Mario Monti attacca Salvini e sparge sale sulle ferite grilline

             Una volta tanto Mario Monti, non a caso reduce da un voto a sorpresa nell’aula del Senato a favore della relazione del ministro dell’Economia Giovanni Tria sulla vertenza in corso con la Commissione Europea per i conti italiani, ha sorriso al governo in una intervista al Corriere della Sera. Ma lo ha fatto, come vedremo, dividendone con perfidia politica le componenti. E ciò a vantaggio dei grillini, che pure sembravano sino a qualche giorno fa i più lontani dalle sue visioni economiche e sociali. Egli ha loro riconosciuto, in particolare, il merito di volersi tirare fuori dalla “bolla speculativa” in cui si era messo il governo varando una manovra finanziaria e un bilancio di sostanziale sfida all’Unione Europea.

           Luigi Di Maio, il vice presidente pentastellato del Consiglio, evidentemente con la storia dei “numerini” -quelli appunto della manovra, del deficit e quant’altro- che debbono venire dopo e non prima degli “interessi dei cittadini”, si è guadagnato da Monti il paragone con l’ ex premier greco Alexis Tsipras. Che all’improvviso volle e seppe passare tre anni fa dalla sfida all’accordo con la Commissione Europea, accettandone l’altissimo prezzo. Su cui ancora oggi si discute a livello internazionale, con osservazioni autocritiche di quanti allora contribuirono a determinarne la consistenza.

         “E’ lo Tsipras moment”, ha detto Monti al Corriere della Sera spiegando che quello attuale “di Salvini-Di Maio” è un “moment più diluito nel tempo”, in riferimento alla disponibilità emersa, sia pure tra ambiguità e incertezze, ad allontanare i tempi e al tempo stesso a contenere le maggiori spese derivanti dal cosiddetto reddito di cittadinanza e dall’anticipo dell’età pensionabile.

        Monti al Corriere.jpgPur accomunati nel “moment più diluito”, e compatibile con le condizioni peraltro “non troppo severe” poste in Europa per cercare di bloccare il conto alla rovescia del procedimento d’infrazione per debito eccessivo, Monti ha poi separato i due vice presidenti del Consiglio con una motivazione di cui è difficile prevedere gli effetti, possibili considerando le abitudini e l’attuale forza politica di Salvini. Cui Monti -ripeto- ha preferito Di Maio, al netto dei problemi che il vice presidente grillino del Consiglio sta avendo nelle sue famiglie, anagrafica e politica. Dove il giovane  superministro dello Sviluppo Economico e del Lavoro deve fare i fonti, rispettivamente, con pratiche edilizie o di lavoro irregolari e con i malumori per i troppi condizionamenti che starebbe subendo nel governo a favore del leader leghista.

         “Salvini -ha detto testualmente il senatore a vita ed ex presidente del Consiglio saldandosi con le inquietudini grilline- ha in sé due vene  di pericolosità che i cinque stelle non hanno: l’avversione all’Europa e una sorprendente capacità di impartire agli italiani un corso quotidiano di diseducazione civica”. “Non è poco”, ha aggiunto Monti spargendo sale sulle ferite del presidente della Camera Roberto Fico e degli altri pentastellati che soffrono sempre più visibilmente del peso leghista nel governo di Giuseppe Conte.

 

 

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Travaglio riesuma a sorpresa il fantasma di Renzusconi al Nazareno

             Pur declassate a “una battuta riuscita male” nel testo di uno dei ben tre articoli che le sono state dedicate, tra cui l’editoriale di Marco Travaglio, le scuse che Matteo Renzi dalla sua postazione facebook ha invitato la sinistra a chiedere a Silvio Berlusconi, viste le prove di interessata disinvoltura legislativa che sta dando Matteo Salvini nel governo gialloverde, sono state adoperate dal Fatto Quotidiano per una specie di processo ai progetti politici dell’ex segretario del Pd. Che, pur non essendo fra i candidati alla successione a Maurizio Martina, è tra i protagonisti, forse ancora il più decisivo, del prossimo congresso del maggiore partito della sinistra, per quanto malmesso dopo la batosta elettorale del 4 marzo scorso.

             Con una delle sue frequenti prime pagine a tinte nere, in tutti i sensi, il giornale di Travaglio haSchermata 2018-11-29 alle 06.43.44.jpg lanciato l’allarme su un “ritorno al Nazareno”, inteso come accordo politico fra Berlusconi e Renzi. Che fu stretto appunto al Nazareno appena dopo la prima elezione di Renzi al vertice del Pd per riformare Costituzione, legge elettorale e quant’altro. E che potrebbe questa volta servire- ha alluso Travaglio e spiegato meglio Antonio Padellaro- a fronteggiare una sempre più probabile crisi del governo gialloverde con una combinazione di partiti e gruppi parlamentari, già esistenti o da improvvisare appositamente, accomunati dall’interesse ad evitare le elezioni anticipate.

              Costoro sarebbero i nuovi “responsabili”, dopo quelli che lo stesso Berlusconi nel 2010 da Palazzo Chigi arruolò fra i banchi della sinistra, dove allora sedevano anche gli uomini di Antonio Di Pietro, per compensare i voti sottrattigli in Parlamento dal presidente della Camera Gianfranco Fini e cercare di portare avanti la legislatura, e con essa anche il suo ultimo governo. Che poi cadde lo stesso l’anno dopo ma per altre ragioni, di natura economica e finanziaria, comunque evitando le elezioni anticipate. Gli subentrò il governo tecnico di Mario Monti, che lo stesso Berlusconi appoggiò fino alla soglia della fine ordinaria della legislatura, quando si tirò indietro all’ultimo momento, passò all’opposizione e tentò nelle elezioni del 2013 una rimonta che gli non riuscì per un pelo. A impedirla non fu tanto l’exploit elettorale dei grillini ma proprio Monti scendendo in politica pure lui, per quanto senatore a vita,  e poi vantandosene, anche se la formazione da lui allestita per togliere voti al Cavaliere poi gli si sciolse rapidamente fra le mani.

                 La nuova traccia indicata dal Fatto Quotidiano per vivacizzare il dibattito politico mette in qualche modo una toppa all’infortunio politico del ruolo di “spalla” appena attribuito dal giornale di Travaglio a Di Maio rispetto a Mattarella -non oserei dire il contrario- nel tentativo di correggere la rotta di collisione fra il governo gialloverde e la Commissione Europea dopo la bocciatura dei conti italiani, e la prenotazione della procedura d’infrazione per debito eccessivo. E’ una tentativo avviato con la cena di sabato scorso a Bruxelles fra il presidente del Consiglio Conte e il presidente della Commissione Europea Juncker, ma di sviluppo ancora incerto, a dir poco.

 

 

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Il Quirinale contesta sponde e quant’altro col partito delle 5 stelle

Più che a Sergio Mattarella, deve avere creato problemi al Segretario Generale della Presidenza della Repubblica, il buon Ugo Zampetti, lo  scoop attribuitosi dal Fatto Quotidiano di un decisivo ricorso  sul Colle a Luigi Di Maio, il vice presidente grillino del Consiglio, per sbloccare il governo dallo stallo creatosi con la Commissione Europea dopo la bocciatura dei conti italiani. Cui potrebbe seguire  una costosa procedura d’infrazione per debito eccessivo.

Sarebbe stato, in particolare, il gioco di “sponda” fra Mattarella e Di Maio, in un titolo di prima pagina del giornale di Marco Travaglio, a creare riservatamente le condizioni giovedì scorso perché due giorni dopo il presidente del Consiglio Giuseppe Conte potesse raggiungere a cena a Bruxelles il presidente della Commissione Europea Jean Claude Juncker e impostare il confronto sulla manovra fiscale italiana senza più impiccarsi ai maledetti decimali del deficit. O ai “numerini”, come poi li ha chiamati Di Maio, reduce appunto dall’incontro con Mattarella, per metterli in second’ordine rispetto agli  “interessi dei cittadini”, in una felice rima di superamento delle rigidità iniziali. Che escludevano ripensamenti e arretramenti, anche solo di “un millimetro”: parola, per esempio, di Matteo Salvini.

Ciò che deve avere infastidito di più Zampetti è di essere stato indicato dal Fatto Quotidiano, quasi a conferma dello scoop, come la persona che “tiene i contatti” del Colle “col Movimento 5 Stelle”: una specie -si potrebbe equivocare- di rapporto privilegiato. Che sarebbe naturalmente poco compatibile con le funzioni molto delicate e imparziali di un Segretario Generale della Presidenza della Repubblica, peraltro scelto personalmente da Mattarella tre anni fa per la sua lunga ed apprezzata esperienza al vertice amministrativo e funzionale della Camera.

Già incorso spiacevolmente, e suo malgrado, in fastidiose polemiche durante la campagna elettorale, pochi giorni prima del voto del 4 marzo, quando egli accettò di ricevere  la lista dei ministri predisposta dal movimento grillino nella presunzione di vincere appieno le elezioni, e di poter quindi rivendicare per Luigi Di Maio l’incarico di presidente del Consiglio, Zampetti ha rischiato di apparire -con la rappresentazione ultima del Fatto Quotidiano- come il regista del gioco presunto di “sponda”  fra Mattarella e lo stesso Di Maio, o viceversa, sulla vertenza europea dei decimali del deficit, e dintorni.

Per dissipare malintesi, ma anche malevolenze, forse anche in considerazione delle tensioni che permangono nella maggioranza, e all’interno dello stesso movimento grillino, Mattarella ha voluto far conoscere l’elenco completo delle personalità di governo da lui incontrate nella scorsa settimana, mentre Conte preparava la cena di Bruxelles con Juncker. Egli ha voluto insomma il massimo della trasparenza attorno alla sua attività di  informazione e persuasione morale nei passaggi più difficili della politica e delle istituzioni.

Si è così appreso che il capo dello Stato ha voluto ascoltare e consigliare, oltre a Di Maio, anche l’altro vice presidente del Consiglio Salvini, il ministro dell’Economia Giovanni Tria, il ministro degli Esteri Enzo Moavero, e naturalmente Conte. Che è pur sempre -verrebbe voglia di ricordare- il presidente del Consiglio, pur tanto paziente e cortese di fronte alla rappresentazione, che ne fanno gli avversari più accaniti, di un dipendente dai suoi vice, o persino di un loro “sottosegretario”. Si è scritto anche questo, nel livello a cui è scaduta la polemica in politica. E non solo in politica, a dire il vero, specie se si naviga in internet e ci si lascia tentare dai dibattiti digitali sui più vari argomenti del giorno.

 

 

Pubblcato su Il Dubbio

Mattarella si smarca dal rapporto privilegiato attribuitogli con Di Maio

              Infortunio al Quirinale, provocato da un eccesso di zelo del Fatto Quotidiano. Che, volendo valorizzare i rapporti fra il capo dello Stato Sergio Mattarella e il vice presidente grillino del Consiglio Luigi Di Maio, ha indicato in un loro incontro “riservato” di giovedì scorso, per il solito canale del segretario generale della Presidenza della Repubblica Ugo Zampetti, il momento o l’occasione di svolta nei rapporti fra il governo e la Commissione Europea, dopo la bocciatura della manovra finanziaria italiana a Bruxelles.

             Sarebbe stato insomma Mattarella a convincere Di Maio a mollare sui decimali, o sui “numerini” indicati poi dallo stesso Di Maio in pubbliche dichiarazioni per precisare che non li avrebbe più preferiti ai “cittadini”. I cui interessi debbono prevalere sulle bandiere, paletti e quant’altro di partiti che si trovano a farsi concorrenza elettorale e contemporaneamente a governare il Paese.

             Lo scenario di un rapporto sostanzialmente privilegiato, addirittura da “spalla”, come indicato nel titolo del Fatto Quotidiano,  fra Mattarella e Di Maio non è piaciuto ai leghisti. I quali sin dalla gestione della crisi di governo ebbero, in verità, il sospetto di un eccesso di diffidenza del presidente della Repubblica nei loro riguardi. Ma sotto sotto non è piaciuto neppure al presidente grillino del Consiglio Giuseppe Conte, per quanto abituato a risultare spesso, a torto o a ragione, più a rimorchio che alla guida dei suoi due vice presidenti, sino ad apparirne quasi il loro sostanziale sottosegretario, come a qualcuno è scappato più volte di scrivere con troppo sarcasmo. E non è molto piaciuto, in fondo, neppure fra i grillini, la cui parte più radicale, diciamo così, sospetta Di Maio di troppa prudenza o accondiscendenza. E lo vede in questi giorni anche indebolito dalle polemiche che lo hanno investito per episodi di lavoro in nero praticato nella sua azienda familiare di ristrutturazioni edilizie: prossima ormai alla chiusura, come lui stesso  ha appena annunciato in diretta televisiva, fronteggiando le critiche rivoltegli nel salotto di Giovanni Floris.

              In questa situazione, in un intreccio così fastidioso di voci, sospetti e circostanze, mentre peraltro permangono incertezze sugli sviluppi del dialogo fra governo e Commissione Europea per un aggiustamento dei conti che faccia rientrare il rischio di una procedura d’infrazione per debito eccessivo, al Quirinale hanno voluto  chiarire che Mattarella, in vista dell’incontro conviviale di sabato scorso a Bruxelles fra Conte e il presidente Junker, ha svolto opera di persuasione con tutti, e non solo con Di Maio. Egli ha voluto incontrare, in particolare, anche lo stesso Conte, l’altro vice presidente Matteo Salvini, il ministro dell’Economia Giovanni Tria e il ministro degli Esteri Enzo Moavero.

             Atri incontri probabilmente il presidente della Repubblica dovrà tornare ad avere, nello stesso Rollipg.jpgambito o oltre, perché la vertenza con l’Europa, chiamiamola così, e quella all’interno della maggioranza di governo sui suoi termini e sulle rinunce da fare rispetto alla partenza di fuoco, è ancora lontana da una soluzione. Ossessiva è fra i grillini la preoccupazione di ritardare a ridosso del voto europeo di maggio l’applicazione del cosiddetto reddito di cittadinanza, che pure potrebbe valere qualche decimale utile a ridurre il deficit contestato in sede comunitaria.

 

 

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Sorpresa per Salvini da Di Maio nella ritirata da Bruxelles

               Ora che la retromarcia del governo gialloverde nei rapporti con l’Unione Europea sulla manovra finanziaria del 2019 si è fatta evidente -tra il compiacimento del presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi, dichiaratamente ottimista sullo sbocco finale, e un certo abbassamento della tensione anche nei mercati finanziari-  si è aperta una curiosa gara nella maggioranza su chi ne ha il merito. O il merito maggiore.

              I più lesti sono stati i grillini, lasciando solo il vice presidente leghista del Consiglio Matteo Salvini a continuare a dire che le cose non cambiano, anche se pure lui ammette di non volere impiccarsi a qualche “decimale” quando si tireranno le somme della partita. E si vedrà di quanto si sarà riusciti ad abbassare il 2,4 per cento di deficit a suo tempo annunciato e festeggiato, in verità, sul balcone di Palazzo Chigi non da lui ma dal suo omologo pentastellato Luigi Di Maio.

            Fatto con Zampetti.jpg Ebbene, secondo uno scoop del Fatto Quotidiano, che fra tutti i giornali è quello che ai grillini piace di più, diretto da quel Marco Travaglio iscritto recentemente da Alessandro Di Battista nella lista degli otto giornalisti più affidabili d’Italia, Fatto su Di Maio.jpgsarebbe stato proprio Di Maio a sbloccare praticamente la situazione in un incontro “riservato” col presidente della Repubblica, svoltosi al Quirinale giovedì scorso: una visita “a Canossa”, secondo la versione dello stesso Fatto Quotidiano.  Che avrebbe poi consentito al presidente del Consiglio Giuseppe Conte di non andare a mani vuote a cena dal presidente della Commissione Europea Jean Claude Juncker, a Bruxelles.

               Non so francamente se Salvini gradirà questa rappresentazione dei fatti, ma ancora più il suo amico e sottosegretario a Palazzo Chigi Giancarlo Giorgetti, che da tempo lo sollecitava a muoversi con più cautela sul terreno dei rapporti con l’Europa, sapendo del cattivo umore dell’elettorato leghista al Nord per l’aria che tirava nei mercati, e nelle banche.

              Negli ultimi cento o dieci metri della folle corsa verso Bruxelles per fargliela vedere e sentire a Junker, Moscovici e compagni, Di Maio avrebbe dunque preferito, come lui stesso ha spiegato, la difesa dei “cittadini” a quella dei “numerini”: una rima che forse -chissà- gli ha suggerito Mattarella. Che Di Maio con Mattarella.jpgall’occorrenza sa essere molto ironico. Lo ha dimostrato recentemente scomodando il grande Manzoni per denunciare la cattiva e antica abitudine degli esagitati di accantonare il buon senso per adeguarsi al senso comune.

 

 

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Ora Salvini, almeno lui, tenta la ritirata del millimetro, o del decimale

             I primi rapporti di Conte sulla cena con Juncker, fatti presumibilmente per telefono in attesa di un vertice rinviato, debbono essere stati diversi dall’ottimistica rappresentazione che si è fatta a  caldo del “dialogo” che procede a livello europeo, e per ciò stesso positivo, se i dioscuri della maggioranza gialloverde hanno cambiato linguaggio. O almeno lo ha fatto Matteo Salvini, essendo l’altro -Luigi Di Maio- un po’ distratto dalle polemiche che hanno investito il padre come imprenditore edile accusato -si vedrà se a torto o a ragione- di pagare in nero i suoi dipendenti.

           Dopo essersi davvero sprecato in annunci muscolari, intenzionato ad “andare avanti” e a “non arretrare neppure di un millimetro” nella difesa della manovra finanziaria dalle critiche dei commissari europei, arrivati ormai a un palmo dalla cosiddetta procedura d’infrazione per debito eccessivo, il leader leghista si è deciso, o rassegnato, a dire che non vuole dissanguarsi per una questione di “decimali”. E poiché la guerra con Bruxelles è esplosa per otto decimali in più, fra il deficit dell’1,6 per cento  anticipato in estate e quello del 2,4 per cento deciso in autunno a Palazzo Chigi per il 2019 tra feste in piazza e sui barconi teverini  del “popolo” pentastellato, quella sopraggiunta di Salvini potrebbe anche essere presa o scambiata per una svolta.

             Il vignettista Emilio Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera attribuisce anche al leader leghista, oltre che al grillino Di Maio, la speranza che ad accorgersi della svolta, vera o presunta, siano “i mercati e non i sondaggi”. Ma anche a Salvini, pur nell’ottimismo, anzi nella spavalderia da lui mostrata di fronte alle previsioni di voto che da mesi lo danno in progressiva crescita ai danni dei grillini, i sondaggi potrebbero riservare prima o poi brutte sorprese senza una sua frenata politica.

            I governatori leghisti del Veneto e della Lombardia, per esempio,  debbono avere già avvertito il vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno del malumore crescente del proprio elettorato di fronte agli effetti di un ciclo economico bloccato nella sua pur modesta crescita dopo il via libera a spese più assistenziali e demagogiche – come quelle per il cosiddetto reddito di cittadinanza e l’anticipo dell’età pensionabile- che produttive di posti di lavoro e di reddito vero.

           Non a caso, del resto, proprio sul Corriere della Sera, e nello stesso giorno in cui Giannelli fa scoprire a Salvini e a Di Maio la necessità di preoccuparsi più dei mercati che dei sondaggi, è comparso un editoriale dell’ex direttore Paolo Mieli in cui compare il fantasma di elezioni anticipate in inverno, forse già prima di quelle di primavera per il rinnovo del Parlamento europeo, a causa delle difficoltà finanziarie, economiche e sociali che potrebbero fare implodere la maggioranza gialloverde di governo.

            Forte anche degli argomenti e dati fornitigli da Guido Tabellini, ex rettore del’Università Bocconi, il buon Mieli ha raccontato dell’ombra recessiva che si sta allungando un po’ dappertutto, anche in Italia, e delle cattive sorprese che potrebbero venire dalle prossime aste dei titoli del debito pubblico italiano, dopo il flop dell’ultima. Che ha dimostrato quanto poco si fidino ormai delle condizioni italiane i risparmiatori.

           A questo punto, e sempre in attesa di verificare con riunioni di vertice, dichiarazioni, interviste autorizzate o no a ministri, vice ministri e sottosegretari dal portavoce di Palazzo Chigi e voti d’aula o di commissione fra Senato e Camera, nella solita giostra delle leggi che vanno e vengono fra i due rami del Parlamento, c’è veramente da chiedersi se potrà bastare a cambiare realtà e percezioni la ritirata del millimetro, o del decimale, prospettata da Salvini.

 

 

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La cena a Conte è stata servita, ma non si sa se sia servita

              Di certo la cena -quella a cinque del presidente della Commissione europea Jean Claude Juncher col presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte e relativi accompagnatori- è stata servita. Se sia pure servita, almeno ai due commensali italiani che l’hanno chiesta, non si è capito bene, anche se Conte ha tenuto a  far sapere di essersi sentito alla fine “rasserenato”. Che già è cosa diversa, comunque, dall’essere pienamente soddisfatto.

             Se il problema di Conte era quello di convincere gli interlocutori della  Commissione di Bruxelles che i conti italiani sono in ordine, o non sono proprio nel disordine lamentato in varie sedi internazionali, per cui basterebbe lasciare al governo italiano il tempo di metterli in pratica per scoprire tutta la loro utilità, la cena è stata solo un incontro di cortesia.

              Se il problema di Conte era invece quello di “distendere”, come dice lui, i tempi dell’ormai annunciata e inevitabile procedura d’infrazione per eccesso di debito allo scopo di consentire nelle aule parlamentari italiane, durante l’esame della legge di bilancio, qualche correttivo o “rimodulazione”, sempre come dice Conte, in grado di cambiare il quadro, sino ad arrestare il conto alla rovescia per sanzioni e quant’altro, la cena non può essere andata oltre una interlocuzione più o meno banale.

              Specie con i numeri della maggioranza gialloverde che ballano al Senato, ma all’occorrenza -come si è appena visto con la legge contro la corruzione- anche alla Camera, dove pure i margini sulla carta sono maggiori, Conte è il primo a non poter fare previsioni, e tanto meno assumere impegni. Che del resto i suoi due vice presidenti, e controllori, hanno continuato a non permettere mentre lui cenava con Juncker, visto che non hanno smesso di proclamare l’indisponibilità dei loro partiti a indietreggiare neppure di un millimetro: figuriamoci dei centimetri o dei metri che occorrerebbero, per esempio, per rinviare l’applicazione del cosiddetto reddito di cittadinanza, e del pensionamento a 62 anni con 38 di contributi, di quanto basterebbe nel 2019 per ridurre il deficit con cui sono stati finanziati. E riportarlo così alle dimensioni concordate in via informale a luglio: attorno all’1,6 per cento rispetto al Pil, contro il 2.4 ottimisticamente formulato nella manovra finanziaria.

              Purtroppo le elezioni europee, per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo, non potranno superare la scadenza di fine maggio. E da almeno due mesi prima grillini e leghisti dovranno aver fatto percepire ai loro elettori il mantenimento delle generose promesse fatte nella corsa alle urne del 4 marzo scorso per il rinnovo delle Camere italiane.

             A dispetto dei sondaggi che continuano ad assicurare formalmente una solida maggioranza alla combinazione gialloverde, cresce il malessere fra i grillini perché la tenuta del governo sta avvenendo a spese loro, e a vantaggio dei leghisti, che li hanno ormai stabilmente sorpassati, pur essendo partiti a marzo da poco più del 17 per cento dei voti, contro il 32,7 del movimento delle cinque stelle.

            Se si dovesse andare alle elezioni anticipate per una crisi di governo provocata astutamente da Matteo Salvini, dopo avere cercato la ragione o il pretesto più conveniente per rompere, o verificatasi per qualche imprevisto e imprevedibile incidente, con tutto quello che accade fuori e dentro i mercati finanziari e altro ancora, il leader leghista potrebbe portare al successo la coalizione di centrodestra, congelata ma non sciolta con l’intesa con i grillini autorizzata alla Lega da Berlusconi -non dimentichiamolo-  nella scorsa primavera.

            Il Fatto.jpgQuello delle elezioni anticipate non vinte ma stravinte da un centrodestra a salda guida leghista, nelle condizioni cui è ormai ridotta Forza Italia, è l’incubo dei grillini ormai impossibilitati a scommettere, in funzione anti-elettorale, sul forno di un Pd che da marzo scorso è riuscito a dividersi ancora di più. Di questo incubo di Luigi Di Maio e amici, o compagni, avvertito anche senza la prospettiva di un ricorso anticipato alle urne ma con una “campagna acquisti” negli attuali gruppi parlamentari,  è espressione l’allarme lanciato sulla prima pagina dal solito Fatto Quotidiano. Dove già non gradiscono da tempo il governo in carica Salvimaio -come lo chiama il direttore Marco Travaglio combinando i nomi dei due vice presidenti, a vantaggio naturalmente del primo- ma ora temono ancora di più il governo Salvisconi: combinazione dei nomi di Salvini e di Berlusconi, sempre a vantaggio del primo.

            Repubblica.jpg Da una simile  combinazione il giornale di Travaglio si sentirebbe probabilmente minacciato ancor più di quanto non stia avvenendo sul fronte opposto a Repubblica. Che ha reagito agli attacchi e alle minacce dei grillini alla sua linea di trasparente opposizione alla maggioranza gialloverde promuovendo una manifestazione per la libertà di stampa nel teatro Brancaccio, a Roma. Il cui motto è stato proposto dal vignettista Altan rovesciando il significato di quello –“E’ la stampa, bellezza”- reso celebre al cinema dall’indimenticabile Humphrey Bogart. Dai giornali che facevano paura al potere siamo passati, per Altan, ai giornali bruciati dal potere.

 

 

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Stretta di Palazzo Chigi, se non ai conti, alle interviste degli esponenti di governo

             Non credo, francamente, che si possa considerare una forzatura quella che il Giornale ha fatto pubblicando in prima pagina la notizia del sostanziale “bavaglio” imposto ai ministri, vice ministri e sottosegretari con l’ordine di non rilasciare interviste senza l’autorizzazione che i richiedenti debbono ottenere dal portavoce del presidente del Consiglio, l’ormai stranoto Rocco Casalino, o suoi incaricati.

            E’ un ordine, sotto la forma eufemistica di una “comunicazione”, prevedibilmente autorizzato dal professore e avvocato Giuseppe Conte, che indica da solo, volente o nolente, le condizioni difficili in cui si trova il governo. E i danni che i suoi esponenti hanno procurato al Paese parlando sino all’altro ieri a ruota praticamente libera, anche dopo i ripetuti moniti del presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi. Che ha notoriamente attribuito alle “parole”, prima ancora che alle iniziative del governo, la fibrillazione dei mercati e la crescita dello spread, con tutti gli effetti che ne stanno derivando su risparmi, mutui e quant’altro.   

          L’ordine, chiamiamolo così, consentito da Conte a Casalino ha obiettivamente qualche difficoltà di applicazione, oltre che apparire francamente tardivo, almeno rispetto al risultato che può essersi proposto. Debbono considerarsi interviste anche le risposte dei ministri, vice ministri e sottosegretari ai giornalisti che incontrano all’uscita da qualche riunione, o solo camminando per qualche corridoio delle Camere e dei loro dicasteri? Essi debbono fare scena muta per non disobbedire?

           Ma il silenzio al punto in cui sono arrivate le cose-  cioè al punto di marasma raggiunto con i due vice presidenti che hanno dato interpretazioni opposte alle parole e alle idee espresse dal presidente del Consiglio alla Camera sui rapporti con la Commissione Europea dopo la bocciatura dei conti e il sostanziale avvio della cosiddetta procedura d’infrazione per eccesso di debito- rischia di apparire non meno dannoso delle troppe parole spese in precedenza. La diffidenza degli investitori e di tutti gli altri interlocutori di fatto e di diritto del governo crescerà forse ancora di più. D’altronde, ad allarmare questi interlocutori nei mesi e nelle scorse settimane sono bastate anche le parole di presidenti di commissioni parlamentari, e simili, ai quali non potranno certamente essere applicate adesso le norme di comportamento mediatico destinate a ministri, vice ministri e sottosegretari.

            I retroscenisti più maliziosi sospettano che l’idea del lucchetto, o qualcosa di simile, alle bocche degli esponenti di governo sia venuta al presidente del Consiglio o al suo portavoce vedendo ai banchi dello stesso governo, durante l’informativa urgente di Conte alla Camera sulla vertenza con l’Europa e la discussione che ne è seguita, l’anziano e autorevole ministro per gli affari europei Paolo Savona impegnato a scrivere fogli. Non sarà mica una intervista  a risposta scritta? si è forse chiesto qualcuno.

             Sul conto del ministro Savona sono circolate per giorni voci insistenti, per quanto alla fine smentite, di una crescente tentazione a dimettersi per la piega assunta dalla gestione della manovra finanziaria. E ciò anche da parte del ministro dell’Economia Giovanni Tria, dallo stesso Savona indicato, proposto, suggerito, dopo il rifiuto del presidente della Repubblica Sergio Mattarella di nominare lui -lo stesso Savona- a quel posto. Seguirono la rinuncia di Conte al primo incarico di presidente del Consiglio e il cosiddetto impeachment del capo dello Stato minacciato, per ritorsione, dall’allora ancora aspirante vice presidente dello stesso Consiglio, Luigi Di Maio. Che ora invece sembra avere scoperto e apprezzato le doti, non foss’altro di pazienza nei suoi riguardi, del presidente della Repubblica, rimasto silenzioso -per esempio- anche dopo l’annuncio televisivo dato dal capo del movimento di cinque stelle della stampa di milioni di tessere per il cosiddetto reddito di cittadinanza disposta prima ancora che un decreto legge da lui stesso annunciato, o reclamato, entro l’anno, o giù di lì, ne stabilisca modalità e condizioni.

            Non oso neppure immaginare come avrebbe reagito a un simile annuncio uno qualsiasi dei predecessori di Mattarella al Quirinale: uno qualsiasi, ripeto.

 

 

 

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La misteriosa “rimodulazione” dei conti offerta da Conte dopo la bocciatura europea

              Incalzato nella piazza pulita di Corrado Formigli dallo stesso conduttore, che giustamente diffidava di trovarsi di fronte ad un genio incompreso della politica e dell’economia, l’unico ad avere ragione di fronte ad una comunità di istituzioni internazionali e nazionali scettiche o decisamente critiche delle ricette gialloverdi per mettere finalmente formigli.jpgle ali all’Italia, il vice presidente grillino del Consiglio Luigi Di Maio se l’è cavata non male, ma malissimo. Non gli è mai mancato il sorriso, in verità, e neppure la tendenza a qualche battuta spiritosa, mai comunque paragonabile al modello andreottiano troppo generosamente attribuitogli in un libro qualche mese fa addirittura dal direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana. Che Iddio lo perdoni, visto che non lo avrà sicuramente fatto il “divo Giulio” dalla nuvoletta assegnatagli nello spazio. Ma oltre ai sorrisi e alle battute il giovane capo delle cinque stesse non è andato.

             Ogni volta che le domande di Formigli si facevano stringenti, Di Maio offriva alla telecamera più che la voce i suoi occhi, ritenendo forse che potessero e dovessero bastare a procurargli benevolenza. D’altronde, Bruno Vespa, ancora più generoso di Luciano Fontana, nel suo solito libro di fine anno, promosso su tutte le reti televisive, pubbliche e private, li ha paragonati a quelli espressivi e simpatici di un cerbiatto.

            In questo contesto più di evasione che di partecipazione, l’ospite di Formigli è sfuggito anche alla domanda sul significato dell’espediente che qualche ora prima era stato abbozzato alla Camera dal presidente del Consiglio nella “informativa urgente” sulla bocciatura dei conti italiani arrivata dalla Commissione Europea, sull’avvio della pur lunga procedura d’infrazione per debito eccessivo e sull’incontro conviviale che egli ha chiesto e ottenuto per sabato col presidente della stessa commissione di Bruxelles Jean Claude Juncker. Che è purtroppo lo stesso al quale il vice presidente leghista del Consiglio Matteo Salvini suole ogni tanto dare praticamente dell’ubriaco, predisponendolo non proprio al meglio nei rapporti con l’Italia. Ma questa è un’altra storia. Salvini notoriamente parla con poca continenza, diciamo così, magari convinto di riuscire anche per questo simpatico a tanti elettori, che lo hanno fatto crescere come un fungo il 4 marzo scorso e ancora più dopo, nei sondaggi e nelle prove locali.

              Non a caso il mezzo che più si associa all’immagine di Salvini è la ruspa, su cui egli è sempre pronto a montare come su un cavallo. Appena ne avverte presenza e uso accorre a godersi lo spettacolo, come ha fatto inseguendo la sindaca di Roma Virginia Raggi nel teatro della demolizione delle otto ville abusive dei Casamonica.

             Giuseppe Conte per fortuna non andrà a Bruxelles con la ruspa. Così almeno ha promesso al Parlamento e al presidente della Repubblica. Ci andrà con un metaforico ramo d’ulivo costituito dalla disponibilità -ha detto- a una “rimodulazione” della manovra economica e finanziaria che tanto ha allarmato gli organismi comunitari, e purtroppo anche i mercati finanziari. Dove la temperatura dei titoli del nostro debito pubblico è salita ben oltre i trecento punti e non può ancora rimanere così alta -hanno ammesso anche i ministri dell’Economia e della politica europea- senza risparmiarci la fossa.

           Ebbene, in che cosa consista esattamente questa benedetta “rimodulazione” della manovra né Conte alla Camera, dove peraltro non ha replicato alla fine della discussione sulla sua informativa, né Di Maio da Formigli hanno ritenuto di dare spiegazioni, e tanto meno Salvini dalla Sardegna, dove è corso per preparare la campagna elettorale regionale.

          Molti hanno pensato e pensano che rimodulare la manovra possa significare rinviare di qualche mese, alleggerendo il bilancio di fine anno, le spese per il cosiddetto reddito di cittadinanza e l’anticipo della pensioni: le bandiere elettorali, rispettivamente, dei grillini e dei leghisti. rolli.jpgMa questi ultimi si guardano bene dal confermarlo, ben decisi comunque a non andare oltre marzo, perché a fine maggio si voterà per il rinnovo del Parlamento europeo e i loro elettori debbono avere potuto almeno assaporare i primi frutti degli alberi piantati durante la campagna elettorale scorsa per il rinnovo del Parlamento italiano.

          Chi vivrà naturalmente vedrà. Intanto sul fronte mediatico gialloverde si avvertono i primi segni, a dir poco, di incertezza. Marco Travaglio, per esempio, ha aperto nel suo Fatto Quotidiano un dibattito su chi potrebbe o dovrebbe  avvertire più convenienza e urgenza, fra grillini e leghisti, a chiudere la loro esperienza di governo, propendendo a credere personalmente che convenga più ai pentastellati. Secondo lui, i leghisti avrebbero dimostrato dalla caduta del ponte Morandi in poi, a Genova, di essere tornati a rappresentare il partito degli affari e del cosiddetto estabilishment: degni alleati di Berlusconi e altri “prescritti”.

          Maurizio Belpietro sulla sua Verità, ora forte anche dell’acquisizione del settimanale Panorama, ha colto l’occasione offertagli da un lettore per chiarire in prima pagina di avere appoggiato questo governo e di poter ancora continuare a farlo, senza esserne però “al servizio”, come evidentemente a qualcuno può essere apparso.  

 

 

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Comincia a diventare un pò troppo cara per l’Italia la guerra di Bruxelles

               Lo spettacolo televisivo, più o meno in diretta, di quella parete rossa in cartongesso sollevata, piegata e infine sbriciolata dal braccio meccanico della ruspa allungato su una delle villette dei Casamonica in via di demolizione a Roma, con un’esibizione a dir Casamonica.jpgpoco sospetta di politici locali e nazionali in campagna elettorale permanente, deve avere ispirato il vignettista del Corriere della Sera nell’azzecatissima rappresentazione dello scontro appena consumatosi a Bruxelles. Dove la Commissione Europea, rappresentata fisicamente da un imponente Pierre Moscovici, ha ribocciato e avviato verso una procedura d’infrazione per debito eccessivo i conti italiani difesi da un lillipuziano Giovanni Tria, ministro dell’Economia, anzi superministro perché nelle sue competenze sono confluite da tempo quelle dei vecchi dicasteri del Tesoro, delle Finanze e del Bilancio.

             Altro che il muro contro muro di cui mostrano di sentirsi protagonisti a Roma i due vice presidenti e insieme assistenti, controllori e quant’altro del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, cioè il grillino Luigi Di Maio e il leghista Matteo Salvini. Che gareggiano a trovare la battuta più sarcastica o sfidante per ostentare la loro sicurezza nel braccio di ferro cercato, tra feste su terrazzini e barconi, con l’Unione Europea.

            Salvini ha forse pensato di avere surclassato il suo concorrente Di Maio giocando col calendario delle feste di fine anno, che già si avvertono con gli addobbi stradali e le vetrine luminose dei negozi. Egli ha declassato a lettere, anzi letterine, di Babbo Natale quelle già arrivate e quelle ancora in arrivo da Bruxelles a Roma. E forse sta scambiando per coriandoli i titoli di Stato che non riusciamo più a piazzare del tutto nelle aste, o quelli che, svalutati dalle incursioni dello spread, stanno diventando zavorra per le banche che le hanno nel proprio patrimonio.

            Altro che muro contro muro, ripeto con Emilio Giannelli. Qui siamo al muro contro il cartongesso di Tria, e dei Casamonica. E già immagino il presidente della Repubblica a ricordare in crescente sofferenza, conMoscovici.jpg la preghiera quotidiana del padre nostro appena aggiornata dai Padri di Santa Romana Chiesa in tema di tentazione, o dando un’occhiata alla felice prima pagina del manifesto, l’obbligo che abbiamo di pagare i nostri debiti per poterne decentemente chiedere altri, da investire per giunta  più in assistenza, o beneficenza, che in produzione e  posti di lavoro.  

            Sbaglierò, ma martedì 20 novembre Sergio Mattarella mi è sembrato più ingobbito del solito nel percorrere, col seguito dei collaboratori e dei padroni di casa, tra file di commessi in alta uniforme,  una parte del vecchio “transatlantico” della Camera per entrare nell’aula di Montecitorio e festeggiarne il primo centenario, accanto al presidente emerito della Repubblica, e suo diretto predecessore, Giorgio Napolitano.  Il quale, dal caso suo, non sarà certo pentito di avere interrotto il secondo mandato presidenziale di sette anni conferitogli dal Parlamento nel 2013.  Si è risparmiato un bel po’ di gatte da pelare, diciamo così.

 

 

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