12 dicembre 1969 in Piazza Fontana, sempre a Milano. Un magistrato che sarebbe poi diventato senatore della sinistra, Gerardo D’Ambrosio, e fra i protagonisti delle indagini su “Mani pulite”, era stato scambiato per un fascista avendo scagionato Calabresi dall’accusa di avere lasciato buttare giù il povero Pinelli da una finestra durante gli interrogatori.

Eletto alla Camera nel 1968, Craxi all’epoca dell’assassinio del commissario papà dell’attuale direttore di Repubblica, era con Giovanni Mosca uno dei due vice segretari del Psi guidato da Francesco De Martino. Ne sarebbe diventato il successore nel 1976 per sollevare il partito dal minimo storico al quale era ridotto. Già allora Bettino maturò la diffidenza, a dir poco, verso gli intellettuali che, prima ancora dei partiti e dei magistrati, o di certi magistrati, si erano arrogati il diritto di dividere insindacabilmente l’Italia fra buoni e cattivi e di fomentare contro quest’ultimi campagne di discredito e di odio anche a costo di armare i fanatici di turno: tanti piccoli Robespierre in esercizio permanente effettivo, di cui -mi disse Bettino- non sapeva se impressionarsi più per il numero che per la qualifica.

Quando divenne capo del Psi Craxi cercò di invertire anche quella rotta sbottando una volta contro “gli intellettuali dei miei stivali”. I meno giovani o più anziani lo ricorderanno. E ricorderanno anche gli insulti che si rimediò e contribuirono ad affilare la matita del non ancora pentito Sergio Forattini, che nelle sue vignette su Repubblica gli infilò gli stivaloni neri alla Benito Mussolini e- ahimè- lo appese con la testa in giù.

Era satira, mi direte. Ma non fu satira la scopiazzatura di Piazzale Loreto quella sera del 30 aprile 1993, quando su Craxi si rovesciarono sputi, insulti, monetine, accendini, ombrelli e quant’altro. Gli scalmanati non riuscirono tuttavia a intimidirlo e a farlo rinunciare ad uscire dal portone principale dell’albergo Raphael, come invece gli consigliavano gli addetti alla sicurezza: non so se più la loro, di sicurezza, o quella del “cinghialone”, come Craxi veniva definito anche nella Procura di Milano, oltre che sui giornali ostili.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

Dal Campidoglio a Santa Maria della Pietà

C’è un grande traffico pedonale sulla scalinata del Campidoglio. Traffico di turisti, i soliti che fortunatamente continuano ad arrivare nella Capitale d’Italia, per quanto brutte siano le notizie che ne ricevono nei loro paesi. Per fortuna la curiosità e la cultura, quella naturalmente del passato, tirano ancora.

Meno consolante però è il grande traffico di assessori, dirigenti, assistenti e quant’altro del Comune: quelli in discesa, cacciati dalla sindaca grillina Virginia Raggi, che ormai non bada più alle forme, senza cercare di invogliarli a “spontanee” dimissioni, e quelli in salita, che si portano appresso pesanti valigie perché provengono generalmente da fuori città, provincia e regione: non ancora dall’estero, ma vedrete che prima o poi la prima cittadina di Roma e quanti la consigliano, e noi imprudenti giornalisti scambiamo per commissari politici, allungheranno lo sguardo anche oltre i confini nazionali. In Venezuela, per esempio, c’è un bel po’ di disoccupazione di classe dirigente in cui poter pescare. Parlo naturalmente del Venezuela vero, non di quello della dittatura del generale  cileno Pinochet spostata sul mappamondo di Montecitorio dal vice presidente grillino Luigi Di Maio. In previsione del cui arrivo a Palazzo Chigi hanno cominciato a rimuovere tutte le carte geografiche appese alle pareti.

Il sovranismo, sotto tutte le sue forme, che accomuna un po’ grillini, leghisti e fratelli d’Italia,  non a caso ritrovatisi come elettori l’anno scorso, nel ballottaggio col candidato del Pd Roberto Giachetti, a sostenere la Raggi, è un po’ in tensione in questi giorni.

La gara che la sindaca di Roma ha ormai ingaggiato col potente presidente americano Donald Trump a chi fa più cambiamenti fra Campidoglio e Casa Bianca, rimuovendo e assumendo, può bene inorgoglire il sovranismo nazionale. Ma c’è anche un sovranisno, diciamo così, locale da rispettare, nel senso del rapporto fra l’amministrazione, appunto locale, che un sindaco è chiamato a guidare e il territorio che lo ha eletto, peraltro a scrutinio diretto. Va bene, Roma è ridotta male. Ma è possibile che all’interno delle sue mura, del suo raccordo anulare, della sua regione, non si riesca a trovare, o lo si trovi sempre più di rado uno capace di fare l’assessore, il dirigente, il consulente?

Persino al Fatto Quotidiano diretto da Michele Travaglio, che storpia polemicamente nomi e cognomi a tutti quelli da cui dissente con la sola eccezione dei grillini, almeno per quanto io ricordi, hanno cominciato a sbarellare. E a chiedersi che cosa stia accadendo lungo la scalinata del Campidoglio e nei dintorni. Il furto, reale o metaforico, di cose e di competenze, che in quel giornale vedono dappertutto e di cui reclamano la severa punizione, si è finalmente guadagnato le virgolette di Travaglio, che le ha applicate alla Raggi e ai suoi consiglieri o consigliori che “rubano” dalla mattina alla sera a Livorno il nuovo assessore capitolino al bilancio. Il cui merito sarebbe stato quello di avere salvato l’azienda della raccolta dei rifiuti della città toscana ora a 5 Stelle col ricorso al concordato preventivo, anche a costo di finire sotto indagine e processo.

La cura del concordato preventivo per un’azienda comunale in dissesto era stata anche quella proposta per l’azienda dissesstatissima dei trasporti romani Atac da un direttore generale, anche lui assunto da fuori, che ha dovuto però rifare proprio per questo le valigie e tornarsene nella sua Lombardia. Gi si erano opposti non solo i numerosi sindacati che hanno contribuito a rendere l’Atac quella che è, ma anche la sindaca Raggi in persona e l’assessore del bilancio Andrea Mazzillo. Che però prima ha perduto alcune “deleghe”, cioè competenze, e poi il posto per essere sostituito appunto da quello che a Livorno ha salvato l’azienda dei rifiuti con la procedura fallimentare.

Non si capiscono allora i motivi dell’allontanamento cui è stato costretto l’ex direttore generale e capo dell’Atac. Ma soprattutto non si capisce perché ci si ostini a lasciare la sede dell’amministrazione comunale di Roma in Campidoglio, e a non trasferirla nel complesso di quello che fu l’ospedale Santa Maria della Pietà, che la Raggi dovrebbe conoscere bene perché vi abita vicino. Pietà, appunto, per la Capitale.

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