La tromba del felice Bersani nel salotto televisivo della Gruber

Pier Luigi Bersani, l’ex segretario del Pd e mancato presidente del Consiglio nel 2013, quando l’allora capo dello Stato e suo ex compago di partito Giorgio Napolitano gli impedì l’avventura di un governo “minoritario e di combattimento” appeso agli umori dei grillini, è il politico più cercato o corteggiato dai salotti televisivi . E ciò un po’ per la sua bonomia, un po’ per le sue parabole: dalla bambole da spazzolare ai giaguari da smacchiare, dai tacchini sui tetti alla mucca di destra inavvertitamente entrata nella sede del Partito Democratico e lasciata deporre i suoi voluminosi escrementi fra corridoi e stanze.

Alessandra Todde , la governatrice grillina della Sardegna

  E’ mancato poco ieri che egli non si presentasse a Lilli Gruber con una tromba per emettere o ripetere lo squillo da lui avvertito in Sardegna per la pur striminzita vittoria elettorale di Giuseppe Conte con la candidata grillina imposta agli alleati di turno, a cominciare naturalmente dal Pd. Il “suo” Pd, dove l’ex segretario è rientrato dopo l’evasione con Massimo D’Alema ed altri da quel carcere che secondo loro era diventato il partito sotto la guida, allora, di Matteo Renzi.

         All’imbarazzo procuratogli dagli aggettivi con i quali la segretaria in carica del Pd Elly Schlein, ma anche Romano Prodi, vorrebbero chiamare “il campo” da ricostruire col Movimento 5 Stelle –“largo”, secondo loro, o “giusto”, secondo Conte, che lo vorrebbe abbastanza stretto da poterlo controllare e condizionare meglio- Bersani si è sottratto proponendo, anzi chiamando quel campo semplicemente “dell’alternativa” al centrodestra infelicemente regnante, secondo lui, e terribilmente pericoloso per il Paese. Un’alternativa, par di capire, la cui guida è indifferente a Bersani, pronto anche a quella di Conte e quindi dei grillini, om’è appena accaduto in Sardegna con la nuova governatrice Alessandra Todde pur avendo il Pd raccolto nelle urne il doppio dei loro voti.

Dal Corriere della Sera

         Reduce proprio dal salotto della Gruber, dove aveva sentito e visto di persona l’incotenibile felicità di Bersani, il buon Aldo Cazzullo ha scritto o ricordato nell’editoriale odierno del Corriere della Sera, che “allearsi non è facile” in quello che chiamiamo comunemente “centrosinistra”, senza il trattino originario dei governi di Aldo Moro fra il 1963 e il 1968, delimitati a destra e a sinistra con l‘esclusione, rispettivamente, dei liberali e dei comunisti.

         “Sommare e confrontare i voti del centrodestra e del centrosinistra è interessante, ma inutile. Perché il centrodestra -ha osservato Cazzullo- è una coalizione, per quanto rissosa, il centrosinistra no, o non ancora”. E chissà se e quando potrà diventarlo con le ambizioni che coltiva Conte alla luce del sole, senza nasconderne nessuna, anche se qualcuno nel Pd finge ancora di non sentire e di non capire. Il presidente Stefano Bonaccini, complimentatosi a sorpresa con la Schlein per il risultato sardo, si è affrettato a correggersi avvertendo che Conte “non basta” per fare l’alleanza o il campo dell’alternativa nei sogni di Bersani.

Giuseppe Conte, l’uomo che non è ancora asceso in cielo a sinistra

Da Libero


          Populista per autodefinizione risalente a quando si presentò alla Camere nel 2018 come “avvocato del popolo” non bastandogli essere il presidente del Consiglio – peraltro  arrivato alla nomina non proprio linearmente, dopo una rinuncia all’incarico e una ripresa  privatissima delle trattative per la formazione di un governo cui nel frattempo era stato chiamato da Mattarella l’economista Carlo Cottarelli- l’ex premier Giuseppe Conte  è ora alla ricerca dell’aggettivo giusto.

Giorgia Meloni

      Gli era piaciuto il “gentile” assegnatogli quasi in dolce stil novo da un ammiratore della prima ora commentando, anzi acreditandogli direttamente la vittoria  formalmente attribuita nelle elezioni regionali sarde alla sua ex sottosegretaria ed ex vice presidente del Movimento 5 Stelle Alessandra Todde. Ma quando Monica Guerzoni, del Corriere della Sera, gli ha dato o proposto del “progressista mite”, egli ha vacillato. Gli è sembrato suonare meglio, anche se del mite, evangelicamente parlando, egli sta mostrando ben poco, almeno negli interventi parlamentari e di piazza contro la premier Giorgia Meloni. Che è forse colpevole di avergli preferito la segretaria del Pd Elly Schlein come antagonista nei prossimi duelli televisivi, non so francamente se più per motivi di genere, diciamo così’, o considerandone la maggiore consistenza elettorale, per il momento, rispetto al predecessore a Palazzo Chigi. Il cui movimento in Sardegna -per restare ai nostri giorni- ha raccolto domenica scorsa quasi la metà dei voti del Pd.  

Palazzo Chigi, 2018

         Ciò che della Meloni sembra irritare di più Conte non è per fortuna- bisogna riconoscerglielo- l’abusata  “matrice” fascista attribuita da altri alla  destra guidata dalla premier, ma la infedeltà nei rapporti con gli elettori. Ai quali là Meloni avrebbe promesso troppo di più e di diverso di quanto sta loro dando- -miseramente”, dice lui-   in termini economici e di sicurezza. Eppure egli a Palazzo Chigi in una delle prime sedute del suo primo governo  lasciò che i suoi ministri si affacciassero al balcone e alle finestre per annunciare al pubblico addirittura “la sconfitta” della povertà col famoso e cosiddetto reddito di cittadinanza. Si sa com’è finito, fra truffe e risultati  modesti, in un copione ripetuto poi con i bonus delle facciate edilizie.

         Scrivevo dell’aggettivo giusto che Conte cerca per il suo populismo. Ma di “giusto”, cm le virgolette, egli ha già trovato il campo che il Pd  vorrebbe realizzare con i grillini per vincere qualche partita locale oggi e poi, quando verrà il turno, la partita nazionale del rinnovo delle Camere. Un campo che il Pd reclama “largo”, com’è tornato a chiedere Romano Prodi in una intervista alla Stampa raccomandando di rinunciare agli “egoismi”. Ma largo è un aggettivo che a Conte non piace, Gli procura l’orticaria. Egli preferisce che il campo sia più genericamente, indeterminatamente, ambiguamente “giusto”: non troppo stretto per non perdere le elezioni ma neppure troppo largo perché lui non possa risultarne condizionante. E ciò -condizionante, ripeto- non solo e non tanto sul piano numerico quanto sul piano personale, anzi personalistico, perché l’uomo ha una certa considerazione di sé, a prescindere dai risultati e dei voti di cui dispone.

D’altronde la prima condizione che egli pose, una volta rotti i rapporti col Pd guidato da Enrico Letta, per riprendere le relazioni col Nazareno dopo le elezioni anticipate del 2022 fu il cambiamento del segretario. Cui lo stesso Enrico Letta si prestò con dimissioni dichiaratamente irrevocabili ma cui gli altri dirigenti non opposero la minima resistenza.

La segretaria del Pd Elly Schlein

In un primo omento l’arrivo della Schlein, davvero a sorpresa con primarie che smentirono le preferenze congressuali degli iscritti, sembrò gradito al capo pentastellato. Il quale si prestò anche a qualche incontro e persino abbraccio di piazza. Ma poi la partita fra i due è diventata sempre più complessa, più difficile da capire, interpretare o solo immaginare, con effetti sempre più destabilizzanti nel Pd. Dove in questi giorni, per carità, festeggia il risultato sardo anche il presidente del partito e mancato segretario Stefano Bonaccini. Che solo qualche giorno fa ha contestato alla Schlein di non avere rispettato gli impegni assunti  con lui personalmente e con gli altri dirigenti del Nazareno in tema di terzo mandato possibile per i presidenti delle regioni e per i sindaci. Ma bisognerà vedere che cosa succederà dopo la sbornia abituale di una vittoria elettorale pur stentata -perché tale è stata- quella appena conseguita in Sardegna.

Nell’isola peratro i voti complessivi dei perdenti nella corsa alla presidenza sono risultati maggiori di quelli vincenti. Ma ciò accade -ho sentito o letto da qualche parte- anche negli Stati Uniti d’America nella corsa alla Casa Bianca. Ma quello americano è uno Stato federale. La Sardegna è un’isola di uno Stato dove ancora a parlare di autonomie regionali differenziate la sinistra sbraita, pur avendole messe essa stessa in Costituzione quando le sembrò di poter così conquistare le simpatie della Lega ancora bossiana e trattenerla sulla strada della ricomposizione dell’alleanza con Berlusconi. 

Pubblicato su Libero

Gli aspetti paradossali della vittoria di Conte regalata in Sadegna dal Pd

La festa di Licheri, Conte e Todde

            Fra le varie foto celebrative delle elezioni che hanno portato alla presidenza della regione sarda Alessandra Todde, la prima come donna nell’sola e come grillina in tutta Italia, un ingenuo o sprovveduto, ma non tanto da non riconoscere le persone riprese in aria compiaciuta e festiva, si sarà soffermata su quella che ritrae insieme, da sinistra a destra, solo i pentastellati Ettore Licheri, Giuseppe Conte e Todde. E si sarò chiesto quanti voti sia riuscito a raccogliere nelle urne il loro movimento per essere salito così in alto, al vertice della regione, Ma scopre, consultando le mappe dei partiti, con i loro simboli, che quello delle cinque stelle è l’unico che condivide con la Lega di Matteo Salvini, nello schieramento opposto di centrodestra, o di destra-centro, la disavventura di un arretramento generale, rispetto sia alle precedenti elezioni regionali, del 2019, sia alle ultime elezioni politiche, del 2022.

         In particolare, il movimento di Conte è sceso al 7,8 per cento dal 9,7 delle precedenti elezioni regionali, che si svolsero peraltro quando lui era non il capo del partito ma addirittura del governo nazionale, e dal 21,8 delle elezioni politiche del 2022, svoltesi quando Conte non era più  presidente del Consiglio ma solo presidente delle 5 stelle, Scendere in meno di due anni di 14 punti su 21 non dovrebbe essere intesa un’impresa, una fortuna, ma un incidente quanto meno, se non una sciagura. Superiore, per dimensioni, a quella -ripeto- che pure affligge Matteo Salvini paragonando il suo 3,8 per cento di domenica scorsa al 6,3 delle politiche del 2022 e all’11,4 delle regionali del 2019.

         E’ curioso, a dir poco, che la segretaria del Pd pur di accordarsi con un movimento così malmesso come quello di Conte gli abbia concesso la candidatura alla presidenza della regione cosi volentieri da far dire allo stesso Conte di non aveglielo neppure chiesto, di non avere speso per la sua Todde nemmeno una telefonata.

Dalla Stampa

La Schlein ha pagato tanta generosità, con la rottura consumata pe reazione dall’ex governatore sardo Renato Soru, il prezzo non indifferente di 5 punti su 18 fra le politiche del 2022 e le regionali di domenica scorsa. Un sacrificio -ha in qualche modo spiegato, al posto della Schelin il generoso Romano Prodi in una intervista alla Stampa– per costruire il famoso “campo largo” necessario a sinistra per sconfiggere la prossima volta il centrodestra a livello nazionale,

Dal Corriere della Sera

Ma che largo e largo, dice invece Conte. Che preferisce un campo “giusto” per le sue ambizioni, cioè il meno largo possibile, che gli consenta l’avventura immaginata già da Beppe Grillo nel 2009 di conquistare il Pd, questa vola senza neppure tentare di iscriversi, come tentò di fare appunto il comico dopo le dimissioni di Walter Veltroni da segretario, ma mangiandoselo come un salame. “Non è una gara col Pd”, ha appena detto Conte al Corriere della Sera. E’ una passeggiata di compagni di merenda.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Un Pd autolesionista festeggia in Sardegna la vittoria di Conte

Da Libero

Prima ho letto ieri Mario Sechi, per amicizia e per spirito comunitario, diciamo così, da collaboratore di questo giornale. Poi ho letto sul Fatto Quotidiano quella specie di bollettino della vittoria scritto sulle elezioni sarde da Marco Travaglio. Che dopo avere dato a Giuseppe Conte negli anni d’oro, quando l’avvocato poteva governare cambiando alleati dalla mattina alla sera, del secondo in classifica nella graduatoria dei presidenti del Consiglio nella storia d’Italia, dopo Camillo Benso di Cavour, conte con la minuscola perché vero, lo ha ora scoperto come “il leader più sottovalutato del mondo”.

Il più sottovalutato -debbo presumere- almeno sino a ieri, perché ora, con la sua Alessandra Todde, ex sottosegretaria grillina, arrivata al vertice della regione Sardegna, salvo sviste degli scrutatori o altre sorprese, l’ex presidente del Consiglio avrebbe fatto vedere finalmente di che pasta è fatto. Uno che quanti meno voti prende più riesce a contare: verbo peraltro del suo stesso nome. Un fenomeno da circo politico.

Beppe Grillo

         Neppure quando il movimento oggi presieduto dall’ex premier aveva più del trenta per cento dei voti e sembrava avere preso il posto che nella  cosiddetta prima Repubblica era stato della Dc o del Pci, o di entrambi, i grillini erano usciti a conquistare una regione. Neppure la più piccola d’Italia. Ora in effetti se la sono aggiudicata,e di quali dimensioni, con l’aiuto di un Pd che peraltro è lo stesso -una volta tato non ha ancora cambiato nome- che nell’estate del non lontanissimo 2009 rifiutò proprio in Sardegna, nella sezione di Arzachena, l’iscrizione a un baldanzoso Beppe Grillo. Che si era messo giocosamente in testa di concorrere alla segreteria abbandonata da Walter Veltroni dopo un incidente elettorale, anch’esso accaduto peraltro nell’isola dei Nuraghi.

         Pensate un po’ di quante diaboliche combinazioni è fatta questa storia. A Conte è riuscito in qualche modo ciò in cui fallì Grillo, trattato allora come un comico qualsiasi: la scalata, sia pure indiretta, al Pd: diciamo, un’opa. Dimezzato nei voti, egli riesce a imporre i suoi candidati, offendendosi solo a sentir parlare di primarie, oggi nelle amministrazioni locali, di ogni livello, e domani chissà dove, magari per la presidenza del Consiglio, ad un partito di cui una buona parte lo insegue per una nuova alleanza. Che al Nazareno vorrebbero da “campo largo” ma che lui vorrebbe invece la meno ampia possibile, evidentemente per poterla meglio controllare, senza tanti rompiscatole fra i piedi.

Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano

         “L’unica formula vincente contro le destre -ha spiegato o proclamato Travaglio nel suo bollettino della vittoria commentando le elezioni sarde-è un’alleanza fra cinque stelle, un Pd davvero rinnovato e i rossoverdi: quelle che sostennero il Conte 2 fino in fondo. Astenersi centrini, perditempo e perdivoti da “campo largo” o “riformismo”. Un Pd “davvero rinovato” come quello della giovane segreteria Elly Schlein, che sospira di sollievo alla notizia di qualsiasi uscita dal suo partito in dissenso da lei. E se l’applica sul petto coma una decorazione.

Matteo Renzi

         Va bene che la politica è imprevedibile. Essa è mobile come la donna del Rigoletto. Va bene che ne abbiamo viste di tutti i colori sia nella prima, sia nella seconda, sia nella terza sia nella quarta Repubblica pur in corso solo su uno dei canali televisivi del compianto, immaginifico Silvio Berlusconi. Va bene che abbiamo assistito ad uno spreco di energie e intelligenze come quelle che personalmente  mi sembrarono nel 2014 di Matteo Renzi, riuscito poi a segnarsi i gol da solo nella partita della riforma costituzionale, bocciata dagli elettori referendari nel 2016. Va bene tutto, ripeto. Ma mi chiedo quanto potrà o dovrà durare ancora lo spettacolo del Pd a rimorchio di Conte.

Massimo D’Alema

Il Pd è sulla carta, e anche consultando l’anagrafe, la somma dei resti della Dc, particolarmente quella di sinistra, e del Pci. Ma anche quell’”amalgama mal riuscito” annunciato, certificato e quant’altro da Massimo D’Alema. Che sarà pure stato l’unico, vero rottamato di Renzi; sarà pure l’antipatico che si compiace persino di esserlo nei suoi interventi fra smorfie e occhiatacce; che avrà pure dato anche a qualche magistrato l’impressione di avere cambiato mestiere, ma rimane pur sempre -mi perdonino i lettori che non fossero d’accordo- un personaggio storico della sinistra italiana.

         Questo problema del Pd a sovranità sostanzialmente limitata, costretto a costruire e partecipare alle feste degli altri, mi sembra francamente per se stesso e, più in generale, per la democazia italiana, che vive di alternative possibili e non irreali, di gran lunga superiore a tutti quelli, effettivi  o immaginari, del centrodestra al governo, o destra-centro, e di ciascuno dei partiti che lo compongono. Cui, per paradosso, senza neppure turarmi il naso come faceva Indro Montanelli con la Dc, verrebbe voglia di augurare tante sconfitte se queste sono per gli avversari semplici vittorie di Pirro. Che si inseguono d’altronde da quasi 2.300 anni.

Pubblicato su Libero

L’ordine è tornato sul Colle dopo le proteste di Mattarella per i manganelli

Dal Dubbio

Per quanto garantitosi -accorto com’è sul piano costituzionale e politico- con il consenso ottenuto senza molta fatica dal ministro dell’Interno in una lunga telefonata, e anche con una informazione personale alla premier sulla propria iniziativa, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella si è scomodamente trovato sui giornali per qualche giorno come il capo dell’opposizione, anzi delle opposizioni.

Mattarella e Piantedosi al Quirinale

La sua protesta contro l’uso, cioè l’abuso dei manganelli in piazza contro ragazzi in manifestazioni di protesta, e le inchieste che ne sono seguite sul piano disciplinare, fra le stesse forze dell’ordine, e su quello giudiziario nella Procura di Pisa, hanno esposto il capo dello Stato a fraintendimenti forse superiori alle sue aspettative. Fra i quali temo che abbiano prevalso sulle strumentalizzazioni delle opposizioni, giunte a chiedere le dimissioni del pur consenziente ministro dell’Interno con Mattarella, gli errori -a dir poco- di esponenti della maggioranza e dello stesso governo.

         Penso, per esempio, al deputato Giovanni Donzelli, del partito della premier, e soprattutto al vice presidente leghista del Consiglio Matteo Salvini. Che, anzichè riconoscersi nei giudizi e nell’iniziativa del capo dello Stato, ha rifiutato un commento a chi glielo chiedeva, o prima ancora che glielo chiedesse. Ed ha preso delle forze dell’ordine una difesa pregiudiziale e assoluta, smentita dalle inchieste nel frattempo aperte e dalla stessa storia del suo movimento. Nella cui sede un dirigente già allora di primo piano, che sarebbe diventato addirittura ministro dell’Interno, il compianto Roberto Maroni, prese a morsi alle gambe alcuni agenti di Polizia impegnati nel loro servizio d’ordine. Eh, se solo Salvini e altri, magari non solo del suo partito, pensassero un po’ di più prima di parlare.

         Il disordine, chiamiamolo così, involontariamente provocato da Mattarella con le sue telefonate a Piantedosi e alla Meloni e col suo comunicato sul manganello “fallimentare” nell’uso contro i ragazzi, è durato fortunatamente poco, con sollievo -credo- del presidente della Repubblica per primo.

         L’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte si è già ripreso il suo posto, conteso dalla segretaria del Pd Elly Schlein, o viceversa, di capo dell’opposizione, al singolare non se più arbitrario o miracoloso, aprendo un altro contenzioso col governo sul piano della politica estera.

Meloni al G7 a Kiev

L’ombra di Conte s’intravvede, in particlare, dietro la rumorosa protesta del Fatto Quotidiano, su tutta la prima pagina di ieri, contro l’accordo decennale di solidarietà e assistenza firmato a Kiev da Giorgia Meloni con Zelenky a nome dell’Italia in occasione del G7 svoltosi nella capitale ucraina nell’ormai terzo anno della guerra d’invasione “denazificante” chiamata a Mosca “operazione speciale”. L’intesa sarebbe stata studiata apposta “senza passare dal Parlamento”, ha protestato il giornale generalmente in sintonia con l’ex premier, Che è ancora considerato sotto le cinque stelle il migliore capo del governo avuto dall’Italia dopo la buonanima di Camillo Benso di Cavour.

Giuseppe Conte

         E’ prevedibile, con questo tipo di protesta, una campagna per reclamare e ottenere un passaggio parlamentare di formale o sostanziale ratifica dell’accordo. Ma è altrettanto prevedibile la partita difficile che si aprirebbe in questo caso fra le opposizioni, in particolare fra il Pd e il Movimento 5 Stelle e all’interno del Pd, per arrivare a un comune comportamento, o pasticcio.  Una partita nella quale Conte, come al solito, partirebbe in vantaggio su posizioni radicalmente contrarie, anche se gli aiuti italiani all’Ucraina dopo l’invasione russa cominciarono col governo Draghi di cui era ministro dagli Esteri l’ancora grillino Luigi Di Maio. Che ruppe col suo partito protestando pubblicamente contro i contatti fra Conte e l’ambasciata russa a Roma per disimpegnarsi dalla linea di appoggio all’Ucraina. Seguirono anche per questo, se non soprattutto per questo, una crisi di governo e le conseguenti elezioni anticipate del 2022, con un Pd guidato da Enrico Letta su posizioni che ancora oggi Conte definisce “belliciste” e attribuisce anche alla Schlein, in “elmetto” come il suo predecessore

         Il ritorno alla questione ucraina chiude definitivamente anche la parentesi del manganello attribuito disinvoltamente a Mattarella contro il governo. E’ arcinota la posizione antiputiniana del capo dello Stato sull’Ucraina, anche se Putin ha recentemente dichiarato a Mosca, sorprendentemente creduto un po’ da Zelensky a Kiev, che in Italia gode ancora di molte simpatie, o quasi.

Pubblicato sul Dubbio

Giuseppe Conte è il vero vincitore in Sardegna, più della sua Alessandra Todde

Alessandra Todde

         Eppure la giornata destinata -salvo sorprese nel finale abitualmente ritardato dei conteggi elettorali sardi- a segnarne il successo con l’elezione della sua candidata Alessandra Todde alla presidenza della regione, sia pure di stretta misura sul concorrente del centrodestra voluto con infelice ostinazione da Giorgia Meloni, era cominciata come peggio non si poteva per Giuseppe Conte, costretto in piazza a Roma a difendersi da uno che gli rimproverava di avere governato col Pd. Nella inusuale posizione di contestato, l’uomo era smarrito. Non sembrava più il migliore capo del governo avuto dall’Italia dopo il conte -con la minuscola, ma vero- Camillo Benso di Cavour decantato sul Fatto Quotidiano da Marco Travaglio. Che, con lui, si è presa la sua rivincita in Sardegna con la vittoria, pur non ancora provvista di tutti i bolli dell’ufficialità, della contiana ex sottosegretaria grillina dal “populismo gentile e competente”, ha scritto l’ammiratore.

Conte contestato a Roma

         Di Conte invece, con la maiuscola, Travaglio ha scritto, nel quinto dei sei punti in cui ha articolato il bollettino della vitttoria, che “oltre al buon ricordo lasciato come premier, l’arma segreta è il fatto di essere il leader più sottovalutato del mondo”. Ripeto. del mondo. quello “terracqueo” che procurò la derisione alla Meloni che lo aveva indicato per descrivere la dimensione della guerra dichiarata agli scafisti che commerciano con i migranti clandestini mandandoli spesso più in fondo al mare che sulle coste italiane o sulle navi del soccorso non certo casuale del cosiddetto volontariato.

Ancora Conte contestata a Roma

         Ma l’ultimo dei sei punti del bollettino della vittoria scritto dal cantore di Conte mi sembra il più appropriato politicamente per valutare lo scenario apertosi in Sardegna. Che dovrebbe non fare esultare ma disperare il Pd, praticamente destinato ad andare a rimorchio dei candidati dell’alleato anche disponendo di più voti.

Marco Travaglio sul Fatto Quotiidiano

         “Dopo le fumisterie e le ambiguità fin qui esibiti sui temi più caldi per tenere insieme i vari Pd- dice il bollettino Travaglio, nuovo Diaz della storia d’Italia- la Schlein dimostra che quando compie una scelta netta l’azzecca: quella di scaricare i Soru e gli Zedda, che han fatto il loro tempo (altro che terzo mandato) e puntare sulla più fresca Todde. Il che non vuol dire che ora Pd e M5S debbano andare insieme ovunque a qualunque costo: dipenderà dalla carica di novità dei candidati”….grillini. Ora bisogna vedere se e quanto potrà resistere la Schlein nel suo partito a questa funzione ancellare assegnatale da Conte nella prosa di Travaglio.

Ripreso da http://www.startmag.it e www,poliymakermag.it 

Contestato alla Meloni dai grillini l’accordo decennale con l’Ucraina

Titolo di Domani

Nonostante le apparenze – che  danno ancora in corso lo “scontro istituzionale” annunciato, per esempio, su Domani a proposito dell’intervento del presidente della Repubblica sul ministro dell’Interno per lo spreco di manganelli contro i ragazzi manifestanti in piazza- è giù finita la festa delle opposizioni. Dalle quali era partita anche la solita richiesta delle dimissioni del ministro, pur dichiaratosi d’accordo con le proteste o preoccupazioni del capo dello Stato e affrettatosi a disporre indagini all’interno delle forze dell’ordine, in aggiunta a quelle disposte dalla magistratura per individuare i responsabili di eventuali abusi.

Titolo del Fatto Quotidiano

         Giuseppe Conte, per esempio, ha smesso di applaudire un Sergio Mattarella messo per qualche ora a capo delle opposizioni, proprio al posto peraltro cui aspira lui in concorrenza con la segretaria del Pd Elly Schlein, ed ha mandato avanti i suoi amici del Fatto Quotidiano, o s è lasciato  da loro precedere, nel denunciare lo scandalo, secondo lui, della premier Giorgia Meloni che ,“senza passare dal Parlamento”,  ha profittato della riunione del G7 a Kiev da lei stessa promossa per sottoscrivere con Zelensky un piano decennale di assistenza dell’Italia all’Ucraina, Che è  appena entrata nel terzo anno della guerra di aggressione intentatale dalla Russia di Putin. “Pronti a intervenire in 24 ore”, ha riassunto il contenuto e il senso dell’accordo italo-ucraino il giornale diretto da Marco Travaglio.

Titolo di Repubblica sulle elezioni sarde

         Così., con questa nuova offensiva sul terreno della politica estera, ed europea, che ha contribuito ad accelerare l’incontro dei prossimi giorni della Meloni col presidente americano alla Casa Bianca, è diminuito anche l’interesse per le elezioni regionali sarde, di cui si attendono in serata i risultati. “Todde può sperare” ha titolato la Repubblica di carta nonostante “l’affluenza stabile” registrata alle urne, con ciò sottintendendo che alla candidata grillina alla presidenza della regione sostenuta da un Pd spaccato per la rivolta di Renato Soru sarebbe stata più utile una maggiore partecipazione alle urne.

Titolo del Fatto Quotidiano sulla Sardegna

         Il guaio, per la Todde, è però che non solo non è cresciuta l’affluenza, a dispetto dell’annuncio del Fatto Quotidiano in prima pagina, ma non c’è stata neppure la “tenuta” stabile del titolo di Repubblica. L’affluenza alle urne nell’isola è calata ulteriormente dal 53,7 per cento delle elezioni regionali del 2019 al 52,4 di ieri. La matematica non è ancora diventata un’opinione.

Ripreso da http://www.policymakermag.it

Mattarella “manganella” il ministro dell’Interno col suo consenso

il manifesto di ieri e, sopra, quello di oggi

Il “giù le mani” col quale il manifesto ha tradotto su tutta la sua prima pagina oggi la protesta del presidente della Repubblica Sergio Mattarella per l’abuso che sarebbe stato fatto contro i dimostranti in piazza da parte delle forze dell’ordine è il secondo tempo della partita cominciata ieri sullo stesso giornale della sinistra ancora orgogliosamente comunista gridando contro “il vizietto” della durezza degli interventi della Polizia. Un secondo tempo, direi, conforme al primo, coerente l’uno con l’altro, e quindi in grado di sostenere l’appropriazione politica, da parte di quel giornale e, più in generale, della sinistra all’opposizione del governo, della decisione presa da Mattarella di avvalorarne le proteste con una telefonata critica, preoccupata e quant’altro al ministro dell’Interno. E col comunicato che ne è seguito al Quirinale.

Screeno Rossi sulla Stampa

         Altro che “una telefonata d’alleggerimento”, come il vignettista Stefano Rolli sulla prima pagina della Stampa l’ha fatta definire dallo stesso Mattarella. Alleggerimento condiviso, forse persino con qualche ringraziamento del ministro, sicuramente con la promessa di dare nuove disposizioni, eseguire o fare eseguire dai sottoposti accertamenti e punire eventuali abusi precedendo la magistratura. Diciamo pure la verità, riconoscendo al manifesto il buon gusto di non avere ceduto alla tentazione cui invece cedo io di immaginare o rappresentare come un manganello il telefono impugnato da Mattarella nella conversazione col ministro Piantedosi. Come ka buonanima di Francesco Cossiga, sempre al Quirinale, si divertiva a chiamare “piccone” quello che usava frequentemente reagendo agli attacchi altrui o promovendone lui direttamente. Ne aveva uno d’argento in miniatura sulla scrivania regalatosi da solo.

La premier Meloni a Kiev

         Non vorrei comunque che si dimenticasse, nella valutazione di questo affare politico sgradevolmente  esploso in un momento di grande esposizione internazionale del governo – con la premier a Kiev per un G7 di rinnovato sostegno all’Ucraina aggredita  dalla Russia di Putin, dove si mandano ancora a morire gli opppositori in Siberia- che un altro nanganello è stato figurativamente usato in questi giorni dal capo dello Stato. Usato questo volta insieme a quelli per niente figurati delle forze dell’ordine contro i dimostranti che scendono in piazza per preferire i terroristi palestinesi di Hamas agli israeliani che si difendono dai loro attacchi. Essi profittano dell’occasione per insultare uomini e donne del nostro governo, macchiiarne di rosso-sangue le immagini e bruciarle tra danze di festa oscena.         

Giochi di piazza

I due Mattarella, nati nello stesso giorno, nello stesso anno e nella stessa ora, non possono essere scissi a piacimento, secondo le convenienze. Vanno presi sul serio insieme. Altrimenti si bara al gioco e si fa carta straccia della Costituzione che pure si vorrebbe difendere di giorno e di notte da riforme che tornerebbero a minacciarla.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Una Giorgia Meloni tutta da esportazione, fra Kiev e Casa Bianca

Giorgia Meloni

Per quanto alla vigilia di elezioni sarde da alcuni ritenute particolarmente rischiose per il candidato che ha praticamente imposto alla presidenza della regione contro quello sostenuto dall’alleato Matte Salvini, e comunque gambizzato alla fine dalle solite, puntuali iniziative giudiziarie, la versione di Giorgia Meloni è in questi giorni da esportazione. Non a caso supportata dalla difesa che ha voluto prenderne pubblicamente il presidente della Repubblica Sergio Mattarella da un’opposizione villana -come quella del presidente della Campania Vincenzo De Luca, che le ha dato prima della “stronza” e poi della “stracciarola”- e persino violenta, con le fiamme appiccate alle sue immagini.

Putin

         Mentre Putin ostenta la sua forza contro l’Occidente ignorandone le proteste per avere fatto o lasciato morire in Siberia il suo principale oppositore Alexey Novalny  ed entrando con la solita ferocia nel terzo anno della guerra all’Ucraina, la premier italiana corre a Kiev in qualità di presidente di turno del G7 per confermare il sostegno a Zelensky. E va poi a trovare alla Casa Bianca il presidente americano Joe Biden. Di cui certamente non ripeterà il “figlio di puttana” appena gridato al despota che si considerava post-sovietico ma neppure confermerà le simpatie di cui Putin si è vantato di disporre da noi parlando con una compiacente e compiaciuta italiana che studia a Mosca e aspira diventarne cittadina. Non sembra trattarsi di una leghista, per fortuna di un Salvini avventuratosi già troppo di suo in quella direzione, persino incerto delle responsabilità di Putin sulla fine di Navalny.

Tajani al congresso di Forza Italia

         Gli impegni e l’esposizione internazionale della premier riduce l’attenzione sulla politica interna e sulle beghe di un po’ tutti i partiti. Fra i quali ce n’uno -Forza Italia-che ha affrontato praticamente il suo vero e primo congresso perdendo per strada la suspense che avevano promesso quanti, per esempio, sollecitavano nei mesi scorsi un regolarmente che consentisse chissà quali e quante candidature alternaiive al segretario sostanzialmente reggente Antonio Tajiani.  Di cui invece sembra scontata la conferma senza concorrenti col rito tutto berlusconiano e antico dell’acclamazione.

Weber e Tajani

 Sarà comunque un segretario molto assistito, aiutato da ben quattro vice, e molto deciso -ha promesso anche esplicitamente- a sorpassare elettoralmente nella coalizione di governo i leghisti, rappresentati in sala solo dalla deputata Simonetta Matone, non foss’altro per aumentare il potere contrattuale del suo partito nei rapporti con la premier.  Fanno naturalmente il tifo per lui dall’estero i dirigenti del partito popolare europeo, il cui presidente ha voluto abbracciare Tajani su palco congressuale.  

Ripreso da http://www.statmag.it e http://www.policymakermag.it

Il casino sul terzo mandato che la Lega ha fatto scoppiare nel Pd della Schlein

Da Libero

No. Questa partita del terzo mandato, chiamiamola così, pensando ora ai presidenti delle regioni e poi ai sindaci, non è stata giocata male da Matteo Salvini. O così male come appare dall’autorete che ha voluto rimediare in commissione al Senato facendo votare e bocciare dalle opposizioni e dai suoi stessi alleati la proposta di sblocco dei due mandati.

         Pur senza trovare il santo in paradiso che sulla questione del ponte sullo stretto di Messina ha accecato gli oppositori indirizzandoli verso una battaglia giudiziaria, una vota perduta quella politica, Salvini ha risolto da sé il problema -ripeto- del terzo mandato investendo astutamente più sulle debolezze altrui che sulla propria forza. O sull’interesse, che gli contestano a torto a ragione, di volere fare confermare al posto che ha l’amico e collega di partito governatore del Veneto, Luca Zaia, per non trovarselo poi fra piedi come concorrente alla guida del Carroccio.

Altro che le orecchie d’asino applicate a Salvini da Stefano Rolli

         Un attimo dopo avere incassato per la sua apparente autorete nella commissione competente del Senato le spallucce degli alleati decisi o rassegnati, secondo i gusti, ad affrontare in aula il secondo tempo della partita, possibilmente dopo le elezioni europee di giugno, in un quadro più chiaro dei rapporti di forza nella coalizione di governo, Salvini ha potuto godersi la rivolta esplosa nel Pd contro la Schlein. Alla quale per la prima volta, se non ricordo male, l’ex concorrente e ora presidente del Pd Stefano Bonaccini, governatore dell’Emilia Romagna non estraneo di certo all’ipotesi di un terzo mandato, ha contestato alla segretaria Elly Schlein il mancato rispetto di impegni evidentemente presi non nel senso di un voto contrario. Che peraltro ha ancora una volta accomunato la stessa Schlein a Giuseppe Conte. Che da Beppe Grillo, garante e nel tempo stesso consulente retribuito, ha ereditato un Movimento dove il terzo mandato viene vissuto sotto moltissimi aspetti, personali e politici, come una tragedia. Un mostro di cui avere paura di giorno e di notte.

         Alla ripresa della partita, già in aula al Senato o nelle prove di allenamento che la precederanno, Matteo Salvini e Giorgia Meloni, o viceversa, come preferite, potranno trovarsi in condizioni migliori di Schlein e Bonaccini. Il riequilibrio dei rapporti di forza locali, a vario livello amministrativo, è nel Pd molto più difficile e rischioso che nel centrodestra in genere, o fra alcune delle sue componenti in particolare.

Vincenzo De Luca e Giorgia Meloni

  Non dinentichiamo che ad avvertire e temere il soverchiante peso degli amministratori fu a suo tempo nel Pds-ex Pci Massimo D’Alema liquidando come “cacicchi” i sindaci. Rispetto ai quali i governatori, o come altro preferiscono definirli le parrucche costituzionali, sono diventati ancora più ingombranti. E anche villani, come il presidente della Campania Vincenzo De Luca dimostra ogni volta che parla, poco importa se di avversari o alleati. La Meloni sta ancora aspettando le scuse per la “stronza” neppure tanto sussurrata nei corridoi della Camera da De Luca, appunto, sceso a Roma per guidare la rivolta contro le autonomie regionali differenziate. Che peraltro furono istituite dalla stessa sinistra con una riforma costituzionale approvata a suo tempo nella vana illusione di scongiurare il ritorno di Silvio Berlusconi e Umberto Bossi all’alleanza interrottasi alla fine del 1994 su sollecitazioni dell’allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro. Che salutava Bossi al Quirinale, ogni volta che ne attraversava il portone, come un liberatore. 

         Capisco il timore espresso qui da Daniele Capezzone di qualche fraintendimento nelle votazioni sarde di ciò che è accaduto in commissione al Senato sul terzo mandato, con una coalizione di governo spaccata e un’opposizione apparentemente unita. Ma penso di conoscere gli elettori sardi della mia terra, dopo quella di nascita e di adozione professionale, abbastanza bene per non fasciarmi la testa prima di essermela rotta. No. Questa volta, ripeto, Salvini ha giocato bene la sua partita.

Pubblicato su Libero

Ripreso da http://www.startmag.it il 25 febbraio

Blog su WordPress.com.

Su ↑