Il “caso La Russa” o il “caso La Stampa”, secondo le preferenze degli spettatori

Non ci voleva francamente molto a prevederlo. Attaccato dal segretario ed altri esponenti del Pd per la sua intervista alla Stampa sulla festa di liberazione e dintorni, il presidente del Senato ne ha contestato il titolo “volutamente fuorviante”. Che in prima pagina diceva ieri: “Non festeggio questo 25 aprile”. 

Ad una specifica domanda Ignazio La Russa aveva risposto: “Dipende. Certo non sfilerò nei cortei per come si svolgono oggi perché lì non si celebra una festa della libertà e della democrazia ma qualcosa di completamente diverso, appannaggio di una certa sinistra”. E aveva ricordato il suo modo istituzionale di partecipare alla festa, quando era ministro della Difesa e andò a depositare una corona al cimitero di Milano davanti al monumento dei partigiani. 

Ma la protesta di La Russa, espressa per agenzie d’informazione e altri siti elettronici, è stata respinta con la stessa procedura dal direttore della Stampa Massimo Giannini sostenendo di “non aver fuorviato un bel niente”. La polemica si è infine tradotta in uno scambio di lettere fra i due pubblicate oggi in prima pagina sullo storico quotidiano torinese. In cui da una parte La Russa ricorda episodi di intolleranza, a dir poco, che hanno frequentemente caratterizzato in piazza la festa di liberazione: ai danni, per esempio, delle rappresentanze delle forze ebraiche che parteciparono alla lotta contro l’occupazione nazifascita dell’Italia, o del padre di Letizia Moratti quando la figlia era sindaco di Milano. Dall’altra  parte Giannini, riducendo le contestazioni lamentate dal presidente del Senato a episodi  “del tutto marginali”, se la prende con “un busto di Mussolini” custodito da La Russa a casa sua invitandolo a scomodare Giorgia Meloni da Palazzo Chigi per “buttarlo via” insieme, a sostanziale titolo di liberazione della destra che entrambi rappresentano dalla dipendenza culturale e politica dal fascismo. 

Eppure nella stessa intervista di Paolo Colonnello al presidente del Senato, condotta con tono incalzante ma amichevole derivante dai rapporti esistenti tra loro da quando a Milano l’uno era cronista giudiziario e l’altro esercitava la professione di avvocato, la storia di quel “busto” si trova raccontata in un modo che lascia sospettare che il direttore della Stampa non l’abbia letta, o non le abbia voluto credere. Sentitela rileggendo con me il passaggio in cui si descrive La Russa che, rispondendo ad una domanda dell’ospite, lo accompagna in una ricognizione, chiamiamola così, destinata a sfatare la leggenda della sua casa trasformata in una specie di mausoleo fascista, con tanto di busto, appunto, di Mussolini. “In effetti -racconta Colonnello- è una statuetta poco ingombrante del Duce, con stivaloni e mani sui fianchi, appoggiata su una mensola di un corridoio in penombra”. La cui origine è così riferita da La Russa: “E’ un oggetto che apparteneva a mio padre, persona che adoravo, e che ho ereditato. Avrei dovuto buttarlo? E’ sempre stato in questo corridoio, insieme a un elmetto dell’esercito popolare cinese e a un fregio comunista dell’Urss”. 

E’ personalmente e francamente imbarazzante per un vecchio giornalista questa polemica del sessantenne direttore della Stampa condotta contro il presidente del Senato su simili basi. Una polemica, fra l’altro, che deriva dalla curiosa convinzione che  la liberazione dell’Italia dal nazifascismo debba essere celebrata a un livello istituzionale come quello ora di La Russa solo mettendosi a capo o nel mezzo di un corteo, cui non ricordo di avere mai visto un presidente in carica della Repubblica o del Senato. Pertanto mi chiedo se siamo più davanti a un “caso La Russa”, denunciato dal segretario del Pd Enrico Letta anche in una intervista al quotidiano piemontese in cui la seconda carica dello Stato è accusata di essere troppo “divisiva”, o ad un “caso La Stampa”, con tutto il rispetto dovuto, per carità, al quotidiano storico di Torino e fra i più diffusi e autorevoli giornali d’Italia.  

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Quel virgolettato galeotto di La Russa sulla festa di liberazione

Certo, a leggere su tutta la prima pagina della Stampa quel virgolettato del presidente del Senato Ignazio La Russa che con sei mesi di anticipo annuncia “Non festeggio questo 25 aprile”, viene subito voglia, d’istinto, di consigliare a Giorgia Meloni, peraltro reduce da una visita alla tomba del milite ignoto all’altare della Patria per “onorare il passato”,, come ha scritto, di guardarsi più dagli amici che dai nemici. E di ripetere l’omonima e celebre preghiera al Signore. 

Uno però va a leggersi l’intervista, raccolta da Paolo Colonnello nell’abitazione milanese di La Russa, con tanto di descrizione anche dei cimeli fascisti in parte ereditati dal padre, e scopre che quel virgolettato è alquanto forzato, a dir poco. A domanda -direbbe un verbale giudiziario- se “celebrerà il 25 aprile”, l’imputato risponde: “Dipende. Certo non sfilerò nei cortei per come si svolgono oggi. Perché lì non si celebra una festa della libertà e della democrazia ma qualcosa di completamento diverso, appannaggio di una certa sinistra”. Che infatti suole fischiare, per esempio a Milano, la rappresentanza delle formazioni ebraiche  partecipanti alla liberazione dell’Italia dal nazifascismo. 

“Non ho avuto difficoltà come ministro della Difesa a portare una corona di fiori al monumento dei partigiani al cimitero Maggiore di Milano. E non era un atto dovuto”, ha ricordato il presidente del Senato. Che come tale si è poi difeso anche da una domanda d’accusa su presenze che potrebbe risparmiarsi, come quelle recenti nella sede del suo partito e a Palazzo Chigi, quanto meno inopportune per la seconda carica dello Stato, cui meglio si addice “ un passo indietro”. 

Anche a questa domanda -per dirla giudiziariamente- l’imputato ha risposto. E, ripetendo “la promessa solenne” fatta dopo l’elezione al vertice di Palazzo Madama di “essere presidente di tutti, sforzandomi di garantire sia maggioranza che opposizione”, ha detto: “Solo a me hanno cominciato a guardare dove metto i piedi! Ricordo che Bertinotti, Fini e Casini erano capi di partito e facevano i Presidenti della Camera. Oppure ricordo il Presidente del Senato Forlani: altro che La Russa”. 

Quel Forlani naturalmente è un lapsus, al posto di Fanfani. Correttezza forse avrebbe voluto che l’intervistatore lo rilevasse con una interruzione, che mi rifiuto di credere evitata per allungare sull’intervistato l’ombra di una smemoratezza già all’età di 75 anni, oggi considerabile di normale anzianità, diciamo così. Di Fanfani comunque La Russa fa bene a ricordare quanto si è risparmiato di esplicitare: quella riunione di capicorrente del suo partito, la Dc, convocata nel 1973 a Palazzo Giustiniani, e da lui stesso presieduta, per rovesciare i risultati dei congressi locali svoltisi nelle precedenti settimane e indirizzare il congresso nazionale, alla sua immediata vigilia, verso una direzione opposta: la rimozione del pur fanfaniano Arnaldo Forlani dalla segreteria democristiana e di Giulio Andreotti da Palazzo Chigi col suo governo. In cui i liberali avevano preso il posto dei socialisti usciti due anni prima dalla maggioranza di centro-sinistra per l’elezione di Giovanni Leone alla Presidenza della Repubblica, non concordata con loro. 

Non per voler fare processi a giornali e giornaloni ma solo per rilevarne una fragilità quanto meno pari alla tanto bistratta informazione digitale, più immediata e ormai anche più diffusa, non mi sembra il caso di complicare ulteriormente da parte dei giornalisti una situazione politica già difficile di suo introducendo tensioni a dir poco forzate. Penso che La Russa troverà il modo di partecipare alla festa del 25 aprile a suo modo, come ha ricordato di aver fatto come ministro della Difesa, sapendo bene com’è nata la Repubblica in Italia: sulle ceneri di un fascismo troppo a lungo tollerato da una Monarchia per questo rovesciata nel referendum istituzionale del 2 giugno 1946. E sapendo bene anche quanto siano accesi i riflettori dell’antifascismo sul governo di destra-centro ai suoi primi passi.  

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Il sorpasso mancato di Giuseppe Conte sul pur incidentato Enrico Letta

Quel rompiscatole del professore Nando Pagnoncelli – come lo considereranno sotto le 5 Stelle- ha interrotto, o quanto meno disturbato, dalle colonne del Corriere della Sera la festa di Giuseppe Conte aperta ieri sul Fatto Quotidiano con l’annuncio del sorpasso sul Pd ancora di Enrico Letta, sia pure del solo 0,3 per cento. E certificato da Alessandra Ghisleri, la sondaggista di fiducia di Silvio Berlusconi, faceva notare il giornale di Travaglio. Che si divertiva anche a proporre allegramente Conte in versione Gassman nel film Il sorpasso del lontano 1962. 

L’Ipsos di Pagnoncelli ha appena attribuito invece al Pd il 18,8 per cento, alle 5 Stelle il 16, ai fratelli d’Italia di Giorgia Meloni il 29,8 per cento, quasi il 30, con un sostanzioso salto rispetto al risultato elettorale del 25 settembre ai danni della Lega, scesa all’8 per cento, e di Forza Italia, scesa al 6,1. Sono valutazioni, quest’ultime, concordi con quelle della Ghisleri, che avevano indotto ieri Il Fatto Quotidiano a titolare “Meloni si mangia FI”, in un rigo sotto il sorpasso di Letta da parte di Conte. 

Chissà se Pagnoncelli è riuscito a sollevare un pò l’umore del segretario del Pd, uscito malconcio, con critiche di segno opposto, dalle quattro ore di dibattito “psicanalitico” – come lo ha definito sul Foglio Salvatore Merlo- alla direzione del Nazareno, conclusasi con l’avvio del lungo percorso congressuale di “ricostituzione” del partito: lungo perché si concluderà con le primarie il 12 marzo dell’anno prossimo, fra cinque mesi. “Un’enormità” , ha commentato l’ex presidente del Pd Matteo Orfini dopo avere accusato i suoi compagni di sottovalutare ancora il Conte “ipocrita e trasformista” col quale alcuni vorrebbero riprendere al più presto l’alleanza, subendone anche la richiesta di cambiamento del “gruppo dirigente”. 

Dello stato di salute, diciamo pure della sorte del Pd -va registrato anche questo- comincia a preoccuparsi persino il Giornale di famiglia di Berlusconi perché -dice oggi nel titolo l’editoriale- “in coma fa male a tutti”, non solo a se stesso. Nostalgia delle passate comuni partecipazioni a maggioranze imposte da particolari difficoltà, come ai tempi di Enrico Letta nel 2013, prima che intervenisse la rottura per l’estromissione di Berlusconi dal Senato a causa della condanna definitiva per frode fiscale, o a quelli di Mario Draghi sino allo scorso mese di luglio? Chissà, può darsi, nonostante il discorso di riconciliazione  con Giorgia Meloni ancora fresco di stampa, diciamo così, pronunciato al Senato dal Cavaliere per la fiducia ad un governo di destra-centro in continuità di spirito, secondo lui, con i suoi di centro-destra succedutisi dal 1994.

Giorgia Meloni al Senato per la fiducia

Intanto la Meloni, in attesa di chiudere, forse lunedì, anche la partita dei vice ministri e dei sottosegretari, che si sta giocando fra tensioni nella maggioranza neppure tanto nascoste, ha risolto il problema da lei stesso creato con la richiesta di chiamarla al maschile nella denominazione della carica: il presidente del Consiglio. O, addirittura, come da un comunicato di Palazzo Chigi, “il signor presidente del Consiglio”. “Chiamatemi pure Giorgia”, ha familiarmente concluso il presidente del Consiglio, o la presidente del Consiglio, come le ha chiesto di correggersi la ex presidente della Camera Laura Boldrini. Quisquilie, avrebbe forse detto  Totò.

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Il soccorso della satira alla demonizzazione del nuovo governo

Sventata dalle circostanze, o dall’avvedutezza della cronologia voluta soprattutto dal presidente della Repubblica accelerando al massimo la parte conclusiva della crisi apertasi -non dimentichiamolo- a luglio con le dimissioni di Mario Draghi, e sfociata nelle elezioni politiche, la coincidenza tra la fiducia parlamentare al governo di destra-centro di Giorgia Meloni e il centenario della marcia fascista su Roma è rimasta appannaggio della satira. Un pò truce quella di Laura Pellegrini su Repubblica, con la firma di Ellekappa, che su sfondo nero ha sollevato la torta del centenario, appunto, col fuoco della fiamma tricolore che accomuna tutte le edizioni e trasformazioni della destra nata nella Repubblica italiana sulle ceneri del fascismo.

Meno truce, o più ironico, come preferite, è stato il vecchio Sergio Stajno sulla Stampa che per fortuna, con la Meloni a Palazzo Chigi già da lunedì, fornita della campanella passatale da Mario Draghi ben contento di avere finito il suo lavoro di presidente del Consiglio, il centenario della marcia di Roma “è ancora un giorno feriale”, oggi che è venerdì.

Del resto chi lo volesse malauguratamente trasformarlo in un giorno festivo, come in fondo mostra di temere anche il non conformista di sinistra Piero Sansonetti con quel vistoso titolo del suo Riformista sul permanente “rischio fascismo”, perpetuerebbe un falso storico, come ci ha raccontato sull’insospettabile Fatto Quotidiano il buon Claudio Fracassi. 

Quest’ultimo ha ricordato: “Mussolini, che non aveva fatto nemmeno un metro di Marcia, arrivò in treno alla stazione ferroviaria della Capitale alle 10,50 di lunedì 30 ottobre (altro che 28 ottobre, data storica inventata un secolo fa) in uno scompartimento-letto del treno direttissimo Milano-Roma che seguiva, secondo l’orario, il percorso Piacenza-Fornovo-Sarzana-Pisa-Civitavecchia-Roma. Il convoglio doveva arrivare alle 9,10, ma quel mattino comparve alla stazione Termini con un’ora di ritardo”. Anzi di più: un’ora e quaranta minuti.

Anche quel ritardo Mussolini si propose forse di riscattare perseguendo nella sua azione di governo l’ambizioso progetto, naufragato anch’esso col suicidio della seconda guerra mondiale con Hitler, di fare assomigliare l’Italia alla Svizzera per la puntualità dei suoi treni. Un progetto che alcuni decenni dopo, riproposto dalla destra che lui riteneva “in libera uscita dalla Dc”, un disincantato successore di Mussolini alla guida del governo come Giulio Andreotti paragonò a quello di un “pazzo” convinto di essere “Napoleone”. Il marito di Liviuccia, come abbiamo scoperto che chiamava la moglie leggendone ora le lettere che soleva scriverle frequentemente, col realismo che lo distingueva si accontentava che i treni viaggiassero con il minore ritardo possibile. E – temo per quanti ora si aspettano un altro ventennio, stavolta al femminile- che pure per Gorgia Meloni i treni debbano garantire puntualità sì, ma ancor più sicurezza, senza naturalmente arrivare ad essere né puntuali né sicuri. In tal caso la Meloni diventerebbe davvero la maschera rappresentata per altri versi  sul Fatto –e dove sennò?- dalla vignetta di  Riccardo Mannelli. Oddio, che ho scritto? Rischio di finire tra quelli bastonati ieri da Marco Travaglio nell’esprimere la “speranza” che Giorgia Meloni “sappia nuotare, vista la cascata di bava e saliva che la inonda e che affogherebbe pure Gregorio Paltrinieri”, il ventottenne campione del mondo in vasca lunga e nei dieci chilometri in acque libere. 

Il panico del Pd, la spietatezza di Conte e la disponibilità di Renzi

Più di “un’opposizione nel panico”, come Il Foglio ha titolato in rosso facendo un pò di tutta l’erba un fascio, io parlerei del panico del Pd, o almeno fra gli elettori che gli sono rimasti il 25 settembre scorso. E ciò a dispetto della tranquillità che cerca di mostrare, pur nella delusione, il segretario ormai uscente Enrico Letta. 

L’opposizione delle 5 Stelle mi sembra francamente rinfrancata, se non addirittura esultante, per avere perduto solo la metà dei voti  del 2018 con Giuseppe Conte. Al quale Beppe Grillo in persona ha voluto esprimere la propria gratitudine scendendo a Roma dalla sua Genova.

Impossibilitati per l’aritmetica, nonostante i loro algoritmi distorsivi, a tornare alla guida del governo come per buona parte della scorsa legislatura con Conte -sempre lui- a Palazzo Chigi alternando maggioranze di segno opposto, i pentastellati si accontentano di scalare la guida della lotta al governo di Giorgia Meloni. O di rafforzarla, visto che hanno già dato l’impressione di averla conquistata, o di esservi molto vicini per il panico, appunto, in cui trova il partito del Nazareno. Che mi sembra paradossalmente diviso fra chi intende inseguirli e chi intende subirli con la proposta di tornare il più rapidamente possibile alla politica di quanti già nella scorsa legislatura avevano riconosciuto all’allora presidente del Consiglio di essere “il più alto punto di riferimento dei progressisti”. Ricordate le interviste e i saggi di Goffredo Bettini, non arresosi neppure di fronte ai risultati elettorali del mese passato? 

Matteo Renzi e Carlo Calenda, sempre dall’opposizione con il loro terzo polo uscito dalle urne non come speravano ma comunque vivo, senza i prefissi telefonici sarcasticamente attribuitigli dagli avversari, si godono a loro modo lo spettacolo dell’inseguimento fra le altre due componenti dello schieramento del no al governo Meloni. E scommettono sulla possibilità di trarne prima o poi benefici, naturalmente a scapito del Pd. Al quale, per esempio, Renzi in persona nelle dichiarazioni di voto per la fiducia al Senato ha chiesto con abrasiva efficacia perché avesse deciso, unendosi alle argomentazioni grilline, di lasciare alla destra la bandiera del “merito”: la parolina magica, direbbe la buonanima di Amintore Fanfani, aggiunta da Giorgia Meloni alla denominazione del dicastero della Pubblica Istruzione già nella lettura della lista dei ministri al Quirinale e duramente contestata da sinistra.

Eppure nell’articolo 34 della Costituzione che si occupa proprio della scuola è scritto testualmente che “i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Ripeto: capaci e meritevoli. Tra il discorso dell’altro ieri al Senato di Renzi, peraltro marito di un’insegnante, e l’editoriale di ieri del professore Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera il Pd si è fatto dare una lezione che poteva risparmiarsi. E si è procurato lo spettacolo, comunque dannoso per l’opposizione unitariamente intesa, di quei sorrisi della Meloni a Renzi che si chiedeva se, sotto sotto, non ci fosse tra lei e il Pd un perfido accordo per aiutarsi a vicenda, l’una ricevendo regali dall’altro con polemiche a dir poco rovinose. 

Si dovrebbe poter sperare -ma ne dubito- che nel suo inseguimento dei grillini sulla strada di un’opposizione la più “spietata” possibile, per ripetere un aggettivo adoperato da Conte, il Pd abbia almeno il buon senso e il buon gusto di non adottare la filosofia, chiamiamola così, dell’intervento dell’esordiente senatore pentastellato Roberto Scarpinato, ex procuratore generale a Palermo. Che ha praticamente messo una serie di processi, alcuni dei quali gestiti anche da lui, al servizio della demonizzazione della destra: eversiva sia per un lungo elenco di accuse giudiziarie sia per il progetto presidenzialista ribadito nelle dichiarazioni programmatiche alla Camera dalla Meloni. Che naturalmente non si è lasciata scappare l’occasione per ricordare all’ex procuratore generale, nella replica, la penosa fine di certi processi politicizzati e i depistaggi delle indagini sfuggiti troppo a lungo alla magistratura sulla strage di via D’Amelio, a Palermo. Dove nel 1992 la mafia stragista riuscì ad uccidere, dopo Giovanni Falcone, anche Paolo Borsellino. 

Pubblicato sul Dubbio

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Giorgia Meloni “recupera” Berlusconi e si guadagna la difesa di Renzi

La fiducia ottenuta dal governo di Giorgia Meloni al Senato con 115 sì, 79 no e 5 astensioni vale politicamente il doppio di quella del giorno prima a Montecitorio. A Palazzo Madama si è visualizzata la riconciliazione con Silvio Berlusconi, la cui dichiarazione di voto motivata con la rivendicazione della paternità del centrodestra, pur diventato nel frattempo destra-centro, è stata accolta con sollievo da tutto intero il governo applaudente. “Il via libera di Berlusconi”, ha titolato con enfasi il Giornale di famiglia. E fra le opposizioni si è distinto per apertura o distinzione dalle altre componenti dello schieramento del no il pur “ammazzagoverni”, come lo ha chiamato Il Foglio, Matteo Renzi. Il cui discorso non a caso Giorgia Meloni ha seguito con segni evidenti di compiacimento, specie nei passaggi in cui l’ex presidente del Consiglio l’ha difesa dagli attacchi del Pd per “il merito” col quale ha completato la denominazione del Ministero della Pubblica Istruzione. 

Proprio oggi sul Corriere della Sera l’editorialista e docente universitario Ernesto Galli della Loggia scrive: “Chi ha cominciato a stracciarsi le vesti al solo sentire che con il governo Meloni la dizione del ministero dell’istruzione avrebbe visto l’aggiunta del merito, vedendo in ciò un subdolo attacco alla “scuola dell’eguaglianza”, e quindi direttamente alla democrazia, mostra di sapere ben poco della scuola, dell’eguaglianza e della democrazia. Sicuramente, tanto per cominciare, mostra di conoscere poco la nostra Costituzione che all’articolo 34, parlando dell’istruzione, menziona esplicitamente il merito”.   Non ha avuto quindi torto Renzi in Senato a chiedere al suo ex Pd perché mai ha deciso di regalare “alla destra anche il merito”.

Ma il Pd per pochi mesi ancora di Enrico Letta, dimessosi in vista del congresso, è molto condizionato dalla concorrenza a sinistra che gli pratica il MoVimento 5 Stelle guidato da Giuseppe Conte con l’appoggio ora incondizionato di Beppe Grillo. Che è appositamente sceso a Roma dalla sua Genova per ringraziare l’ex presidente del Consiglio di avere ridotto solo della metà i voti del 2018. Con la solita ironia spavalda ai giornalisti che gli rivolgevano domande il comico ha detto che non rilascia interviste gratuite. 

Anche Conte alla Camera nel suo discorso di esordio come deputato aveva cavalcato le polemiche contro “il merito”. Al Senato invece il movimento grillino ha voluto l’esordio da parlamentare dell’ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato. Del cui intervento contro il governo, trasformato in un processo ad una destra eversiva anche nella proposta del presidenzialismo, Mattia Feltri  sotto il titolo “Requisitoria” ha brillantemente scritto  e concluso sulla Stampa: “Ho perso presto il filo del discorso, ma sono quasi certo che alla fine Scarpinato abbia chiesto 15 anni di reclusione per Giorgia Meloni”. Che, dal canto suo, nella replica ha rinfacciato all’ex alto magistrato il sottofondo politico, a dir poco, di tante iniziative giudiziarie fallite e la tolleranza, a dir poco, verso i depistaggi delle indagini sulla strage in cui perse la vita a Palermo Paolo Borsellino nel 1992, poco dopo l’altra strage costata la vita a Giovanni Falcone e alla moglie. 

Ma la polemica che ha maggiormente contrassegnato  il dibattito al Senato per la  fiducia è stata quella sulla proposta della Lega, accettata dalla Meloni, di alzare il tetto del contante nelle spese: se non proprio ai diecimila euro chiesti da Salvini a tremila, secondo alcune anticipazioni. Sarebbe un piacere. secondo le accuse in particolare dei grillini, ai criminali e agli evasori. “Così finisce la continuità con Draghi”,ha titolato velenosamente Repubblica. L’ha messa invece un pò sul ridere, si fa per dire, Sergio Stajno sulla Stampa ipotizzando nella sua vignetta che l’inflazione possa fare a arrivare a diecimila euro il costo di “un caffè”. 

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Berlusconi a sorpresa sommerge di elogi Giorgia Meloni

Silvio Berlusconi al Senato

Persino Berlusconi -verrebbe da dire dopo tutti i problemi che le ha creato nel cantiere del governo, e quelli che un suo intervento annunciato per oggi al Senato sembravano in arrivo- si è sbracciato a casa in elogi del discorso programmatico di Giorgia Meloni alla Camera. Dove i sì alla fiducia sono stati  ieri sera 235 e i no 154. 

Titolo del Giornale

“Assai pregevole, definitivo, chiaro, condivisibile” sono gli aggettivi del Cavaliere, che pure la Meloni presentando il suo governo non aveva trovato, o voluto trovare il modo di citare non foss’altro come fondatore del  centrodestra, tornato  con lei a Palazzo Chigi  undici anni dopo l’uscita di Berlusconi. “Giorgia cambia marcia”, ha titolato il Giornale di famiglia, come per spiegare il maggiore apprezzamento, chiamiamolo così, dell’ex presidente del Consiglio nei riguardi della sua ex ministra salita così in alto. Dove l’amico e ministro della Difesa Guido Crosetto ha previsto o auspicato che rimanga per “dieci anni”, il doppio di quelli propostisi pubblicamente dall’interessata forse sentendosi ancora un pò “underdog”, cioè sfavorita, come lei stessa ha raccontato di essersi considerata per un lungo tratto della sua carriera politica. 

Giuliano Ferrara sul Foglio
Titolo del Foglio

“Madonna Giorgia”, ha scritto e titolato sul Foglio Giuliano Ferrara, pur reduce da un voto dato nelle urne al Pd “per pura compassione, una volta esaurita (ormai da anni) la forza propulsiva del Cavaliere”, ha spiegato quasi scusandone il primo ministro del centrodestra, nel 1994, per i rapporti col Parlamento. “Il presepe di Madonna Giorgia -ha scritto Giuliano- non mi ispirava e non mi ispira. Mi sembra tutto troppo facile, affidato come a un gioco di parole, di parafrasi, di facilismi parlamentari. Tuttavia sorpresa e spiazzamento li devo riconoscere. Avrebbe potuto fare di quell’Aula sorda e grigia un bivacco per i suoi simboli”, anziché dei “manipoli”  di Benito Mussolini cento anni fa, “invece sembrava la presidente del Consiglio scelta dagli elettori”. 

Giuseppe Conte alla Camera

Lo stesso Enrico Letta -il segretario del partito votato dal fondatore del Foglio, preferito anche al terzo polo di Carlo Calenda e di quel Matteo Renzi indicato otto anni fa proprio da Ferrara, con tanto anche di libro, come il “royal baby” di Berlusconi- ha prospettato a Montecitorio un’opposizione “inflessibile” sì ma obiettivamente assai diversa, meno aggressiva nei toni e negli argomenti, da quella “implacabile” intestatasi da Giuseppe Conte nel primo discorso pronunciato da parlamentare, essendo prima passato per quell’aula da esterno, direttamente come presidente del Consiglio. E come penso -ad occhio e croce- non tornerà mai più ad essere con quel partito pentastellato di cui lui stesso, guidando il governo per quasi metà della scorsa legislatura con maggioranze opposte, ha dimezzato i voti. Ne ha raccolti assai meno del Pd, cui però Conte contesta ora la guida dell’opposizione perché -ha praticamente spiegato con la dichiarazione di voto contro la fiducia- Enrico Letta non può rimproverare alla Meloni ciò che lui invece le rinfaccia ogni giorno: di avere ereditato la cosiddetta e famosa “agenda Draghi”. Infatti Letta nella stessa aula di Montecitorio, dopo di lui, è tornato a vantarsi di avere sempre sostento il governo Draghi, cui invece Conte nell’ultima curva della scorsa legislatura, anche a costo di provocare le elezioni anticipate, aveva ritirato la fiducia. 

Titolo del manifesto
Dalla prima pagina della Stampa

L’opposizione intesa in senso lato è insomma alla ricerca di un capo riconosciuto dalle sue varie componenti. La maggioranza di destra-centro, come l’ha orgogliosamente definita Tommaso Foti nella dichiarazione del voto di fiducia dei fratelli d’Italia, un capo ce l’ha, al femminile, per quanto possano sentirsi stretti Silvio Berlusconi e Matteo Salvini. E per quanto la Meloni possa essere definita “peronista” da Lucia Annunziata sulla Stampa, o far gridare “Povera patria” al manifesto.

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Che avranno mai fatto i caduti di Nassirya alla sinistra ?

Titolo del Dubbio

 In alcuni passaggi del discorso programmatico letto nell’aula della Camera Giorgia Meloni è riuscita, con l’abilità oratoria acquisita nella sua militanza politica e di piazza, a spingere anche la variegata opposizione di sinistra  ad unirsi agli applausi del suo centrodestra, levandosi persino in piedi con fratelli d’Italia, forzisti e leghisti

È accaduto, per esempio, quando la presidente del Consiglio ha ricordato Paolo Borsellino e gli altri magistrati assassinati dalla mafia, ha riconosciuto i meriti del personale sanitario nella lotta al Covid, o ha omaggiato Papa Francesco, anche se in questo caso piddini  e un po’ di grillini si sono uniti dopo qualche attimo di esitazione alla più tempestiva Marianna Madia. E se ne sono forse pentiti quando la premier ha ricordato del Papa anche il recente monito a non considerare l’assistenzialismo l’unico o maggiore  modo di contrastare la povertà. Attenti quindi a non esagerare col reddito di cittadinanza di conio pentastellato.

I caduti italiani a Nassirya nel 2003

L’unico passaggio in cui la Meloni non è proprio riuscita a fare alzare la sinistra, ma solo a strapparle applausi seduti a macchia di leopardo, è stato quello in memoria dei caduti italiani nelle missioni internazionali di pace. Mi chiedo che cosa abbiano fatto i connazionali morti a Nassyria e altrove contro pezzi o tutta intera l’attuale opposizione.

Pubblicato sul Dubbio

La rivincita della Meloni alla Camera sulle insofferenze dei suoi alleati

 Ho francamente perso il conto, ascoltandone  dalle tribune della stampa alla Camera il discorso programmatico, delle volte in cui Giorgia Meloni è riuscita a fare scattare in piedi come una falange, compatti negli applausi, tutti i deputati del centrodestra. Dove pure serpeggiano malumori e quant’altro per le frustrazioni provocate dalla lista dei ministri e una diffusa volontà di rivincita nella distribuzione dei posti di vice ministro e sottosegretario. Che non a caso è stata rinviata a dopo la fiducia scontata di oggi a Montecitorio e di domani al Senato, giustificata nella sua rapidità dalle emergenze in atto e dagli appuntamenti europei e, più in generale, internazionali nell’agenda del governo. 

In questa capacità oratoria, emotiva e quant’altro, acquisita in tanti anni di militanza politica a destra, dalle sezioni di partito alle piazze, Meloni si è già presa una bella soddisfazione conoscendo le tensioni interne al suo schieramento per le solite, vecchie ragioni e questioni di potere. 

Matteo Salvini a Montecitorio

Mi ha fatto impressione, a questo proposito, l’irruenza con la quale Matteo Salvini è arrivato ai banchi di governo all’ultimo momento e, prendendo posto alla destra dello scranno della presidente del Consiglio non ancora presente, le ha quasi invaso lo scrittoio con le sue cartelle e altro materiale. Non più tardi di ieri nel suo ufficio di ministro delle Infrastrutture il leader leghista aveva voluto convocare il comandante della Guardia Costiera quasi per ammonire a distanza proprio la premier a non azzardarsi a togliergli davvero le competenze sui porti per darle al ministro “del mare”, e non solo del Sud, Nello Musumeci: un “fratello d’Italia” detronizzato da governatore  della Sicilia per le resistenze opposte alla sua conferma nell’isola dai partiti di Silvio Berlusconi e dello stesso Salvini. Dai porti -si sa- il ministro delle infrastrutture, e vice presidente del Consiglio, intende vigilare direttamente sui “confini” minacciati dall’immigrazione clandestina. 

La capacità di presa, mobilitazione, controllo e altro ancora dei parlamentari del suo schieramento da parte della Meloni deve avere impressionato l’opposizione di sinistra. Dove, pochi o molti che siano, pensano che la nuova premier possa durare molto meno dei cinque anni propostisi pubblicamente a causa delle divisioni, gelosie, frustrazioni e simili dei partiti della coalizione di centrodestra. 

Giorgia Meloni alla Camera per il discorso programmatico

La stessa sinistra d’altronde non ha saputo reagire univocamente ai passaggi più significativi del discorso programmatico della presidente del Consiglio. Si sono alternati da quelle parti glaciali silenzi e indifferenze, sporadici applausi e adesioni più o meno immediate levandosi in piedi con la maggioranza. Ciò è accaduto, in particolare, levandosi cioè in piedi per applaudire, quando la Meloni ha ricordato i magistrati uccisi dalla mafia, a cominciare naturalmente da Paolo Borsellino, di simpatie notoriamente di destra, o ha ringraziato il personale sanitario mobilitatosi nella lotta al Covid, o ha rivolto un saluto a Papa Francesco. Di cui peraltro ha voluto ricordare a sorpresa un recente intervento contro la pretesa di combattere la povertà solo con l’assistenzialismo, per esempio, del reddito di cittadinanza politicamente targato 5 Stelle. 

E’ curioso, a dir poco, che tra i passaggi del  discorso della Meloni cui la sinistra è rimasta generalmente o prevalentemente indifferente nell’aula di Montecitorio sia stato quello patriottico -direbbe la stessa Meloni- di elogio e ringraziamento agli italiani morti nelle missioni internazionali di pace in varie parti del mondo. Chissà perché i caduti di Nassiria, per citare i più famosi, per i quali le piazze italiane si riempirono a suo tempo di lacrime e bandiere, non abbiano scaldato più di tanto i cuori della sinistra.

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Le Camere precedute dall’Ucraina nella fiducia al governo di Giorgia Meloni

Dalla prima pagina del Corriere della Sera

Prima ancora di ottenerla dalla Camera, entro stasera, e dal Senato domani, il governo di Giorgia Meloni ha ottenuto la fiducia dell’Ucraina, annunciata personalmente dal presidente Volodymyr Zelensky in una lunga intervista al Corriere della Sera. 

Zelensky al Corriere della Sera

“Giorgia? Volodymir, chiamami Giorgia” Mi ha risposto -ha raccontato il presidente ucraino- dopo che io l’avevo chiamata per nome. E’ andata proprio così, subito. E’ stata diretta e personale. Credo che abbiamo costruito un’ottima relazione in continuità col periodo iniziato da Draghi”. Con il quale -ha detto ancora Zelensky- “il livello delle nostre relazioni bilaterali aveva fatto un salto in avanti e ora continueremo a migliorarlo. Le ho detto questo e lei mi ha risposto che certamente era anche la sua volontà, che non intende distruggere nulla di ciò che è stato costruito….. L’ho invitata a Kiev e lei ha replicato che verrà”. 

Sempre Zelensky al Corriere

In un altro passaggio dell’intervista  concessa dopo una telefonata ricevuta dalla premier italiana Zelensky ha parlato della “comune alleanza” esistente con Roma chiarendo e specificando: “Un’alleanza in genere nell’Unione Europea”. “E ora – ha aggiunto come per fare un esempio- la nuova premier è pienamente coinvolta nella discussione a Bruxelles per inviarci un pacchetto di nuovi aiuti militari. Mi sembra tutto positivo”. 

Il presidente ucraino Zelensky
Ancora Zelensky al Corriere

Invitato a parlare anche di Silvio Berlusconi, da lui recentemente accusato di bere troppa vodka, mandatagli da Putin per il suo ultimo compleanno, Zelensky ha un pò corretto il tiro della sua prima reazione a clamorose sortite dell’ex presidente del Consiglio italiano recependo forse le spiegazioni date in questi giorni per telefono al ministro degli Esteri ucraino dal nuovo omologo italiano Antonio Tajani, vice dello stesso Berlusconi alla presidenza di Forza Italia. In particolare, il presidente ucraino ha raccontato di essere “meno spaventato” ora che ha saputo che Berlusconi “si è limitato a ripetere” sulla guerra in corso il racconto di Putin. Ma egli ha anche precisato, aggravando in qualche modo la polemica sul piano politico, che a spaventarlo di meno è ancor più il fatto che a votare Berlusconi è “solo l’8 per cento degli italiani”. “Questa -ha detto- è la risposta confortante del vostro elettorato. Ciò mi basta….Comunque ha quasi 90 anni e gli auguro di restare in buona salute”. 

A “quasi 90 anni”, quattro in più di quanti effettivamente ne abbia compiuti il mese scorso,  Berlusconi non sembra tuttavia rassegnato a rinunciare ad un certo protagonismo e ad una certa insofferenza all’interno del centrodestra da lui fondato nel lontano 1994, e sviluppatosi in modo forse diverso dalle sue stesse previsioni, o scommesse. E’ stato infatti preannunciato per domani al Senato un suo discorso “orgoglioso” intervenendo nella discussione sulla fiducia di scena oggi a Montecitorio. 

Berlusconi, d’altronde, è stato preceduto da fedelissimi che hanno pubblicamente contestato a Giorgia Meloni  di avere sacrificato troppo Forza Italia nelle presidenze delle Camere e nelle nomine dei ministri, per cui occorrerebbe riparare a livello di vice ministri e sottosegretari. 

La vignetta del Secolo XIX su Matteo Salvini

Forse ancor più insidioso di questo malumore berlusconiano è però per la Meloni l’attivismo del leader leghista Matteo Salvini. Il quale, deciso a riproporsi e a muoversi come difensore dei confini nazionali dai clandestini che approdano ogni giorno sulle coste, nelle sue nuove vesti di ministro delle infrastrutture ha subito convocato il comandante della Guardia Costiera, appunto. Che dovrebbe invece passare alle dipendenze del ministro “del mare”, oltre che del Sud, Nello Musumeci, del partito della Meloni, reduce dall’esperienza di governatore della Sicilia interrottasi per il non gradimento di forzisti e leghisti. Ma oltre a presidiare le coste, Salvini ha mobilitato con riunioni di ogni tipo il suo partito sui temi economici che prevarranno nelle prime decisioni del governo, per quanto al Ministero dell’Economia sieda il leghista Giancarlo Giorgetti.

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