Ora si sciacquano in Arno i panni dell’ergastolano di mafia Graviano

Se Alessandro Manzoni andò a Firenze per “sciacquare in Arno i panni” dei suoi Promessi Sposi, come scrisse alla madre ritenendo che in riva a quel fiume si parlasse il migliore italiano possibile, gli storici delle stragi mafiose del biennio 1992-93 sono costretti di tanto in tanto a tornarvi per sapere una buona volta per sempre se ad ordinarle furono addirittura Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. Che, costruito in tutta fretta il loro partito col grido e il nome sportivo di Forza Italia, avrebbero chiesto e ottenuto dalla mafia il “regalo” di un po’ di attentati per dare il colpo di grazia alla cosiddetta prima Repubblica morente del morbo di Tangentopoli. E infatti – pensano i suoi avversari- Berlusconi vinse le elezioni anticipate del 1994, sottraendosi poi alla riconoscenza che la mafia si aspettava, per cui ora starebbe facendo i conti con i delusi o i traditi.

Un’indagine su questa ricostruzione della storia d’Italia attribuita ultimamente all’ergastolano di mafia Giuseppe Graviano, intercettato nella primavera del 2016 a colloquio con un suo compagno d’aria, è stata riaperta proprio a Firenze. Riaperta, perché sempre lì, sulle rive dell’Arno, hanno archiviato storie analoghe raccontate o attribuite ai pentiti di mafia Salvatore Cancemi e Gaspare Spatuzza. Ora si riprova con Graviano, appunto, che però qualche giorno fa, a proposito della stessa intercettazione di cui si stanno occupando a Firenze, si è rifiutato di rispondere al processo in corso a Palermo sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia, sempre lei, e sempre in quegli anni.

Quello di Palermo, specie dopo l’assoluzione  già rimediata da alcuni imputati o col rito abbreviato o in altra sede, è ormai un processo in sonno mediatico. Le sue udienze sono raccontate sempre da meno giornali, e da cronisti sempre più annoiati, per quanto sforzi compiano i pubblici ministeri di ravvivarlo: cosa che hanno fatto proprio con l’intercettazione di Graviano, dall’ascolto e dalla interpretazione controversa, a dire il vero, ma ugualmente mandata a tutti gli uffici giudiziari occupatisi delle stragi compiute in varie parti d’Italia e interessati quindi a saperne di più.

Una volta critici e dubbiosi avrebbero parlato di giustizia e indagini “a orologeria” per la loro coincidenza con passaggi elettorali, e col sospetto quindi ch’esse potessero o addirittura dovessero servire a danneggiare l’indagato o l’imputato impegnato direttamente o anche indirettamente nella competizione di turno. E Berlusconi lo è sia nella campagna elettorale per il voto siciliano di domenica prossima, 5 novembre, sia nella campagna elettorale per il voto politico nazionale previsto per il 4 marzo  dell’anno prossimo, o per qualche altra domenica successiva.

Adesso neppure più Berlusconi parla delle sue vicende giudiziarie con l’orologio in mano, bastando e avanzando il solo annuncio di un’altra indagine a suo carico per rafforzarne l’immagine di perseguitato. Non escludo pertanto che egli, forse trattenuto solo dal rispetto per l’amico Dell’Utri, già in carcere, non si decida a complimentarsi nelle prossime ore con gli inquirenti fiorentini per l’aiuto che involontariamente gli stanno dando in Sicilia e altrove.

 

 

Pubblicato da ItaliaOggi il 1° novembre 2017 col titolo: La solita ribollita contro Berlusconi

La festa del risparmio fra le celebrazioni centenarie di Caporetto

La giornata del risparmio, festeggiata quest’anno con particolare partecipazione da Ignazio Visco, appena confermato governatore della Banca d’Italia, coincide sfortunatamente con le celebrazioni, di cui sono pieni da una settimana i giornali e le trasmissioni televisive, del centenario della disfatta di Caporetto.

E’ una coincidenza sfortunata perché in qualche modo accomuna i nostri poveri soldati di cento anni fa, costretti alla ritirata o alla morte, spesso per fucilazione come traditori, ai risparmiatori che hanno dovuto più o meno recentemente gli effetti della cattiva gestione delle banche alle quali avevano affidato i loro denari. E su cui è ormai assodato che la vigilanza della Banca d’Italia è stata tanto zoppicante da avere indotto il presidente della commissione parlamentare d’inchiesta, Pier Ferdinando Casini, a lamentare “troppe ambiguità e complicità”. E siamo solo agli inizi dell’indagine parlamentare, che non è detto sia destinata a finire con lo scioglimento delle Camere, per conclusione ordinaria della legislatura, perché lo stesso Casini ha preannunciato di voler chiedere ai presidenti delle assemblee di lasciar lavorare la commissione anche nei due mesi e più che trascorreranno dallo scioglimento alle elezioni all’insediamento del nuovo Parlamento.

Sarebbe strano se ciò non fosse permesso, anche se esiste obiettivamente il pericolo di un incrocio alquanto tossico fra i lavori della commissione inquirente, le inevitabili fughe di notizie e la campagna elettorale. D’altronde, se si fosse voluto tener conto di questo rischio, denunciato dallo stesso Casini quando criticò, inascoltato, le proposte d’inchiesta parlamentare, si sarebbe dovuto fare a meno di approvare la legge istitutiva della commissione. Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca, come dice un vecchio per quanto ambiguo proverbio.

Resta ora da vedere se Ignazio Visco, prima orientato -secondo indiscrezioni non smentite- a non rendersi disponibile ad una conferma e poi convertitosi all’ipotesi contraria per reazione agli attacchi rivoltigli anche dal segretario del partito di maggioranza, è destinato a rimanere il generale Luigi Cadorna della disfatta di Caporetto o a diventare, strada facendo, nello svolgimento del suo secondo mandato, il generale Armando Diaz. Che portò le truppe italiane alla riscossa e uscì dalla guerra come il Duca della Vittoria.

Sarebbe una miracolosa trasposizione di persone, ma la politica -si sa- è capace di questo e di altro. E non è detto che la politica sia solo quella fatta dai politici. E’ spesso politica anche quella che fanno gli estranei, comprese le cosiddette autorità o istituzioni di garanzia: dal presidente della Repubblica alla Corte Costituzionale, e al governatore della Banca d’Italia. E’ politica tutto ciò che si fa con effetti sui cittadini che -unici davvero- debbono subire. E non sono abilitati ad eleggere né il capo dello Stato, né i giudici costituzionali, né il vertice di Bankitalia, né gli amministratori delle banche alle quali affidano i loro risparmi.

Politica e Bankitalia tra fuochi veri e fatui

Il fuoco vero in Val di Susa e quello metaforico che avvolge le campagne elettorali di Sicilia e d’Italia, la prima arrivata all’ultima settimana, votandosi nell’isola domenica prossima, e la seconda destinata purtroppo a protrarsi ancora per più di quattro mesi, pur essendo cominciata l’anno scorso, il giorno dopo la sconfitta personale e politica di Matteo Renzi nel referendum sulla riforma costituzionale, hanno distolto l’attenzione dall’affare Bankitalia. O dall’affare Ignazio Visco, come sarebbe forse meglio chiamarlo nonostante sia riuscito, con l’impulso dei presidenti della Repubblica e l’avallo del presidente del Consiglio dei Ministri, il tentativo dell’establishment finanziario di identificare il raddoppio del mandato del governatore con la difesa dell’autonomia dell’’istituto di via Nazionale. Dove però l’incendio è stato circoscritto, non domato perché è rimasta tra i piedi dei pellegrini e fedeli di Bankitalia la commissione parlamentare d’inchiesta da poco insediata e presieduta da un giovane veterano -scusate l’ossimoro- della politica che è Pier Ferdinando Casini. Sulla cui costanza credo che abbia scommesso il segretario del Pd Matteo Renzi quando, sollevato il caso di un governatorato che rischiava, e rischia, di tornare ad essere a vita con la conferma di Visco, ha ingoiato il rospo appunto del rinnovo, limitandosi a sottolineare la sua estraneità alla decisione spettante agli inquilini di Palazzo Chigi e del Quirinale.

Franco Bechis, vidirettore di Libero, fra i pochi giornalisti che quando si trovano a passare a Roma per via Nazionale non scattano sull’attenti  per fortuna davanti alla sede della Banca d’Italia, e non corrono  d’istinto in redazione a tradurre in qualche articolo la loro devozione per il santuario del pur ex istituto di emissione, ha scritto così del governatore appena confermato e di  Casini: “Proverà a fargli da scudo il presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema bancario, che però non ha le spalle così robuste per garantirlo”.

Ma è proprio sicuro Bechis che Casini abbia davvero voglia, dietro la gentilezza e persino l’allegria che suole riservare a tutti quelli con i quali ha rapporti, persino dopo polemiche e rotture, come nel caso di Silvio Berlusconi, di coprire ad ogni costo Visco, magari non riuscendovi solo per non avere le spalle “abbastanza grosse”? Io ci andrei più cauto. E per due motivi.

Il primo motivo sta nella fretta con la quale il presidente della commissione parlamentare d’inchiesta, consapevole di avere poco tempo a disposizione in una legislatura ormai agli sgoccioli, ha comunicato di voler chiedere, o ha già chiesto ai presidenti di Camera e Senato di autorizzare la prosecuzione del lavoro anche quanto interverrà il decreto di scioglimento delle due assemblee per esaurimento della legislatura, cioè tra la fine di dicembre e i primi giorni di gennaio, in modo da far votare gli italiani a marzo. Sarà difficile dirgli di no, specialmente a Pietro Grasso, che si è appena lamentato, dimettendosi dal Pd, della “violenza”  esercitata sul suo Senato col ricorso del governo alla fiducia sulla nuova legge elettorale. Sarebbe violenza anche quella del diniego ad una commissione d’inchiesta di lavorare sino a quando non si saranno insediate le nuove Camere.

Il secondo motivo per cui non credo che Casini non abbia, come dice Bechis, “le spalle” adeguate alle circostanze, sta nel modo abbastanza deciso in cui egli ha risposto ad una intervista a Repubblica a proposito dell’inchiesta sul sistema bancario appena dopo la conferma di Visco a governatore.

Non solo Casini ha ribadito la convinzione che la sorveglianza della Banca d’Italia sugli istituti di credito saltati in aria con i risparmi dei loro sfortunati clienti sia stata assai carente, caratterizzataèì da “troppe anomalie e complicità”. Egli si è anche rifiutato di commentare con la soddisfazione che forse si aspettava o cui mirava l’intervistatore il rinnovo del mandato del governatore, puntando magari sul fatto che il presidente della commissione aveva auspicato, di fronte alle polemiche sollevate da Renzi, una rapida decisione.

“Dare un giudizio sulla conferma del governatore -ha detto Pier Ferdinando Casini, non a caso chiamato dagli amici anche Pierfurby- prefigurerebbe già un giudizio chiaro su quel che accerteremo”. E con ulteriore dose di astuzia, coprendo in qualche modo Renzi dagli attacchi piovutigli addosso per le critiche e gli attacchi a Visco, il presidente della commissione parlamentare d’inchiesta ha concluso: “Tutto sommato, mi sembra che anche in altri paesi- penso gli Stati Uniti d’America- le nomine ai vertici delle autorità di vigilanza provochino intensi dibattiti politici”.

Dalla falsa truffa di De Gasperi alla falsa violenza di Renzi

Ah, quanto mi è mancato in questi giorni Giulio Andreotti, che all’occorrenza riusciva a raccontarti da cronista impareggiabile le vicende vissute da sottosegretario di Alcide De Gasperi alla guida del governo, sfatando errori e menzogne che si sprecavano dopo la morte dello statista trentino, prima che anche gli avversari ne scoprissero i meriti, soprattutto a sinistra.

Ad Andreotti avrei chiesto di raccontarmi bene questa storia montata dagli indignati -a sostegno dell’uscita di Pietro Grasso dal Pd contro l’ultima “violenza” inferta al suo Senato dal governo di Paolo Gentilon su pressione di Matteo Renzi ricorrendo alla fiducia sulla nuova legge elettorale- delle dimissioni di Giuseppe Paratore nel 1953 da presidente del Senato contro la fiducia posta da De Gasperi, anche lui su una legge elettorale. Che istituiva un premio di maggioranza al partito o alla coalizione che avesse raggiunto di suo la metà più uno dei voti. Ci volle del coraggio a definirla “legge truffa”, peraltro neppure scattata poi nelle urne, e per poco, senza che De Gasperi fosse minimamente tentato di chiedere un controllo dei risultati, come gli consigliava invece il ministro dell’Interno Mario Scelba.

Eppure il Pci di Palmiro Togliatti, che non perdonava a De Gasperi di averlo allontanato dal governo dopo un viaggio in America dal quale  era tornato con un bel po’ di aiuti per la ricostruzione del Paese uscito a pezzi dalla seconda guerra mondiale, non ebbe esitazione a bollare appunto come “truffa” quella legge che oggi nessuno, neppure fra i nipoti di Togliatti, si sognerebbe di contestare.

Pur senza l’aiuto di prima mano della buonanima di Andreotti, ma riandando ad alcuni suoi vecchi racconti personali e navigando un po’ in internet, questa storia di Paratore antesignano di Grasso, per quanto avallata da illustrissimi notisti, non sta proprio in piedi.

Non sta in piedi non solo perché Paratore il 23 marzo 1953 si dimise da presidente del Senato, mentre il suo corregionale Grasso si è dimesso solo dal Pd tenendosi ben stretta, almeno sinora, la seconda carica dello Stato. Ma anche o soprattutto perché Paratore non si sentì  “violentato”, come Grasso ora da Paolo Gentiloni e dal Pd renziano, dalla decisione di De Gasperi di ricorrere alla fiducia sulla legge elettorale con la quale si sarebbe votato il 7 giugno di quello stesso anno.

Paratore si dimise per protesta contro le gazzarre ostruzionistiche delle opposizioni, che avevano trasformato l’aula del Senato in un ring vero e proprio, con gli assalti fisici seguiti alle parolacce. Ecco il testo della sua lettera di rinuncia alla presidenza, consegnata al vice presidente Enrico Molè, di sinistra: “La situazione creatasi dopo gli incidenti di questi giorni, e le mie condizioni di salute, mi impongono di presentare le dimissioni da presidente del Senato. Prego l’assemblea di accoglierle per evitarmi una conferma”.

A 76 anni di età, anche se destinato a viverne ancora quattordici, morendo da senatore a vita a 90, il povero Paratore non se la sentì di crepare in aula col cuore malandato che riteneva di avere. E la sua paura non era per niente immotivata perché Meuccio Ruini, eletto al suo posto, per poco non rischiò l’ospedale nella seduta del 29 marzo, quando la legge elettorale fu finalmente votata.

Il senatore comunista Clarenzo Menotti sradicò il leggio dal suo banco e lo lanciò con tutta la forza che aveva contro il presidente dell’assemblea, mentre il compagno di partito Velio Spano, a stento trattenuto dai commessi, cercava di lanciare una poltrona. Andreotti mi avrebbe poi raccontato di essersi messo al riparo da quella  bolgia infilandosi sotto i banchi del governo.

Colpito dalla tavoletta, il presidente Ruini fu soccorso dai commessi che lo trascinarono via mentre lui proclamava i risultati della votazione dichiarando approvata la legge. E Grasso ora ha avuto il coraggio di parlare di “violenza” contro di lui e il suo Senato, tanto da bollare “la deriva” del suo partito abbandonandolo, ma senza dimettersi -ripeto-   dalla presidenza ottenuta quattro anni e mezzo fa.

Trovo significativo il silenzio che ha dedicato a Grasso nell’intervento domenicale su Repubblica Eugenio Scalfari commentando alla fine di un ragionamento sull’Europa gli sviluppi della politica italiana e, più in particolare, della sinistra. Sul cui fronte Barpapà ha smesso di criticare Renzi, pago evidentemente di averlo visto e sentito criticare ma non impedire la conferma dell’amico Ignazio Visco a governatore della Banca d’Italia. Che ora però se la dovrà vedere con la commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche, il cui presidente Pier Ferdinando Casini in una intervista proprio a Repubblica ha lamentato “troppe anomalie e complicità tra Bankitalia e istituti di credito”, dice il richiamo in prima pagina.

L’affare Grasso si ingrossa con i suoi attacchi politici

L’affare Grasso s’ingrossa, o ingrassa, con gli attacchi politici che il presidente del Senato ha deciso di rivolgere al Pd, da cui si è dimesso tenendosi però la sua importante carica istituzionale. Che persino il Manifesto, solidale col suo gesto e con gli attacchi al partito guidato da Matteo Renzi, ha sarcasticamente definito col titolone della sua prima pagina “Il soglio di Pietro”, giocando col nome proprio di Grasso.

Il tuttora presidente del Senato ha definito “violenza” quella che il governo avrebbe esercitato con le cinque votazioni di fiducia, per appello nominale, che hanno preceduto nell’aula di Palazzo Madama  l’approvazione definitiva della nuova legge elettorale, nello stesso testo quindi della Camera. Cui i senatori -ha lamentato Grasso- hanno dovuto soggiacere, senza potervi apporre modifiche.

Se è stata violenza, come ha detto Grasso davanti ai microfoni e alle telecamere, si deve presumere che i senatori in larghissima maggioranza l’abbiano subìta consenzienti. Gli altri, dissenzienti, sia quelli che sono rimasti in aula votando contro sia quelli che sono andati in piazza a dimostrare con bende e bavagli, avrebbero subìto non uno ma cinque stupri. E fra questi altri si è voluto aggiungere, con le sue proteste, anche il presidente dell’assemblea, tuttora -ripeto- in carica.

Lo scenario che deriva dalle parole di Grasso è a dir poco sconcertante. E si stenta francamente a credere che un uomo dell’esperienza giuridica di Grasso, arrivato alla politica dopo una lunghissima carriera giudiziaria, abbia potuto mettersi in questa situazione. Dalla quale si ha la sensazione, spero a torto, che non voglia recedere dimettendosi anche da presidente del Senato, mentre molti dei suoi estimatori o tifosi politici finiscono per aggravarne lo status proponendo la sua candidatura alla guida del  cartello elettorale di sinistra che si sta cercando di realizzare contro quel Pd  abbandonato da Grasso per non riconoscervisi di più “nè’ nel merito né nel metodo”.

Se così avvenisse davvero, il leader dello schieramento “avverso” a Renzi, direbbe Walter Veltroni, inutilmente spesosi per trattenerlo, parteciperebbe alle elezioni dell’anno prossimo avvantaggiato dalla sua carica istituzionale. Che lo farebbe anche capo supplente delle Stato, e del Consiglio Superiore della Magistratura, se Sergio Mattarella ne fosse impedito per una qualsiasi ragione.

Va inoltre detto che già durante la discussione sulla legge elettorale, per quanto strozzata o “violentata” dal ripetuto ricorso alla fiducia, Grasso ha dimostrato di avere una conoscenza non proprio esatta dei precedenti del suo gesto. Egli, per esempio, a chi da sinistra gli rimproverava di non dimettersi prima di accogliere le richieste di fiducia da parte del governo ha detto che Giuseppe Paratore nel 1953 si era dimesso da presidente del Senato dopo l’approvazione della legge elettorale liquidata dalle opposizioni come “truffa”, con  voto di fiducia richiesto dal governo di Alcide De Gasperi, e non prima.

Ebbene, il povero Paratore, peraltro siciliano come Grasso, si dimise prima della votazione di quella legge, e non contro il ricorso del governo alla fiducia ma contro il forte ostruzionismo che le opposizioni avevano deciso di condurre, e degenerato poi anche in disordini. E si dimise, il buon Paratore, davvero. A succedergli fu infatti eletto Meuccio Ruini.

Un’ultima osservazione mi sembra opportuna a proposito dei precedenti, cui sempre si ricorre per giudicare fatti e persone della politica.

E’ stata evocata, per giudicare la permanenza di Grasso alla presidenza del Senato dopo la rottura col partito che ve l’aveva praticamente mandato all’inizio della legislatura, l’esperienza di Gianfranco Fini, rimasto al vertice della Camera nel 2010 dopo la rottura col Pdl.

In soccorso di Fini, per quanto fosse il leader della destra post-missina, intervenne allora nelle polemiche l’ex presidente della Camera Luciano Violante dicendo che lo stesso Fini era stato cacciato dal Pdl, dopo uno scontro diretto con Silvio Berlusconi, allora anche presidente del Consiglio.

Il presidente della Camera a quel punto -sostenne Violante- non poteva lasciare il suo alto incarico istituzionale perché così se ne sarebbe lasciata “la disponibilità” al governo, anche se -in verità- i dirigenti del Pdl si erano già dichiarati disposti ad eleggere al vertice di Montecitorio un esponente della sinistra.

Di Grasso, purtroppo per lui, non si può proprio dire che come iscritto al Pd ne sia stato cacciato, neppure dopo che il presidente del Senato aveva ritenuto di partecipare ad un raduno degli scissionisti, a Napoli, vantandosi di essere “un ragazzo di sinistra”. Grasso se n’è andato dal Pd di volontà e testa sua.

Grasso riesce a sorpassare anche il modello Fini

Il presidente del Senato Pietro Grasso, dimessosi dal Pd e dal relativo gruppo parlamentare per dichiarato e    “sofferto” dissenso politico, visto l’alto ruolo istituzionale anche di capo supplente dello Stato, e del Consiglio Superiore della Magistratura, in caso di impedimento di quello in carica, si trova adesso di fronte ad un’altra  difficile decisione. Egli deve scegliere, esaminando i cosiddetti precedenti, fra due modelli politici e umani, diciamo così.

Un modello è quello lontano in cui si trovarono accomunati Giuseppe Saragat e Sandro Pertini. Il primo si dimise nel 1947 da presidente dell’Assemblea Costituente quando il partito socialista che lo aveva designato a quella carica si spaccò con la famosa, storica scissione di Palazzo Barberini, da lui stesso peraltro promossa. Egli accettò di buon grado di essere sostituito dal comunista Umberto Terracini, per quanto la scissione socialista fosse avvenuta sul tema dei rapporti proprio col Pci, guidato allora da Palmiro Togliatti.

Pertini si dimise da presidente della Camera nell’estate del 1969 per un’altra scissione nel suo campo, cioè dopo la rottura del Partito Socialista Unificato, che l’anno prima, all’indomani delle elezioni, lo aveva designato al vertice di Montecitorio.

Pipa in mano ed elegante come sempre, per quanto ruvido di carattere, Pertini rinunciò alle dimissioni solo dopo che nel suo ufficio sfilarono più o meno metaforicamente un po’ tutti i partiti per rinnovargli la fiducia. Che peraltro non era, come non è tuttora richiesta dal regolamento della Camera dopo l’insediamento del presidente, per cui Pertini avrebbe potuto anche risparmiarsi le dimissioni, di cui invece aveva fortemente avvertito l’opportunità per ragioni -disse- di “correttezza”.

L’altro modello possibile è quello di Gianfranco Fini: l’ex leader post-missino rimasto nel 2010 alla presidenza della Camera dopo la rottura dei rapporti con l’allora Pdl, che ve lo aveva praticamente mandato due anni prima e ne reclamava inutilmente le dimissioni con dichiarazioni, fra gli altri, di Silvio Berlusconi, all’epoca presidente del Consiglio.

Va onestamente detto che ad aiutare Fini, se non a salvarlo, era intervenuto l’ex presidente della Camera Luciano Violante. Che, come tanti altri, politici e giornalisti, non aveva capito bene se Fini fosse andato via spontaneamente dal Pdl o ne fosse stato espulso da Berlusconi dopo quel famoso scontro in un’assemblea di partito dove il presidente della Camera si era alzato dal suo posto, in platea, e aveva chiesto al presidente del partito e del Consiglio, col dito alzato e furente: “Che fai? Mi cacci?”.

Nel dubbio Violante preferì mettere nel conto l’ipotesi più favorevole all’imputato, diciamo così,: quella del cacciato. E sostenne che non potesse essere praticamente lasciata nella “disponibilità” del capo del governo, a quel punto, la presidenza della Camera allontanandone Fini.

Nel caso di Grasso mi sembra difficile sostenere, salvo fatti e circostanze non conosciute al momento, che egli sia stato estromesso dal Pd.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

Un pò troppe le scommesse sul governatore di Bankitalia

Onore al merito, per quanto involontario. Il migliore titolo, in assoluto, sul raddoppio del mandato del governatore uscente dell’ex istituto di emissione è quello sfuggito -credo- al Fatto Quotidiano di Marco Travaglio. Che, forse distratto da una furiosa polemica con l’ex sindaco di Torino Piero Fassino sui propri presunti trascorsi fascisti di gioventù, non si è accorto del regalo all’odiato Matteo Renzi compiuto sfottendolo, al solito, per “il capolavoro” realizzato con la conferma del governatore uscente della Banca d’Italia. Di cui invece il segretario del Pd aveva fatto chiedere dal gruppo dei suoi deputati  la sostituzione con una mozione approvata nell’aula di Montecitorio martedì 17 ottobre, e fornita del parere favorevole del governo regolarmente in carica: incredibile ma vero, viste le decisioni che il presidente del Consiglio avrebbe poi assunto.

Il titolo del giornale di Travaglio dice testualmente: “Vincono Gentiloni e Colle- Bankitalia, il capolavoro di Renzi: Visco dimezzato ma confermato”.

Non ho parlato con Renzi, né lo frequento. Ve lo giuro. Ma scommetto un mese della mia pensione, mi spiace se alleggerita dell’obbligatorio contributo di solidarietà, sulla reazione soddisfatta del segretario del Pd sul treno che lo sta portando in giro per l’Italia quando ha visto e letto la prima pagina del Fatto Quotidiano.

Essere riuscito a “dimezzare” il governatore uscente e rientrante della Banca d’Italia, accusato con una mozione parlamentare approvata con 231 voti contro 97 di non avere fatto vigilare abbastanza sugli istituti di credito dissanguati dai loro incauti amministratori, e subirne la conferma con senso di responsabilità, spettando la decisione ad altri più in alto di lui, a Palazzo Chigi e al Quirinale, è stato ed è un capolavoro davvero per Renzi. Che ha potuto così sottrarsi al piattino, preparatogli a Montecitorio, di una campagna elettorale che avrebbe permesso ai grillini , promotori di un’altra mozione, di attribuire anche, anzi soprattutto a lui, segretario del partito di maggioranza, la responsabilità politica della conferma di Visco.

Il Corriere della Sera ha giurato e garantito in un titolo, anch’esso in prima pagina, che anche il secondo mandato del governatore uscente della Banca d’Italia “durerà sei anni”, cioè altri sei anni, per un totale di dodici. Che farebbero di Visco un governatore quasi a vita, come avveniva sino al 2005, quando la sfortunata conclusione del mandato di Antonio Fazio, incorso in guai giudiziari, indusse il legislatore a ridurne la durata per i successori.

Il Corriere ha insomma scommesso sulla sopravvivenza del secondo mandato di Visco alle difficoltà che lo attendono: a cominciare dalle sue deposizioni davanti alla commissione d’inchiesta parlamentare sulle banche per finire con le valutazioni degli inquirenti. I quali, se non faranno in tempo a concludere il loro lavoro in questa ormai declinante legislatura, saranno prevedibilmente sostituiti da altri nella prossima, se il Parlamento rinnovato  non rinuncerà ad occuparsene.

Il fatto -al minuscolo- è che sul povero Visco sono stati un po’ troppi a scommettere in questi giorni: Renzi su una sua rinuncia alla conferma per non restare in Paradiso, come si dice, a dispetto dei santi, e almeno una parte degli avversari di Renzi sulla capacità del governatore di superare le rapide delle inchieste parlamentari e d’altro tipo sui dissesti bancari che molto difficilmente possono essere avvenuti senza un difetto di vigilanza.

A quanti -e sono stati tanti- sono insorti contro il segretario del Pd in nome dell’autonomia della Banca d’Italia, che lui avrebbe cercato di manomettere impicciandosene, vorrei ricordare che in nome dell’autonomia della magistratura si sono compiute, e purtroppo anche tollerate molte ingiustizie.

Finalmente dismessi gli abiti elettorali della Consulta

A dispetto dei bavagli e delle bende grilline contro la nuova legge elettorale, i cui contenuti e le cui modalità di approvazione avrebbero tolto la voce e gli occhi alle Camere, col cosiddetto Rosatellum il Parlamento si è ripreso la paternità delle regole con cui farci votare.

E’ stata scongiurata la prospettiva, preferita invece dai grillini, ma originariamente indicata come l’obiettivo del tanto vituperato Matteo Renzi, di mandarci alle urne con le due leggi -una per la Camera e l’altra per il Senato- confezionate nella sartoria della Corte Costituzionale. Dove però si usano solo le forbici, per tagliare le parti considerate illegittime delle norme sottoposte a giudizio, senza passare poi all’ago e al filo, come si fa con gli abiti, per cucire ciò che resta.

Per il Parlamento, che già non gode di grande popolarità da qualche tempo, e più in generale per la politica troppo spesso preceduta dalla magistratura,  che è il maggiore dei cosiddetti poteri forti, sarebbe stato uno smacco ulteriore, forse il più disastroso, se fossimo andati a votare col sistema doppio del cosiddetto Consultellum.

Non foss’altro per questo, ho subito diffidato delle polemiche esplose, per i contenuti e per le forme, contro il Rosatellum, anche quando a parteciparvi è stato pure il presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano. Che stimo moltissimo e non mi ha deluso neppure stavolta, avendo ribadito nell’aula di Palazzo Madama le sue critiche finendo però per concorrere sia alle fiducie sia all’approvazione della legge, preferibili rispettivamente alla instabilità di governo e a un “nuovo caos”.

“Re Giorgio” ha fatto un po’ il pubblico ministero in questo delicatissimo passaggio parlamentare e politico  -lui, poi, che al Quirinale ha voluto e saputo coraggiosamente tenere testa a certi procuratori, aggiunti e sostituti- ma dimostrando che si possono conciliare accusa e garantismo.

Come i budini del vecchio proverbio inglese, la prova delle leggi elettorali sta nel mangiarle, cioè nell’applicarle.  Chi a sinistra e a destra protesta e sostiene il contrario si contraddice, avendo contribuito l’anno scorso alla bocciatura referendaria della riforma costituzionale targata Renzi, in cui c’era la concessione assai generosa alle opposizioni di non applicare una nuova legge elettorale senza il preventivo esame e giudizio della Corte Costituzionale. I signornò non apprezzarono, o non capirono, accecati dal desiderio e dall’obiettivo della bocciatura non tanto della riforma quanto dell’allora presidente del Consiglio. Che, dal canto suo, invogliò gli avversari promettendo un ritorno totale a casa, salvo ripensarci dopo la sconfitta e riprendere a lottare su altri fronti.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio col titolo: “Re Giorgio” fa il Pm garantista

Pietro Grasso al Senato come Gianfranco Fini alla Camera nel 2010

Pietro Grasso ha fatto come Gianfranco Fini, che nella scorsa legislatura si dimise dall’allora Pdl tenendosi però ben stretta la carica di presidente della Camera ottenuta all’inizio della legislatura su designazione di quel partito.

In qualche modo Grasso ha fatto anche di peggio sul piano politico. Fini aveva davanti a sé ancora mezza legislatura, per cui poteva vantare l’attenuante della carne debole. Il presidente del Senato ha invece lasciato il Pd, e relativo gruppo parlamentare, a pochi mesi dalla conclusione del suo mandato. Non ha saputo resistere, evitando le dimissioni anche dalla carica istituzionale, neppure a pochi mesi di incarico.

Eppure durante la discussione sulla nuova legge elettorale, interrompendo un senatore che gli rimproverava di avere autorizzato il ricorso plurimo alla fiducia e di essersi lasciata scappare l’occasione di lasciare il Senato quando gli fu offerta, in estate,  la candidatura a governatore della sua Sicilia, Grasso aveva indossato la corazza degli obblighi istituzionali.

Il presidente del Senato, supplente del capo dello Stato quando questi è impedito, non ha accettato la candidatura alla guida della regione siciliana, ma non ha saputo resistere alla voglia di dare una mano politica agli scissionisti del Pd lasciando anche lui il partito dell’odiato Matteo Renzi. E ciò in vista delle elezioni politiche, la cui campagna è in corso da quasi un anno.

Sarà stato un eccellente magistrato, per carità. Ma come politico e presidente del Senato l’illustrissimo Pietro Grasso non si è rivelato all’altezza delle aspettative, almeno di una parte di quelli che lo vollero  quattro anni fa al vertice di Palazzo Madama e lo votarono. Peccato. Un peccato aggravato da regolamenti parlamentari che, non prevedendole, di fatto impediscono tanto legittimamente quanto curiosamente mozioni o ordini del giorno di sfiducia ai presidenti delle Camere. Alcuni dei quali però sentirono in passato lodevolmente lo scrupolo delle dimissioni nel momenti in cui cambiavano o si trovavano senza il partito di originaria appartenenza. Ma erano, appunto, altri presidenti. E altri tempi.

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net il 27 ottobre 2017

Pubblicato da ItaliaOggi del 28 ottobre 2017 col titolo: Pietro Grasso ha fatto come Fini, anzi peggio- Forse fu un grande magistrato ma come politico certo no

Napolitano al Senato come un pm, ma garantista

Costretto dagli inconvenienti dei suoi 92 anni compiuti a fine giugno a parlare standosene seduto nell’aula del Senato, e affiancato dal vispo ex compagno di partito Ugo Sposetti, che con i suoi 70 anni compiuti a gennaio potrebbe essergli figlio, il presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano ha parlato sulla nuova legge elettorale, e sui cinque voti di fiducia che l’hanno blindata nel testo trasmesso dalla Camera, come un pubblico ministero. Che è un ruolo un po’ curioso per lui, distintosi nei lunghi nove anni trascorsi al Quirinale per avere voluto difendere con una certa durezza le sue prerogative presidenziali dalle invadenze della Procura della Repubblica di Napoli, nel procedimento penale sulla cosiddetta e presunta trattativa fra lo Stato e la mafia stragista di 25 anni fa. Egli ricorse con successo alla Corte Costituzionale per ottenere la distruzione delle  “incidentali” intercettazioni delle sue telefonate con l’indagato e poi imputato Nicola Mancino.

“Re Giorgio”, come affettuosamente più che criticamente veniva chiamato Napolitano già quando era al Quirinale, dopo che in gioventù nel suo Pci lo avevano scherzosamente chiamato “principe” per la straordinaria somiglianza fisica con Umberto di Savoia, ha assunto e svolto le funzioni della pubblica accusa contro modalità, e anche contenuti, della nuova legge elettorale a nome e per conto del carattere parlamentare della nostra Repubblica. Che sarebbe stato violato dalla strozzatura del dibattito imposto anche al Senato, come alla Camera, col ricorso per giunta plurimo alla fiducia, peraltro posta dal governo -ha detto Napolitano-  dopo “pressioni improprie” sul presidente del Consiglio Paolo Gentiloni.

Sulla paternità delle “pressioni”  Napolitano è stato un po’ reticente. A torto o a ragione, chi lo ascoltava ha subito pensato  tuttavia al segretario del Pd Matteo Renzi, anche se a chiedere l’intervento governativo è stato alla Camera  il capogruppo del Pd Ettore Rosato, il cui nome latinizzato è stato assegnato mediaticamente alla nuova legge elettorale per esserne stato lui il primo proponente. Al Senato invece si è mosso il capogruppo Luigi Zanda.

Potevate almeno ridurre le questioni di fiducia, ha detto Napolitano rivolgendosi alla povera ministra dei rapporti col Parlamento, Anna Finocchiaro, anche lei ex compagna di partito, che gli sedeva di fronte.

Il presidente emerito – cui la nuova legge non piace soprattutto per l’illusione che continuerebbe a dare agli elettori di votare, con quel nome del capo del partito accompagnato al simbolo sulla scheda elettorale, anche per il candidato alla guida del governo, nominato invece dal capo dello Stato-  è stato tuttavia nella sua inedita posizione di pubblico ministero un garantista.

Alla fine il bravo Napolitano, spiazzando quanti dai banchi di opposizione al governo speravano in chissà quale suo aiuto, ha chiesto alla Corte parlamentare l’assoluzione dei suoi imputati: legge e governo. Del conte Gentiloni, anzi, si è soffermato a tessere le lodi, in aula e pure fuori, riconoscendogli il merito di rappresentare come meglio non potrebbe la posizione e gli interessi dell’Italia sul piano europeo e internazionale.

Come la Parigi di Enrico IV di Borbone, 500 anni fa, anche la stabilità del governo in questi marosi interni e internazionali, e in questa “nevrotica” fine della legislatura, val bene le messe costituite dai cinque voti di fiducia imposti al Senato e dall’approvazione della legge con cui potere rinnovare le Camere fra qualche mese. E senza andare alle urne -ricordiamolo- con le due diverse leggi confezionate con le forbici, senza neppure l’ago e il filo, dalla sartoria della Corte Costituzionale.

“Ora occorre guardare avanti”, ha detto ad un certo punto il presidente emerito, come dall’estate va dicendo anche il segretario del Pd reclamizzando il suo libro, con la a maiuscola  dell’Avanti, e senza l’esclamativo finale della vecchia testata del socialismo italiano.

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