Beppe Grillo sogna forse un robot al posto del contestatissimo Luigi Di Maio

           Invitato, esortato, supplicato sotto e oltre le cinque stelle a mettere finalmente ordine nel movimento da lui fondato e portato fortunosamente al governo, per giunta non come una componente minore di chissà quale maggioranza ma come la forza più consistente in Parlamento, com’era una volta la Dc, quel diavolo di Beppe Grillo continua a giocare con quella specie di mostro politico che ha creato.

           E’ un miracolo che la vista che si concede sui Fori Imperiali ogni volta che va a Roma per incontrare i suoi “portavoce” del popolo, fra una visita e l’altra all’ambasciata della Cina, quella naturalmente comunista di Pechino, perché non so neppure se sia rimasta aperta in Italia una rappresentanza diplomatica della Cina nazionalista di Formosa, non lo abbia tentato a imitare Nerone. Non siamo ancora arrivati, per fortuna, a questo, cioè alle fiamme.

            L’ultimo gioco di Grillo con e attorno al suo tormentatissimo movimento, che oltre a perdere voti beppe grillo.jpegdappertutto come acqua da una botte bucata ha cominciato a perdere anche parlamentari nelle Camere pur salvate nella scorsa estate dallo scioglimento anticipato cambiando rocambolescamente alleati di governo, è quello che sotto traccia si scorge sul blog personale dell’”elevato” nella sua 93.ma settimana, ultima di questo bizzarro 2019 e prima dell’incipiente 2020.

            Vi si trova una notizia, chiamiamola così, che sembra studiata o scelta apposta fra le tante con le quali si diverte il comico genovese per immaginare una soluzione al problema principale, o più “divisivo”, direbbe il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, del maggiore partito di governo: come sostituire nel ruolo di “capo” l’ormai contestatissimo Luigi Di Maio. Contro il quale alcuni senatori sono già passati alla Lega e altri, anche deputati, sono quanto meno tentati dal progetto dell’ormai ex ministro della Pubblica Istruzione Lorenzo Fioramonti di costituire gruppi autonomi in soccorso di Conte, per quanto il professore li abbia nella conferenza stampa di fine anno supplicati di rinunciarvi e di restare, per carità, dove sono. Diversamente essi potrebbero non aiutarlo ma rovinarlo facendo impazzire l’irrequieto, inquieto e quant’altro Di Maio. Che neppure la politica estera, di cui è titolare alla Farnesina, riesce a distrarre dai problemi interni e intricatissimi del suo partito, o com’altro debba essere chiamato, sentendosi accerchiato, tradito, incompreso e quant’altro.

            “Il tuo prossimo capo potrebbe essere un Robot”, ha titolato testualmente Grillo sotto un bel disegno rigorosamente rosso come Schermata 2019-12-31 alle 07.52.53.jpegil colore della Cina che lui ormai ama, e dove le percentuali di consenso al robot, come vedremo, sono fra le più alte nel mondo, insieme con l’India.

            Forte d’indagini condotte da gente che se ne intende, Grillo ha raccontato che “entro il 2030”, cioè entro una decina d’anni, “fino a 800 milioni di lavoratori in tutto il mondo potrebbero essere sostituiti da una macchina”. E volete Di Maio.jpegche il giovane Di Maio, per quanto mai occupato- che si sappia-  prima di diventare deputato e poi  vice presidente della Camera, e poi ancora vice presidente del Consiglio, ministro dello Sviluppo Economico, ministro del Lavoro e infine ministro degli Esteri, dopo avere peraltro conquistato i gradi o galloni di capo del movimento grllino, possa sottrarsi al destino di tante centinaia di milioni di lavoratori, magari con la stessa precocità con la quale lui ha potuto scalare la politica italiana?

            Grillo, sempre documentatissimo nei suoi spettacoli, ha anche rivelato che “Oracle e Future Worplace”, mica i giornali e giornalini che noi leggiamo ormai senza neppure passare per le edicole, “hanno riscontrato che l’82% dei lavoratori crede che i robot siano più bravi in determinati blog Grillo 3.jpegcompiti -come mantenere gli orari di lavoro e fornire informazioni imparziali- rispetto ai loro omologhi umani”. “E quasi i due terzi (64%) dei lavoratori di tutto il mondo -ha aggiunto Grillo, generosamente sottrattosi nella sua vocazione di sinistra alla tentazione di definirli “proletari”- hanno affermato che avrebbero più fiducia di un robot che di un responsabile umano. In Cina e in India questa cifra sale a quasi il 90 per cento”.

            Davvero formidabile il nostro “elevato”, anzi elevatissimo, che abbia o no pensato di sostituire Di Maio con un robot di fronte ai tanti inviti che gli vengono a intervenire finalmente sulle sorti della propria creatura politica. Formidabile anche l’idea di sistemare sotto questa disquisizione sull’inarrestabile avvenire dei robot la pubblicità del nuovo spettacolo di Grillo, che si chiama “Terrapiattista”, naturalmente da terra piatta anziché tonda come adesso la vedono anche gli astronauti e, ammirati, ce la fotografano a colori.

 

 

 

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Il 2019 biforcuto del centrodestra a ormai definitiva trazione leghista

              Il 2019 è stato un anno biforcuto pure per il leader della Lega e del centrodestra Matteo Salvini, oltre che per Giuseppe Conte, riuscito a rimanere a Palazzo Chigi pur cambiando radicalmente coalizione di governo.

            Salvini dalla maggioranza, dove era approdato nel 2018 separandosi a livello nazionale dal centrodestra col permesso dell’alleato Silvio Berlusconi, ammaccato dal sorpasso, sia pure di soli tre punti, subìto nelle urne ad opera della Lega, si ritrova ora all’opposizione. Il segno sarebbe quindi negativo, aggravato sul piano mediatico e politico dalle inchieste giudiziarie che lo coinvolgono direttamente, come per il blocco dei migranti sulla nave Gregoretti a fine luglio, o indirettamente, come la ricerca di finanziamenti russi attribuiti a uomini del suo partito.

            In compenso, con un segno quindi positivo questa volta, Salvini è completamente rientrato nel centrodestra più forte di prima, essendo passati da 3 a una trentina, in certi casi, i punti di distacco da quel che resta del partito di Berlusconi, superato anche dalla destra più dichiarata e orgogliosa di Giorgia Meloni. Che, a due passi dal Cavaliere quasi tramortito, recatosi all’appuntamento già fra le proteste dei suoi amici di partito, è diventata quasi un’icona gridando in Piazza San Giovanni, nell’ultimo raduno  del centrodestra a Roma: “Sono Giorgia, sono una madre, sono italiama, sono cristiana, non me lo toglierete”. E giù applausi, dopo e prima di altri voti.

            Ora il centrodestra nel suo complesso è valutato dai sondaggi prossimo al 50 per cento dei voti, contro il 37 conseguito nelle elezioni politiche del 2018, che fu già superiore al 32,7 preso da solo dal Movimento delle 5 Stelle, ma non abbastanza né all’’uno né all’altro per la cosiddetta autosufficienza governativa.

            La forte avanzata del centrodestra, che è d’altronde il motivo per cui i grillini e il Pd hanno smesso di contrapporsi e si sono accordati evitando elezioni anticipate per loro rovinose, ha lasciato segni tangibili sul territorio, dove altri potrebbero aggiungersi a breve. Sono passate al centrodestra, o vi sono rimaste, regioni come -in ordine cronologico in meno di due anni- il Trentino, il Friuli-Venezia Giulia, il Molise, la Lombardia, il Piemonte, la Basilicata, la Sardegna,  l’Abruzzo e l’Umbria. Il Lazio è rimasto a quel che resta del vecchio centrosinistra per la classica manciata di voti nel 2018, con Nicola Zingaretti prevalso per meno di due punti su Stefano Parisi, paradossalmente azzoppato più dai problemi interni alla sua coalizione che dagli avversari esterni.

            Considerati i problemi che ha la maggioranza giallorossa, per quanto attutiti dai materassi sui quali li fa cadere e li tratta pazientemente un presidente del Consiglio rivelatosi obiettivamente superiore alle aspettative, il centrodestra dovrebbe guardare con fiducia vera, e non solo con quella che appare dai comizi dei suoi protagonisti e attori, agli sviluppi della situazione politica. Eppure c’è qualcosa che non va neppure da quelle parti, che ne rende incerto il passo, a meno di clamorosi e ulteriori scossoni come quello che deriverebbe, con particolare riferimento al Pd dentro la maggioranza di governo, da una vittoria della candidata di Salvini alle elezioni regionali del 26 gennaio in quella specie di mausoleo della sinistra che è l’Emilia-Romagna, col trattino assegnatole dall’articolo 131 della Costituzione.

            A rendere molle o non abbastanza solido, diciamo così, il terreno su cui si nuove il centrodestra a livello politico nazionale è il tipo di rapporti che esso non ha saputo unitariamente creare e tenere con l’Unione Europea e le forze politiche che ne gestiscono gli organismi. Dai quali nessun governo in Italia può realisticamente prescindere, non avendo chiaramente il nostro paese la forza, direi anzi la struttura, per coltivare disegni di uscita che pure la Gran Bretagna -ripeto, la Gran Bretagna- ha avuto problemi a inseguire e infine realizzare. Lo stesso Salvini, d’altronde, ha mostrato di rendersene conto frenando ogni tanto sulla strada del famoso e cosiddetto sovranismo.

            Ma non basta una frenata ogni tanto. Ci vorrebbe una stabilizzazione della marcia correttiva dell’ex ministro dell’Interno, consona del resto agli interessi della parte più tradizionale e ancora diffusa Berlusconi.jpegdello stesso elettorato leghista. Ciò forse potrebbe consentire al centrodestra a forte e ormai irreversibile trazione leghista – dopo la fisiologica consumazione del berlusconismo tradotta dalla pur amica Stefania Craxi nella considerazione che il Cavaliere “non ha più la fisicità di un tempo”-  di tradurre a livello nazionale gli indubbi successi che consegue a livello locale, vanificando le campagne di demonizzazione alle quali si presta, a torto o a ragione, la leadesrship salviniana.

           A queste campagne di demonizzazione ha fornito, col richiamo alla “insidiosità” di Salvini, una sponda nella conferenza stampa di fine anno anche Conte, deciso sì a non favorire scissioni di partiti Repubblica.jpegnella maggioranza né a fare un proprio movimento, ma anche a “restare in politica”, come ha appena fatto annunciare su tutta la prima pagina da la Repubblica, Ciincinnati.jpegprecisando di non voler essere “un altro Cincinnato” alla fine della sua attuale esperienza di governo. Pertanto non appare esagerata neppure la vignetta di Emilio Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera, che lo rappresenta ormai come l’unico o il principale antagonista  del Salvini ancora spinto dal vento elettorale.

 

 

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Conte avvolto nel fantasma della Dc: un pò fanfaniano, molto più moroteo

                Scusatemi, ma condizionato anagraficamente dal fantasma della Dc, il partito attorno al quale ha ruotato la politica italiana per tanti decenni in cui ho scritto e parlato di governi, partiti, leader, leaderini, congressi, consigli nazionali, comitati centrali, commedie e tragedie connesse, non ho resistito alla tentazione di cercare un paragone con qualcuno di quegli uomini dello scudo crociatomanfesto.jpeg sentendo Giuseppe Conte nella conferenza stampa di fine anno: il “bellissimo” 2019 previsto, promosso, annunciato dallo stesso Conte nelle ultime battute del 2018. E che tale si è rivelato almeno per lui, riuscito a restare a Palazzo Chigi, o “raddoppiare”, secondo la rappresentazione del manifesto, in un cambiamento di maggioranza che, francamente, più radicale non poteva essere.

             Il mio pensiero è corso subito al decisionismo e all’impulsività di Amintore Fanfani nel sentire l’’annuncio di Conte di avere risolto in quattro e quattr’otto il problema delle dimissioni di Lorenzo Fioramonti da ministro della Pubblica Istruzione, nonostante i retroscena giornalistici  appena pubblicati sui problemi che avevano creato i grillini al presidente del Consiglio anche nella indicazione del successore al loro collega. Che peraltro era uscito dal governo in dissenso non tanto dal ministro piddino dell’Economia perché gli aveva negato i maggiori fondi reclamati per la scuola quanto dal capo del movimento delle 5 stelle Luigi Di Maio, contestato da Fioramonti per i suoi metodi di comando e per lo stesso contenuto della sua linea politica, incerta tra una certa nostalgia di Salvini, al di là delle apparenti polemiche, e una certa diffidenza verso il Pd e Conte in particolare. Di cui lo stesso Di Maio secondo indiscrezioni di stampa teme la concorrenza come capo del movimento, godendo in fondo di più fiducia di lui da parte del “garante”, dell’”elevato”, del “fondatore” Beppe Grillo.

             Di stampo o stile fanfaniano, cioè decisionista, mi è apparso anche il tipo di soluzione data da Conte alla sostituzione di Fioramonti, tornando allo spacchettamento del Ministero in due per lasciare la parte ordinaria della scuola alla sottosegretaria grillina uscente Lucia AZZOLNA.jpegAzzolina, e assegnare la parte forse MANFREDI.jpegpiù corposa o prestigiosa, quella dell’Università e della Ricerca, a un uomo praticamente del Pd: il rettore dell’Università di Napoli presidente della Conferenza dei rettori Gaetano Manfredi. Così, fra l’altro, Di Maio non potrà più dire, come più volte gli è stato attribuito, sempre dai retroscenisti e in polemica per il troppo spazio lasciato da Conte alla componente piddina della coalizione, che a detenere la maggioranza nel Consiglio dei Ministri sono i pentastellati.

              Ma la parte del fantasma di Fanfani è finita qui. Per tutto il resto della conferenza stampa di fine anno- in particolare, per la sua ostinata fiducia nella soluzione delle controversie nella maggioranza, per la minimizzazione dei contrasti e, più in generale, delle difficoltà reali o potenziali, comprese le scadenze elettorali locali e i referendum possibili sulla diminuzione del numero dei parlamentari e sulla legge elettorale, per le distanze nettissime prese da quanti, fra i grillini, a cominciare da Fioramonti, pensano di costituire gruppi autonomi per sostenerlo più convintamente di Di Maio, per il conseguente invito rivolto a tutti membri della maggioranza a rimanere prudentemente nei rispettivi partiti per non frantumare la coalizione- per tutto il resto, dicevo, Conte mi è sembrato emulo del personaggio democristiano da lui stesso d’altronde indicato come modello sin dall’inizio della sua esperienza di governo: il corregionale Aldo Moro.

             Non so, francamente, se a posta o per una felice combinazione, Conte ha innalzato una specie di monumento al metodo del “confronto”, sempre e ad ogni costo, anche con l’opposizione leghista, al netto della “insidiosità” della leadership salviniana. Ebbene, “Confronto” fu il nome che Moro volle dare all’agenzia della corrente democristiana da lui creata nell’estate del 1968 rompendo con i “dorotei” di Mariano Rumor e Flaminio Piccoli, che lo avevano appena detronizzato da Palazzo Chigi con l’aiuto di Fanfani, Il quale poi derise un po’ quel termine inserendolo tra “le parole magiche” che secondo lui, istintivamente portato a tagliare più che a sciogliere i nodi, rischiavano di non risolvere ma complicare le situazioni.

             Il confronto, secondo quanto cercò una volta di spiegarmi lo stesso Fanfani, polemico allora anche col suo ancora delfino Arnaldo Forlani, che io avevo empaticamente  descritto in un articolo come fanfaniano nel cuore e moroteo nella mente, era inevitabilmente nelle cose. Moro e Fanfani.jpegQuando lo si assumeva come linea distintiva di una politica, alla maniera appunto di Moro, l’altro “cavallo di razza” della Dc, diventava qualcosa di equivoco o ambiguo. Ciò tuttavia non avrebbe impedito a Fanfani nel 1978, cioè dieci anni dopo, di essere nella Dc fra i più solidali con Moro sequestrato dalle brigate rosse e condannato a morte dopo un sommario processo nella “prigione del popolo”. L’allora presidente del Senato  incoraggiò dietro le quinte il capo dello Stato Giovanni Leone a tentare la grazia solo ad una dei tredici detenuti, o “prigionieri”, con i quali i terroristi volevano scambiare il presidente della Dc. Ma gli aguzzini preferirono precedere Leone assassinando l’ostaggio.

 

 

 

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Il governo tra i botti e le botte sotto le cinque stelle, e la paura di Di Maio

            Non è detto che Giuseppe Conte, per quanto abile nella gestione degli affari di Palazzo Chigi, come ha dimostrato rimanendovi alla testa di due maggioranze non diverse ma opposte, riesca a Botti 5 stelle.jpegproteggersi del tutto dai “botti di fine anno tra i 5 Stelle”, come ha titolato in prima pagina La Gazzetta del Mezzogiorno. O dalle botte che si avvertono in altre cronache giornalistiche sulle risse esplose nel movimento grillino dopo le dimissioni di Lorenzo Fioramonti da ministro della Pubblica Istruzione. Che sono state presentate formalmente contro i finanziamenti alla scuola negati nel bilancio dal superministro piddino dell’Economia Roberto Gualtieri, ma sostanzialmente contro Luigi Di Maio, capo ancòra della formazione pentastellata e della relativa delegazione al governo, che non avrebbe sostenuto abbastanza la posizione del suo ormai ex collega.

            Sentitosi sotto attacco in una situazione già indebolita dalla copertura relativa che gli fornisce ogni tanto Beppe Grillo dicendo che questo non è il momento di  sostituirlo alla guida del movimento, Di Maio ha sollecitato un “rilancio” dell’azione di governo. E ha chiesto vertici, verifiche e quant’altro già dal 7 gennaio, una volta spacchettati i doni della Befana.

            Più che sul “rilancio”, pur proponendosi certamente di allungare il passo, il presidente del Consiglio si è però preoccupato di mettere l’accento sulla “stabilità” di cui ha bisogno la variegata, forse troppo variegata coalizione giallorossa. Ed è proprio in funzione della stabilità che egli ha praticamente ammonito il dimissionario Fioramonti a non allestire gruppi parlamentari di dissidenti o transfughi grillini per sostenere il presidente del Consiglio meglio del troppo ondivago Di Maio, perché la maggioranza -ha detto Conte- avrebbe tutto da rimettere in una ulteriore frammentazione, dopo l’uscita di Matteo Renzi dal Pd. E il presidente del Consiglio sa bene quanti problemi gli abbiano già procurato i renziani e quanti ancora potrebbero creargli: per esempio, sul tema scivolosissimo della nuova disciplina della prescrizione, che sta per scattare grazie alla legge “spazzacorrotti” approvata dalla precedente maggioranza gialloverde per magnanima concessione fatta l’anno scorso dai leghisti al guardasigilli grillino Alfonso Bonafede.

            Allora Matteo Salvini, frenando la sua consigliera e ministra della funzione pubblica Giulia Bongiorno, consentì che la prescrizione fosse bloccata dal 1° gennaio del 2020 con la sentenza di primo grado anche senza la contemporanea riforma del processo penale, necessaria invece per evitare che un imputato rimanesse tale a vita, pur essendo stato assolto nel primo giudizio con una sentenza impugnata dall’accusa. Il leader leghista ritenne che si sarebbe fatto in tempo a tutelare davvero entro il 2019 la ragionevole durata del processo garantita dall’articolo 111 della Costituzione.

            Il Pd, subentrato alla Lega nel governo dopo la crisi agostana provocata da Salvini, ha fatto di tutto nelle scorse settimane per riaprire il discorso e smuovere dalla rigidità il guardasigilli, ma inutilmente. Prima ha evitato, per lealtà di coalizione o maggioranza, di votare una modifica alla “spazzacorrotti” proposta dal centrodestra. Poi ha annunciato la presentazione di un suo progetto di legge per la sospensione del conteggio della prescrizione dopo il primo grado sino a tre anni e mezzo per tutelare l’imputato in appello e in Cassazione, ma precisando di non voler contare sui voti dell’opposizione per farlo passare, cioè rinunciandovi in caso di confermato dissenso dei grillini, o sperando che nel frattempo il problema venga risolto con qualche intervento della Corte Costituzionale.

            A questo punto sono intervenuti i renziani con Davide Faraone per annunciare che anche loro Faraone.jpegpresenteranno un progetto di modifica della nuova disciplina della prescrizione, ma decisi a farlo passare comunque, anche spaccando la maggioranza con i voti dell’opposizione e sfidando i grillini alla crisi. “Non pensino i 5 Stelle che siccome hanno fregato Salvini, ora riescono a fregare anche noi”, ha testualmente dichiarato il senatore della renziana Italia Viva al Corriere della Sera.

 

 

 

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Per Conte il 2019 è stato davvero l’anno “bellissimo” che aveva promesso

Consapevole della quantità e della gravità dei problemi sul tappeto per tutta la comunità nazionale, e quasi per scusarsi dell’eccessivo ottimismo col quale salutò l’arrivo del 2019 prevedendolo “bellissimo”, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha recentemente detto in un salotto televisivo di essersi fatto prendere un po’ troppo la mano dall’insistenza con la quale i giornalisti gli chiedevano allora previsioni.

Il quadro economico e politico, in verità, era difficile anche in quei tempi.  Conte aveva appena finito di salvare il progetto di bilancio dall’artiglieria -si fa per dire- dell’Unione Europea, allarmata da quel 2,4 per cento di deficit rispetto al prodotto interno lordo con cui il suo vice presidente del Consiglio e pluriministro Luigi Di Maio aveva baldanzosamente annunciato in autunno dal balcone di Palazzo Chigi addirittura la fine della povertà.

Il salvataggio dei conti, dopo una lunga trattativa a Bruxelles, fu possibile abbassando il deficit dal 2,4 al 2,04 per cento, con tutte le ironie scritte e disegnate su quello zero che aveva fatto la differenza, almeno in apparenza, rendendo digeribili alle autorità di sorveglianza, o similari, le spese per il reddito di cittadinanza e per gli anticipi pensionistici che grillini e leghisti si erano scambiati nel contratto di governo.

Ma a favore di Conte e delle sue previsioni giocava soprattutto la determinazione con la quale entrambi i partiti della maggioranza gialloverde, come fu chiamata dai colori delle due formazioni politiche che la componevano, si proponevano di far durare il loro governo per cinque anni, cioè per tutta la durata della legislatura pur così avventurosamente cominciata, con una crisi piena di sorprese, un presidente della Repubblica ricorso a ben due esplorazioni suppletive alle sue consultazioni, affidate ai presidenti delle Camere, una minaccia di impeachment a Mattarella da parte di Di Maio e infine l’intesa fra due partiti, o movimenti, che in campagna elettorale se l’erano pur dette e date di santa ragione.

Quella Moro e Berlinguer.jpegeccezionale formula di governo apparve simile per certi aspetti alla straordinarietà degli accordi raggiunti nel 1976, sotto la regìa di Aldo Moro per la Dc e di Enrico Berlinguer per il Pci,  fra i due partiti più votati dagli elettori ma contrapposti nei programmi e nelle ideologie.

Minata però dalla mancanza della clausola prudentemente concordata nel 1976 fra la Dc e il Pci, secondo cui nessuno dei due partiti avrebbe tentato in caso di crisi di fare un governo l’uno contro l’altro, con sbocco quindi inevitabilmente elettorale, la coalizione gialloverde si è letteralmente dissolta nella scorsa estate: quasi come un gelato al sole.

I grillini non hanno saputo resistere alla botta delle elezioni europee di fine maggio, costate loro quasi metà dei voti conseguiti l’anno prima nelle elezioni politiche. E i leghisti di Matteo Salvini non hanno saputo resistere alla tentazione di incassare subito e tutto il loro dividendo elettorale, diciamo così, reclamando un rinnovo anticipato delle Camere per tornare poi al governo con un centrodestra a trazione questa volta indiscutibilmente salviniana, date le dimensioni assunte dalle distanze tra i partiti di Salvini e quelli di Silvio Berlusconi e di Giorgia Meloni.

In assenza, ripeto, della clausola della dissoluzione di memoria morotea e berlingueriana, e per giunta indeboliti dal dimezzamento elettorale di fine maggio nel rinnovo del Parlamento europeo, i  grillini non hanno esitato a raccogliere la palla prontamente passata loro dal Pd dopo la crisi attivata da Salvini. E si è arrivati al governo attuale. Che non era però per niente scontato fosse guidato da Conte, non a caso contestato in un primo momento dal Pd in nome della cosiddetta discontinuità, apparsa necessaria alla sinistra per sottolineare un così vistoso e obiettivo cambiamento di scenario politico.

Bisogna riconoscere, ai di là dei giudizi personali e politici che ciascuno può avere maturato verso di lui, che Conte ha saputo giocare al meglio la partita di Palazzo Chigi nel passaggio tra una maggioranza e l’altra. Lo ha fatto sia sul versante grillino, dove certamente non mancavano alternative che potessero fare comodo anche al Pd, come la promozione di Roberto Fico, che avrebbe non aperto ma spalancato le porte della presidenza della Camera a Dario Franceschini, che vi aveva già puntato nel 2013, sia sul versante di sinistra. Negare questa abilità Conte con Trump.jpegdi Conte, questa capacità che ha dimostrato di tessere rapporti personali e politici, anche fuori d’Italia, con quel “Giuseppi” d’incoraggiamento gridatogli oltre Oceano dal presidente in persona degli Stati Uniti d’America, pur con certi veleni che sono poi intervenuti, sarebbe non solo ingiusto ma anche disonesto.

Forse neppure il presidente del Consiglio, arrivato alla politica dall’Università e dalla professione forense in modo davvero inatteso, si è reso e si rende ancora conto dell’eccezionalità della sua conferma a Palazzo Chigi con scenari così diversi fra di loro.

Solo due predecessori di Conte su questo terreno potrebbero essere intravisti sfogliando l’elenco dei governi succedutisi nella storia ormai più che settantennale della Repubblica. Sono Alcide De Gasperi, passato di colpo da un governo con i comunisti ad un governo contro i comunisti, e Giulio Andreotti, passato da un governo centrista contro le sinistre al governo di cosiddetta solidarietà nazionale, composto interamente da democristiani e appoggiato dai comunisti in modo determinante. Ma entrambi i paragoni alla fine non reggono all’esame analitico dei fatti e delle circostanze, per cui Conte rimane un caso unico.

De Gasperi, il mitico presidente della ricostruzione dell’Italia dopo il disastro della seconda guerra mondiale, fu in grado nella primavera del 1947 di scaricare i comunisti e i socialisti praticamenteDe Gasperijpeg.jpeg dalla sera alla mattina, dopo un viaggio negli Stati Uniti, in un contesto istituzionale e internazionale particolarissimo. Si era ancora in fase costituente, dopo il referendum del 1946 che aveva istituito la Repubblica, ma si erano già esaurite le ragioni e la logica dei comitati nazionali di liberazione dal nazifascismo. C’era solo da applicare nei territori del vecchio continente la logica della spartizione politica concordata fra le potenze vincitrici della guerra a Yalta, dove fu praticamente deciso che i comunisti avrebbero governato nell’est dell’Europa, sotto l’influenza sovietica, e non all’Ovest, che sarebbe stato d’influenza americana. Nacque così il quarto governo De Gasperi, composto solo da democristiani, socialdemocratici, repubblicani e liberali, che insieme avrebbero non vinto ma stravinto il 18 aprile 1948 contro il cosiddetto fronte popolare dei comunisti e dei socialisti le elezioni per la prima vera e propria legislatura repubblicana. Ciò consentì di proseguire la stagione centrista sino alla rottura fra i socialisti, già abbadonati dai socialdemocratici nel 1947, e i comunisti: rottura che avrebbe consentito il passaggio dal centrismo al centro-sinistra, allora da scrivere rigorosamente col trattino, tanta era la prudenza della Dc.

Andreotti invece formò il suo primo governo, interamente democristiano, nel febbraio del 1972 per gestire le elezioni anticipate provocate dall’esaurimento della prima fase del centro-sinistra, quando i socialisti ruppero con laAndreotti.jpeg Dc per l’elezione di Giovanni Leone al Quirinale senza il loro consenso, con una maggioranza di centro-destra. Seguì dopo le elezioni un secondo governo Andreotti di coalizione centrista, composto da democristiani, socialdemocratici e liberali e appoggiato esternamente dai repubblicani. Esso durò sino a giugno dell’anno dopo, quando un congresso nazionale della Dc preceduto da un vertice dei capicorrente promosso a Palazzo Giustiniani dal presidente del Senato Amintore Fanfani, non decise il ritorno dello stesso Fanfani alla segreteria del partito, in sostituzione del suo ormai ex delfino Arnaldo Forlani, e il ripristino governativo del centrosinistra, questa  volta senza più il trattino, sotto la guida di Mariano Rumor.

Fra l’uscita di Andreotti da Palazzo Chigi con una maggioranza centrista e il suo ritorno, nel mese di luglio del 1976, alla guida di un governo monocolore democristiano concordato con i comunisti, passarono tre anni e quattro governi, dei quali due presieduti da Rumor con maggioranze di centrosinistra, e due da Aldo Moro. Di cui, a loro volta, uno ancora a maggioranza di centrosinistra, ma composto di soli democristiani e repubblicani, e l’altro monocolore dc per la gestione delle elezioni anticipate provocate dalla decisione del Psi guidato da Francesco De Martino di non avere più rapporti con lo scudo crociato senza l’appoggio dei comunisti.

Conte non ha avuto bisogno né di tre anni né di quattro governi intermedi per disfare una maggioranza e negoziarne un’altra di segno opposto ripresentandosi alla Camera l’8 settembre per annunciare “l’inizio di una nuova risolutiva stagione riformatrice, lasciandoci alle spalle -disse- il frastuono dei proclami inutili e delle dichiarazioni bellicose e roboanti”. E per impegnarsi, con tutti i suoi vecchi e nuovi ministri “a ricercare le parole, adoperare un lessico più consono e più rispettoso delle persone, delle diversità delle idee”, per cui “la lingua del governo sarà mite”.

Già messi duramente alla prova nei primi mesi di vita, questi impegni assunti da Conte per il suo secondo governo avranno già agli inizi del nuovo anno difficili verifiche: termine, quest’ultimo, che si è riaffacciato nelle cronache politiche dopo essere stato archiviato con la cosiddetta prima Repubblica.

Fra l’altro, Conte potrebbe essere scomodamente chiamato a riferire sull’affare Gregoretti, in cui l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini rischia un processo per sequestro di persona, nella giunta Salvini.jpegdelle immunità del Senato presieduta da Maurizio Gasparri. Sembra che sia stata proprio una comunicazione di distanza o disimpegno di Palazzo Chigi dalla vicenda di quella nave della Guardia Costiera, ferma non certamente di nascosto a fine luglio per tre giorni  nel porto di Augusta con più di 100 migranti a bordo, a indurre il cosiddetto tribunale dei ministri di Catania a chiedere il processo, in difformità dall’archiviazione proposta dall’accusa. Con una certa, significativa cautela Conte ha recentemente dichiarato: “Mi pronuncerò a tempo debito. Consulterò le carte e poi parlerò. Per ora si è espressa la Segreteria Generale di Palazzo Chigi che ha dato atto che è stato un tema mai dibattuto nel Consiglio dei Ministri che si è svolto nei giorni della Gregoretti”. Prudenza d’avvocato, direi, oltre che di presidente del Consiglio.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

L’ex ministro grillino Lorenzo Fioramonti da Trastevere al Colosseo

              L’ultima o penultima grana politica dell’anno -si vedrà- porta dunque il nome del dimissionario ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti. Che se n’è andato, per sua fortuna, non per non essere riuscito a fare rimuovere i crocifissi appesi alle pareti delle aule scolastiche, come avrebbe voluto esibendo i suoi muscoli laici, ma più banalmente per avere mancato non si sa bene di quante centinaia di milioni di euro l’obietivo prefissosi di strappare nel bilancio tre miliardi all’avarissimo superministro piddino dell’Economia Roberto Gualtieri. Il quale già di suo cammina, anzi marcia col petto in fuori e braccia vigorosamente tese, ma nel caso del confronto con Fioramonti avrebbe avuto un sovrappiù di baldanza, secondo il dimissionario, perché sicuro dello scarso interesse mostrato per la sua sorte dal capo ancòra del movimento pentastellato di appartenenza dell’ex ministro, cioè Luigi Di Maio. Cui non a caso i giornali hanno attribuito, sinora senza alcuna smentita o precisazione, la convinzione che a questo punto “una scissione possa essere un bene”, se davvero Fioramonti dovesse andarsene anche dal partito e mettere insieme alla Camera un gruppo di dissidenti, come si vocifera.

            Più che da foto o da analisi, il caso Fioramonti è da vignette. La scelta è fra quella di Emilio Giannelli, sulla prima pagina del Corriere della Sera, che rappresenta l’ex ministro con un nodoso bastone fra versione Mannelli.jpegle mani dopo avere tramortito Di Maio facendogli saltare le stelle da tutte le mostrine cucitegli addosso da Beppe Grillo, e quella di Riccardo Mannelli. Che sul Fatto Quotidiano, dove si ritiene che dei grillini sappiano più di tutti gli altri giornali messi insieme, ha rappresentato il presidente del Consiglio Giuseppe Conte molto su di giri per il crescente numero di persone cui riesce a piacere, compreso Fioramonti. Che vorrebbe mettergli a disposizione il gruppo di dissidenti attribuitogli dai retroscenisti perché il capo del governo si possa difendere meglio non dalle opposizioni di centrodestra ma dai sabotatori interni alla maggioranza: dagli odiati renziani, naturalmente, ai grillini di strettissima vicinanza a Di Maio.

            In verità, la visione almeno apparentemente deducibile dalla vignetta di Mannelli non sembra confermata dalle notizie provenienti da Palazzo Chigi, dove si parla di un Conte più infastidito e preoccupato che soddisfatto e vanitoso dei consensi vecchi e nuovi che raccoglie in giro: più infastidito e preoccupato persino del suo estimatore e direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio. Che in un editoriale dei suoi, intinto più del solito nel veleno dell’attacco al reprobo di giornata, ha sfottuto i Fioramonti di turno come “gli ultimi Solgenitsin” dell’ormai defunta Unione Sovietica. E al ministro dimissionario ha rimproverato, più in particolare, i poco commendevoli primati conquistati col misero 1,37 per cento di partecipazione alle votazioni parlamentari e l’abbondantissimo 98,63 per cento di assenze, per missione o altro: cifre più da somaro, con le orecchie grosse, che da professore, per quanto della lontana Pretoria.

         Non parliamo poi delle insolvenze associative ed economiche, diciamo Fioramonti.jpegcosì, che già hanno contestato a Lorenzo Fioramonti i tesorieri, cassieri e quant’altri del movimento di cui l’ex ministro avrebbe pertanto abusato. Finalmente abbandonati gli uffici ministeriali di viale Trastevere, egli sarebbe ormai più da pasto in un Colosseo tornato ai suoi fasti, con le belve tutte ben affamate, che da pergamena di una qualsiasi scuola del nostro sfortunato pianeta.  

 

 

 

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La clemenza che Grillo chiede e non merita da un bambino ormai nato

               Con la fantasia che certamente non gli manca, ma anche con l’improntitudine di “un artista pazzo” nel quale si riconosce lui stesso, Beppe Grillo ha festeggiato il Natale a modo suo, dietroLettera di Grillo.jpeg i cancelli che lo proteggono nelle sue ville come una volta -mi è già capitato di osservare- il bambino lampadina.jpegmuro di Berlino proteggeva dalla vista degli importuni i capi che governavano quella metà d’Europa finita sotto il controllo sovietico dopo la seconda guerra mondiale, e gli effetti che producevano ma da cui non si poteva scappare senza rischiare la morte.

            Il comico che ha saputo conquistare con una risata il sostanziale controllo della politica italiana, riducendo a cartoline il Quirinale, Palazzo Chigi, le Camere e quant’altro, ha rilanciato nello spazio col suo blog, come con una bottiglia in mare, una lettera di Natale scritta già sei anni fa a un bambino non ancora nato: niente di paragonabile, per carità, a quella omonima, e di tutt’altro Natale, della grandissima, indimenticabile Oriana Fallaci.

            Gà sei anni fa, quando il suo movimento politico delle 5 stelle era approdato in Parlamento, aveva liquidato con uno sberleffo il governo “di minoranza e di combattimento” che l’allora segretario del Pd Pier Luigi Bersani si era proposto di fare con l’aiuto del comico di Genova, aveva praticamente costretto Giorgio Napolitano a farsi rieleggere al Quirinale per la impraticabilità di ogni altra soluzione, aveva indotto lo stesso Bersani a improvvisare le cosiddette larghe intese con Silvio Berlusconi attorno al primo e unico governo di Enrico Letta e infine consentito a Matteo Renzi di irrompere sulla scena come una specie dell’uomo della Provvidenza, Grillo ebbe il sospetto che il bambino non ancora nato “dopo venti o trent’anni” non avrebbe ben capito a che razza di rivoluzione suo babbo, o suo nonno, avesse voluto destinarlo. E gli chiese perciò “clemenza” nel giudizio, assicurandogli che tutto era stato pensato e impostato da lui e dai suoi “ragazzi” con le migliori intenzioni di questo mondo. Di cui si sa quanto sia generalmente lastricata la via dell’Inferno.

            Si dà il caso, purtroppo, che da quella data, pur riproposta come attuale per questo Natale del calante 2019, siano passati sei anni sufficienti a quel bambino destinatario della lettera di nascere, per quanto la mamma avesse cercato di ritardare il parto, di guardarsi intorno, di avvertire e capire gli umori dei genitori, di vedere certe facce in televisione e di avere già avvertito forse che c’è qualcosa in loro che non funziona. Forse quel bambino -sicuramente non i suoi genitori o fratelli più grandi-non avrà bisogno di raggiungere l’età del voto, a 18 anni o ai 16 cui qualcuno vorrebbe abbassarla, per avvertire “le figure sbiadite dei leader di oggi” come “macchiette -parole dello stesso Grillo- o incidenti della storia, persone senza alcuna visione che purtroppo hanno disegnato come potrebbe solo un artista pazzo”, quale -ripeto- lo stesso Grillo inconsciamente ha avuto paura di essere.

            Mi chiedo con franchezza se Grillo meriti la clemenza di giudizio che ha chiesto in questa stagione politica che ha quanto meno contribuito a confondere: per esempio, prima approvando l’alleanza con i leghisti e poi chiedendo la stabilizzazzione dell’accordo di governo fra il Pd e il suo movimento, ma continuando a lasciare le pile e i comandi delle cinque stelle a Luigi Di Maio. Di Maio.jpegChe sembra essere francamente quello meno convinto del quadro cui appartiene, non sapendo da chi debba guardarsi di più fra i colleghi di partito -parola orribile solo a pronunciarsi dalle sue parti- e un presidente del Consiglio che lo sovrasta per preparazione ed è costretto continuamente a contenerne i danni spesso procurati anche inconsapevolmente: dall’annuncio della fine della povertà in poi, senza discontinuità fra un governo e l’altro.

             C’è un ministro, quello grillino della Pubblica Istruzione Lorenzo Fioramonti, che ha appena appeso Luca Fioramonti.jpegall’albero di Natale una copia della lettera di dimissioni spedita a Plazzo Chigi da una parte per protestare contro i pochi fondi ottenuti per la scuola dal ministro piddino dell’Economia, sbrigativo nei suoi rifiuti quando non teme o sottovaluta l’interlocutore,  e dall’altra per prendersi la libertà di costituire un gruppo automomo alla Camera di maggiore sostegno al presidente del Consiglio. Sembra una commedia pirandelliana, ma è la realtà.

 

 

 

 

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Conte corre di Natale a Taranto e reagisce ai contestatori della “passerella”

              Nanni Moretti ai tempi delle contestazioni che muoveva ai vari Massimo D’Alema e Walter Veltroni, accusandoli che mai avrebbero riportato il loro partito a vincere governando come avevano fatto sino ad allora, avrebbe probabilmente definito “una cosa di sinistra” l’incursione natalizia del presidente del Consiglio Giuseppe Conte nella tormentatissima Taranto: la città pugliese sotto molti aspetti emblematica della crisi industriale e politica del Paese. Dove il capo del governo ha avuto anche la prontezza di spirito di contestare la “passerella” rimproveratagli dagli immancabili critici che inseguivano fotografi e operatori televisivi contestando a sua volta le proteste, perché nessuno li aveva invitati o sollecitati a quel suo presunto spettacolo opportunistico, propedeutico al tentativo di salvataggio dell’ex Ilva e di un  decreto legge in arrivo col nome di “cantiere Taranto”.

            Beh, il professore sta migliorando le sue prestazioni comunicative, bisogna riconoscerlo. Un’altra prova si è avuta con la frenata compiuta sulla strada dello scontro ad ogni costo col suo ex ministro dell’Interno Matteo Salvini indicata e cercata da Luigi Di Maio ed altri grillini a proposito della vicenda Gregoretti: la nave della Guardia Costiera bloccata per tre notti a fine luglio nel porto di Augusta con più di 100 migranti, regolarmente soccorsi ma in attesa di distribuzione fra più paesi dell’Unione Europea.

            Nonostante l’archiviazione proposta dalla Procura di Catania, Salvini rischia il processo per sequestro di persona, di cui è stata chiesta l’autorizzazione dal cosiddetto tribunale dei ministri etneo al Senato, che la negò per un’analoga vicenda occorsa con la nave Diciotti, anch’essa della Guardia Costiera, riconoscendo a Salvini di essersi mosso allora nell’interesse superiore dello Stato.

            Ebbene, mentre Di Maio e quasi tutti gli altri grillini si sono già schierati per il processo sostenendo che l’allora ministro leghista dell’Interno per la Gregoretti agì da solo, senza le coperture precedenti del governo, Conte ha più prudentemente dichiarato al Messaggero di ieri: “Mi  pronuncerò a tempo debito, consulterò le carte e poi parlerò”, probabilmente alla giunta delle immunità del Senato che ha in esame la pratica. “Per ora -ha precisato il presidente del Consiglio- si è espressa la segreteria generale di Palazzo Chigi, che ha dato atto che non è stato un tema mai dibattuto nel Consiglio dei Ministri”. Ma della vicenda Conte e gli altri esponenti di governo  non potevano essere certamente  all’oscuro, essendo rimasta abbastanza su tutte le prime pagine dei giornali.

 

 

 

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Una tregua politica -si spera- di due giorni per chiusura festiva delle edicole

              Al netto dei danni, delle sorprese e di quant’altro potrà procurare l’informazione elettronica, ascoltando la radio, vedendo la televisione e navigando in internet, se ne avremo la voglia e Avviso ai lettori.jpegil tempo, la polemica politica subisce una tregua di due giorni, o 48 ore, come preferite, derivante dalla chiusura festiva delle edicole, e quindi dalla rinuncia dei giornali a stampare i loro fogli. “Ci rivedremo venerdì 27”, hanno annunciato i quotidiani augurando “buone feste” di Natale “a tutti”.

            Qualcuno comunque ha accompagnato questo annuncio col messaggio incorporato, seppure non esplicito, che il prossimo non sarà un venerdì tranquillo. Il bilancio dello Stato sarà ormai al sicuro nei cassetti dove è tornato dopo i passaggi -si fa per dire- parlamentari a colpi di voti di fiducia e di proteste per il solito strangolamento del dibattito e le altrettanto solite violazioni di articoli costituzionali e regolamenti delle Camere. Su cui la Corte dirimpettaia al Quirinale -statene certi- troverà il modo di chiudere anche l’altro occhio, dopo quello dell’anno scorso, occupandosi di un ricorso della sinistra ora al governo.

            Al Fatto Quotidiano hanno praticamente  escluso dagli auguri di “buone fette a tutti” il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, cui hanno dedicato il titolo di copertina per dargli del bugiardo sull’affare, o malaffare, della Banca Popolare di Bari appena protetta da sacchi di soldi pubblici con un decreto legge del secondo governo Conte, come negli anni passati accadde con altre banche su iniziativa del governo di Matteo Renzi. Che anche allora protestò per la scarsa o mancata vigilanza, secondo lui, della Banca d’Italia chiedendo non più da presidente del Consiglio, avendo lasciato Palazzo Chigi per la sconfitta referendaria sulla riforma costituzionale, ma da segretario ancòra del Pd di negare a Visco la conferma del mandato in scadenza.

 Ma il nuovo presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni,  per quanto da lui stesso proposto al presidente della Repubblica, e lo stesso presidente Mattarella con la sua attività di persuasione dietro le quinte, non ne vollero sapere. E confermarono Visco col plauso -se non ricordo male- anche del giornale diretto da Marco Travaglio. Che evidentemente non volle rinunciare alla soddisfazione di vedere Renzi uscire dalla vicenda con le ossa politicamente rotte, preludio peraltro ad una scissione del Pd e alla sconfitta elettorale dell’anno successivo per il rinnovo ordinario delle Camere.

            I tempi sono cambiati, ridicolmente come spesso avviene. Ora Renzi, distratto da altri fuochi nella maggioranza di governo cui partecipa a modo suo, strattonando o borbottando come faceva, a piedi e in bicicletta, il suo corregionale Gino Bartali e si è tolto la soddisfazione di vedere il governatore della Banca d’Italia contestato da chi lo aveva difeso quando a dubitare o attaccare era stato lui. Sono soddisfazioni, pure queste: l’involontario regalino di Travaglio a Renzi messogli nottetempo sotto l’albero di Natale nella nuova casa di Firenze. Che  forse al Fatto Quotidiano, per lo studio che hanno condotto al Catasto e dintorni, fra ipoteche, prestiti e quant’altro, hanno finito per conoscere meglio di chi l’ha acquistata e vi è andato ad abitare.

 

 

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Lite Continua tra una fiducia e l’altra al governo di turno sul bilancio dello Stato

Anche se Ernesto Galli della Loggia in un editoriale sul Corriere della Sera se l’è presa con Giorgio Napolitano, e un po’ anche con Mario Monti, sostenendo che i guai provengono in sostanza dalle mancate elezioni anticipate nel 2011, quando il Pd di Pier Luigi Bersani aveva in tasca la vittoria per l’ormai “naufragio del berlusconismo”, quella che lo stesso Galli della Loggia definisce “la girandola del nulla” della vita politica italiana ha origini e cause ben più antiche. E’ da un pezzo che sono stati sconfitti e disarmati i generali Ferragosto e Natale, come venivano chiamati ironicamente dagli stessi politici quando decidevano di sospendere le loro ostilità.

Fu del resto alla vigilia del lontanissimo Natale del 1971, proprio il 24 dicembre, che il povero Giovanni Leone venne eletto presidente della Repubblica al ventitreesimo scrutinio. E finì lì solo perché Aldo Moro intervenne di persona, telefonando a quasi a tutti i parlamentari della sua corrente, uno per uno, per dissuaderli dal proposito di vendicarne la sconfitta come candidato del partito nella votazione svoltasi nei gruppi parlamentari democristiani dopo la ritirata imposta dai cosiddetti franchi tiratori al pur irriducibile Amintore Fanfani. Che da presidente del Senato si era preparato a quella partita con un impegno che vi lascio immaginare. Nella partita tutta interna alla Dc alla fine Leone era prevalso su Moro, allora ministro degli Esteri ma già segretario del partito e più volte presidente del Consiglio, con un numero di schede inferiore alle dita di una mano, o quasi.

Pertanto non si può neppure dire, come si potrebbe essere tentati a prima vista polemizzando con l’editorialista del Corriere, che bisognerebbe risalire alla stagione di Tangentopoli e alla decapitazione giudiziaria dei partiti di governo della cosiddetta Prima Repubblica per trovare l’origine del marasma attuale, o della lite continua che in politica ha preso il posto della Lotta Continua degli anni del terrorismo.

D’altronde, fu proprio Leone dal Quirinale, con una iniziativa che infastidì un po’ tutti i partiti, di maggioranza ma anche di opposizione, a porre con un messaggio alle Camere il 15 ottobre 1975 il problema di una riforma costituzionale. Il sistema ideato dai costituenti nel 1947 era già bello che invecchiato, con l’andirivieni delle leggi da una Camera all’altra e tutto il resto. Il solo parlarne però era pericoloso. Si rischiava quanto meno di essere confinati quasi all’estrema destra, com’era capitato negli anni Sessanta a un antifascista di 24 carati come il leggendario Randolfo Pacciardi, un repubblicano che quasi morì dell’infamia procuratagli dalla proposta di eleggere direttamente il capo dello Stato.

Gli stivali furono messi anche addosso a Bettino Craxi, non solo nelle vignette di Giorgio Forattini, quando ripropose con una certa forza da leader socialista, nel 1979, la riforma costituzionale, di cui pure avevano cominciato ad occuparsi tanto di commissioni bicamerali. Niente da fare. Il sistema doveva rimanere quello di una diligenza, a dispetto dei motori sopraggiunti anche di una semplice macchina utilitaria.

Va detto con tutta onestà e franchezza che la colpa di questo ritardo nell’evoluzione del sistema istituzionale non è solo dei partiti, vecchi e nuovi, ma del Paese. Lo dimostrano le bocciature referendarie delle riforme costituzionali alla fine tentate e fatte  approvare faticosamente dalle Camere, con le procedure e la velocità appunto delle diligenze, sia dal centro destra, nel 2006, sia dal centrosinistra dieci anni dopo, entrambe scambiate da un elettorato di incalliti conservatori come attentati alla democrazia: una cosa da non credere ma realmente avvenuta, con una paurosa trasversalità di equivoci, di personalismi e di cinismi. E poi siamo sempre lì, tutti pronti a scattare e a strapparci le vesti per le risse continue, nelle maggioranze di ogni tipo e colore. E a chiedere aiuto alla Corte Costituzionale, da sinistra a destra, quando leggi e regolamenti parlamentari sono letteralmente travolti, cioè violati, dalla forza delle cose, com’è accaduto per l’approvazione del bilancio l’anno scorso e si è ripetuto quest’anno.

Tutti dannati questi governi e questi bilanci? O c’è qualcosa che bisogna decidersi a chiederci se  non è sbagliato nel sistema? Che non può certamente salvarsi la faccia con i voti di fiducia in serie e con qualche domenica di lavoro straordinario. E non si creda, per favore,  come sostengono i grillini, che tutto tornerebbe o andrebbe a posto in un Parlamento di “soli” quattrocento deputati e duecento senatori, contro i quasi mille -fra gli uni e gli altri- di oggi, di ieri e dell’altro ieri. Il problema, ripeto, è di sistema. Contro quello attuale si romperebbero la testa tutti: anche il povero Mario Draghi, visto che sta diventando come il barbiere di Siviglia, che tutti vogliono e tutti cercano per godersi solo lo spettacolo del suo immancabile incidente.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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