Il martedì nero di Giuseppe Conte riscattato da …La 7 di Cairo

Dalla Stampa
Sempre dalla Stampa

            Non deve essere stato piacevole per Giuseppe Conte sfogliare oggi i giornali e scoprirsi incompreso, quanto meno. Sulla Stampa, tra prima pagina e interno, Massimiliano Panarari gli ha dato dell’”equilibrista” e del “CamaleConte”, variante di Camaleonte, passando in rassegna tutte le sue più recenti sortite e concludendo che “da quando è divenuto presidente del Movimento Cinque Stelle il tanto invocato rilancio non si è ancora visto”.

Titolo di Domani

            Il Domani di Carlo De Benedetti gli ha gridato in faccia sulla prima pagina che “è sempre stato soltanto un equivoco”. E con la firma del direttore Stefano Feltri ha spiegato: “Per qualche tempo è circolata una certa nostalgia per Giuseppe Conte, la cui popolarità dipendeva soprattutto dalla tendenza molto italiana di omaggiare il potente di turno e dall’essersi trovato a guidare il paese durante la pandemia. Ora è tornato come leader dei Cinque stelle, parla, scrive, fa interviste. E a ogni uscita conferma quanto immotivata fosse la stima di cui ha goduto”.

Titolo del Foglio
Titolo sempre del Foglio

            Sul Foglio gli hanno dato dello “spudorato” in un titolo -per “aver fatto da manichino per Salvini sui “decreti sicurezza” e averne ora denunciato errori e fallimento- e del “fantasma” in un altro per avere fatto “sparire il M5S dalle elezioni”, persino rinunciando a candidare un pentastellato alle suppletive di Roma del 3 ottobre  per sostituire la deputata grillina Emanuela Del Re, dimessasi per un incarico internazionale. A Siena, dove pure si voterà per sostituire un parlamentare dimissionario, i grillini sostengono il segretario del Pd coperto da un mezzo anonimato politico, senza una sigla di partito o di coalizione, col suo solo nome in un cerchio rosso scuro. D’altronde, lo stesso Conte ha precisato che il rapporto privilegiato instaurato con Enrico Letta non significa un’”alleanza strategica” col suo partito, alla faccia del “centrosinistra largo” che auspica ogni tanto.

Titolo del Fatto on line

            Ma per fortuna di Conte c’è la 7 di Urbano Cairo con i sondaggi elettorali affidati a Swg, nel cui ultimo si è buttato come un pesce il sito on line del Fatto Quotidiano -e chi sennò?- per annunciare la grande, grandissima notizia che vendica subito Conte dai suoi detrattori. Fra il 2 e il 30 agosto da presidente digitalizzato del MoVimento 5 Stelle Conte gli ha procurato “quasi un punto” in più di voti: esattamente lo 0,8 per cento, dal 15,5 al 16,3.  E pazienza se si tratta pur sempre di più della metà in meno dei voti grillini nelle elezioni politiche del 2018.

            Questo 0,8 per cento in più di voti in meno di un mese è stato sbattuto in faccia dai nostalgici di Conte al solo 0,1 per cento guadagnato dal Pd e allo 0,2 di Forza Italia. Non parliamo poi dello 0,5 per cento in meno della Lega, che non ha fatto in tempo evidentemente a beneficiare dell’apprezzamento espresso dal governatore pugliese e piddino Michele Emiliano per Matteo Salvini, e dello 0,2 per cento in meno di Calenda. E pazienza -di nuovo-  per quella “sinistra italiana” stabile al 2.7 e per i fratelli d’Italia di Giorgia Meloni stabili, in testa alla classifica generale, col loro 20,6 per cento. Si fa presto, come si vede, ad accontentarsi. Anzi, a cantare vittoria. Meno male -ripeto- che la 7 c’è, anche se c’entra fino ad un certo punto, non potendosi dubitare della Swg.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Siamo proprio sicuri che Draghi preferisca il Quirinale a Palazzo Chigi?

C’è modo e modo di spingere, anzi di strattonare, Mario Draghi sulla strada del Quirinale da parte di giornali d’opinione o, se preferite, di pressione.

Titolo del Dubbio

C’è il modo trasparente, per esempio, del Foglio di Giuliano Ferrara fondatore e Claudio Cerasa direttore. Che all’unisono hanno lanciato di loro iniziativa la candidatura del presidente del Consiglio alla successione a Sergio Mattarella spiegando di preferire la gallina oggi all’uovo di domani. E’ meglio, secondo loro, garantirsi sette anni al Quirinale, dal 2022 al 2029, un uomo della competenza e del prestigio internazionale come Draghi appunto -capace di garantire o proteggere da ogni forma di estremismo sia un governo di centrodestra sia un governo di centrosinistra, entrambi peraltro obbligati a portare avanti il piano della ripresa da lui personalmente negoziato con l’Unione Europea, e condizionato nei finanziamenti alla realizzazione di un ben calendarizzato programma di riforme- che tenerselo ancora a Palazzo Chigi per poco più di un anno, sino alle elezioni ordinarie del 2023, e trovarsi poi di fronte a chissà che cosa.

Giorgio Napolitano e Matteo Renzi

L’incognita riguarderebbe peraltro sia Palazzo Chigi, non potendosi dare per scontata la conferma di Draghi alla guida del governo anche nella nuova legislatura, sia al Quirinale. Dove chissà chi di diverso da lui potrebbe succedere a Mattarella  l’anno prossimo o l’anno ancora dopo, o ancora più avanti, se il presidente uscente della Repubblica smettesse di cercare una casa in affitto a Roma dove trasferirsi alla fine del suo settennato e accettasse una rielezione surrettiziamente a termine, come fu nel 2013 quella di Giorgio Napolitano, dimessosi nel 2015 per dichiarata stanchezza. Cui però sospetto avesse un po’ contribuito l’irruenza dell’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi. Che, pur avendolo fortemente voluto al Quirinale, anche a costo di rompere con Silvio Berlusconi sulla strada delle riforme istituzionale ed elettorale intrapresa insieme, impensierì Napolitano caricando di ben altri significati e obiettivi, anche personali, il referendum confermativo sulla riforma costituzionale nel frattempo approvata in Parlamento senza -ripeto- il concorso berlusconiano. Napolitano vide messo così in pericolo il progetto riformatore, che pure aveva personalmente stimolato con un discorso di reinvestitura presidenziale molto forte, e si tirò prudentemente indietro, stanco ma forse ancor più preoccupato.

Sospetto per sospetto, ho l’impressione che lo stesso Draghi sia stato non dico infastidito ma un po’ sorpreso dalla foga con la quale Il Foglio ne ha proposto l’elezione al Quirinale. Dove magari lui ha poco interesse a trasferirsi per lunghi sette anni, preferendo forse altri tipi di competizione politica in cui mettere meglio a profitto la sua esperienza. Penso, per esempio, all’esaurimento della leadership di Angela Merkel, alla costruzione del nuovo corso dell’integrazione europea derivante dalle modifiche di abitudini, esigenze e obiettivi imposte dalla pandemia e infine agli sviluppi di un quadro internazionale così drammatici e al tempo stesso innovativi cui stiamo assistendo con la tragedia afghana.

In modo meno trasparente o, se preferite, più tortuoso, dettato forse più dalla manovra politica di giornata, o di stagione, che da un’analisi distaccata dei problemi e delle persone, è la iscrizione di Draghi alla corsa al Quirinale appena annunciata dal Fatto Quotidiano non interpretando notizie ma in qualche modo costruendole.

Sentite un po’ voi stessi le presunte notizie, appunto, sulle quali il giornale di Marco Travaglio ha rivelato ieri in prima pagina che “Draghi punta al Quirinale” consultando “partiti e peones” e, all’interno, che “Draghi tesse la tela del Colle”, forse dimenticando che “gli servono i giallorosa” più degli uomini o settori del centrodestra affrettatisi sul Foglio, o altrove, a partecipare al tifo di Ferrara e Cerasa. Le notizie, chiamiamole così,  di un interesse di Draghi per il Quirinale “percepite dai sismografi dei partiti” consisterebbero nel fatto che “qualche voce anonima quanto di peso, raccolta da Pd e M5S, arriva a dire che l’ex presidente della Bce “ci crede”. Insomma ci punta”, ha scritto testualmente Luca de Carolis. Che onestamente, francamente e così via ha tuttavia aggiunto: “Forse è un po’ troppo”. Abbastanza però per fare attribuire dal titolista al presidente del Consiglio una tessitura diretta, addirittura, della “tela del Colle”, forse pari se non superiore a quella di Palazzo Chigi a suo tempo attribuita in altri titoli, commenti, retroscena dal giornale di Travaglio all’allora semplice ex presidente della Banca Centrale Europea, mentre si consumavano gli ultimi tentativi di Giuseppe Conte di formare il suo terzo governo.  Se non partecipe, Draghi avrebbe alla fine tratto il beneficio del “Conticidio”, secondo il titolo del giallo scritto dal direttore del Fatto Quotidiano sulla fine del secondo governo del professore pugliese, ora più o meno felicemente alla guida non più di un esecutivo ma del MoVimento grillino che lo aveva portato a Palazzo Chigi con l’appoggio della Lega nel 2018 e confermato nel 2019 con quello sostitutivo del Pd.

Giuseppe Conte

E pensare che il povero Conte, vantando in una intervista un rapporto personale e diretto con l’interessato, prima di scoprirne e subirne una pretesa concorrenza alla guida del governo aveva tratto l’impressione che Draghi fosse troppo stanco del lavoro di salvataggio dell’euro svolto a Francoforte per lasciarsi solo tentare da una foto di Palazzo Chigi. Ma forse il professore aveva capito bene, non immaginando la capacità di persuasione di Mattarella su Draghi, una volta scoppiata la crisi dopo tanti tentativi di evitarla o solo ritardarla.

Pubblicato sul Dubbio

Draghi come un fantasma al Quirinale nella rappresentazione di Travaglio

            La notizia, in verità, non ci sarebbe. Anzi, non c’è proprio. Ma al Fatto Quotidiano, dove le regole del giornalismo hanno le loro varianti, come col Covid, hanno deciso di fare finta che ci sia. E l’hanno sparata con due titoli, giusto per non farla passare inosservata. Uno, in prima pagina, annuncia, rivela e quant’altro: “Draghi punta al Quirinale e consulta partiti e peones”. Per rafforzare il concetto, nel cosiddetto occhiello si mette “in pista”, e in rosso, il presidente del Consiglio passato “dal silenzio ai primi colloqui”.  Ma con l’avvertenza -se mai Draghi si facesse illusioni di autosufficienza a destra- che “gli servono i voti dei giallorosa”, cioè del Pd e dei grillini agli ordini, rispettivamente, di Enrico Letta e di Giuseppe Conte. E’ un avviso, questo, rafforzato all’interno con un titolo sulla “tela del Colle” che il presidente del Consiglio starebbe tessendo davvero, non come quella finta che Penelope faceva e disfaceva.

Luca de Carolis sul Fatto Quotidiano

            Lo stesso autore dell’articolo, Luca de Carolis, su cui si è scatenata la fantasia politicamente manovriera del titolista, riferendo di un Draghi “zitto in pubblico ma cautamente attivo dietro le quinte” scrive di “qualche voce anonima quanto di peso, raccolta tra Pd e M5S” che “arriva a dire che l’ex presidente della Bce “ci crede”, insomma ci punta”. Ma “forse è un po’ troppo”, ammette l’articolista. Eppure, niente, il titolista ci è andato giù pesante lo stesso. Il corridore è “in pista”. Il tessitore è al telaio.

            Un aiuto alla fantasia, e alla manovra, è arrivato anche dal reparto grafico e dall’archivio del giornale di Marco Travaglio, evidentemente convinto di poter condizionare gli eventi sino ad anticiparli. Sia un corazziere d’ordinanza sia Draghi in persona sono proposti in foto tra gli ambienti del Quirinale tra nebbie che li fanno galleggiare un po’ come fantasmi e un po’ come persone vere. Il quadro insomma è a suo modo completo. L’importante è che il presidente del Consiglio, ripeto, si metta bene in testa di dover trattare la sua elezione non solo col centrodestra, dove c’è -tanto per dire- il ministro leghista e amico personale Giancarlo Giorgetti smanioso di vederlo davvero al Quirinale con la mano già pronta a firmare il decreto di scioglimento anticipato delle Camere, in modo da chiudere finalmente il capitolo della maggioranza relativa dei grillini, ma anche con i demo-pentastellati.  Che tanta fretta per un’operazione del genere non ce l’hanno, anche se ogni tanto qualcuno gliela attribuisce a Conte, nonostante l’ex presidente del Consiglio si limiti a dire, come ha appena ripetuto, che non intende neppure parlare di un’ipotesi di Draghi al Quirinale per non indebolirne il governo. Alla cui durata quindi pure Conte sembrerebbe interessato.

Berlusconi all’uscita dall’ospedale San Raffale

            In questo gioco degli specchi, delle nebbie ed altro Matteo Salvini continua ad andare, diciamo così, per conto suo. Diversamente da Giorgetti, che lo ignora, egli è appena tornato a riproporre Berlusconi al Quirinale dicendo che avrebbe tutti i titoli per ambirvi, se solo lo volesse. Ciò del resto potrebbe valere anche per Draghi, a proposito del quale il leader leghista si limita a lamentare che siano in tanti a tirarlo per la giacchetta. A questo punto solo Berlusconi in persona, peraltro fresco degli ultimi controlli medici all’ospedale milanese San Raffaele, dov’è ormai quasi di casa per i postumi anche del Covid, e non solo dei suoi interventi chirurgici, potrebbe aiutare Salvini, e non solo lui, a chiarirsi le idee. Lo potrà fare, fra una battuta e l’altra, con l’ospite di turno e nella sua ormai solita maglietta blu, al compimento degli 85 anni, il 29 settembre.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Intemerata di Romano Prodi contro gli Stati Uniti e la Nato per la tragedia afghana

            Dalla sua postazione bolognese di pensionato illustre, due volte presidente del Consiglio in Italia, una volta presidente della Commissione Europea a Bruxelles, mancato presidente della Repubblica nel 2013 per un centinaio, a dir poco, di “franchi tiratori” del Pd, che non vollero saperne della sua candidatura decisa per acclamazione dopo l’impallinamento del povero presidente del partito Franco Marini, l’ottantaduenne Romano Prodi ha offerto un’alternativa a chi se la sta prendendo col presidente americano Joe Biden per la tragedia dell’Afghanistan.

Titolo del Messaggero
L’editoriale di Romano Prodi

            Non prendetevela con Biden -ha praticamente scritto Prodi sul Messaggero in un editoriale intitolato “Ripensare la Nato: la lezione afghana”- ma col segretario generale dell’Alleanza Atlantica, l’ex premier norvegese Jean Stoltenberg, che gli ha permesso di fare, al pari del predecessore Donald Trump, e un po’ anche di Barak Obama, tutto da solo alla Casa Bianca, senza coinvolgere gli alleati, soprattutto europei. Permesso in che senso, ammesso e non concesso peraltro che gli europei avessero idee univoche e migliori dell’inquilino di turno alla Casa Bianca sul ritiro delle truppe dall’Afghanistan, e forse anche sull’invio vent’anni fa, quando Stoltenberg neppure pensava di poter mai diventare segretario generale della Nato? Permesso -è la risposta- nel senso di avere condiviso la irrilevanza degli europei nella Nato, che “contribuiscono -ha fatto praticamente dire Prodi al segretario generale- solo al 20 per cento delle spese dell’Alleanza Atlantica”, protetti peraltro, oltre che dagli Stati Uniti, da paesi non componenti dell’Unione Europea come la Gran Bretagna e il Canada a ovest, la Turchia al sud e al nord la Norvegia, “di cui Stoltenberg è cittadino”, ha ricordato Prodi rinunciando solo allo sfizio satirico di italianizzane il nome per insultarlo, dopo averne già lamentato l’”arroganza”, imperdonabile “per chi ha condotto l’alleanza a perdere la sua prima guerra”.

Il Segretario Generale della Nato Stoltenberg

            In che cosa consista il “ripensamento” della Nato come lezione da trarre dalla sua sconfitta in Afghanistan Prodi ha cercato di spiegarlo senza ricorrere questa volta a nessuna seduta spiritica, come all’epoca del sequestro di Aldo Moro, nel 1976, quando l’allora professore in servizio indicò alla Dc Gradoli, senza specificare se fosse una strada di Roma o la omonima località nel Reatino, per risalire al covo in cui i brigatisti rossi nascondevono il presidente democristiano dopo averlo rapito il 16 marzo in via Fani, fra il sangue della scorta sterminata come in un mattatoio e a poche centinaia di metri da casa.

            In particolare, Prodi ha proposto di riesumare il progetto della Ced, la comunità difensiva europea, con tanto di esercito e mezzi, naufragato nel 1954 per colpa della Francia. Alla quale tuttavia dovrebbe spettare la sostanziale guida della nuova edizione in quanto potenza nucleare e unico paese europeo provvisto del diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

A vantaggio del primato militare, chiamiamolo così, della Francia in Europa il buon Prodi, non so se provvisto anche della Legione d’Onore come altri italiani, ha avuto la disinvoltura di sottolineare persino la consolidata “presenza nel Mediterraneo”. In forza della quale non so se l’ex presidente del Consiglio ricorda anche il piglio, diciamo così, con cui a Parigi si  volle coinvolgere l’Italia in una guerra a Gheddafi destinata a trasformare la Libia nel più tragico avamposto dell’emigrazione africana.

Le ultime partenze da Kabul fra il sangue del terrorismo e le domande scomode sulle società occidentali

            E’ giustamente finita sulle prime pagine dei maggiori giornali la foto emblematica della conclusione della missione italiana in Afghanistan nell’ambito del contingente occidentale in ritiro dopo vent’anni d’occupazione. E’ la foto dell’interno dell’ultimo cargo delle nostre forze armate partito da Kabul, affollato di civili afghani -che si spera non si pentano di essersi affidati alla nostra protezione, visti i pasticci che la burocrazia e dintorni sono soliti fare nella gestione anche di questo tipo di immigrazione- e del personale militare e civile d’Italia. Fra cui si nota, col viso stanco ma sollevato, il console Tommaso Claudi distintosi già nei giorni scorsi con quelle foto che lo avevano sorpreso a raccogliere bimbi sollevati con le braccia verso di lui da genitori atterriti, non ancora certi di potersi salvare.

Titolo del Foglio

            In un reportage misto di cronaca e analisi Il Foglio ha parlato di un’operazione militare italiana “perfetta dentro un disastro americano”, che si sarebbe tentati di condividere vedendo un’altra immagine: quella del presidente degli Stati Uniti Joe Biden in lacrime alla Casa Bianca parlando delle ultime perdite inflitte in ordine cronologico ai militari americani dai terroristi dell’Isis, non contenti neppure del ritorno dei talebani al potere in quelle terre intrise di sabbia e di sangue.  In cui lo stesso Biden sa bene che sono almeno 250 mila gli afghani ai quali il suo Paese non ha potuto offrire i soccorsi che reclamavano per fuggire in tempo da uno scenario secondo loro senza speranza: un tempo che forse avrebbero avuto se la gestione del ritiro delle truppe fosse stata diversa da parte della Casa Bianca e dintorni.

L’editoriale del Corriere della Sera
Ermesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera

            Eppure in questa facile e ricorrente tentazione di prendersela con Biden, per quanto alimentata  negli ultimi giorni anche da un esperto di cose americane e mondiali come l’ex segretario di Stato degli Stati Uniti Henry Kissingher, c’è qualcosa che sempre di più non torna. E che ci aiuta oggi a capire, tra domande e analisi, leggendolo sul Corriere della Sera, non un generale, non un politico ma semplicemente un intellettuale, uno storico, un professore universitario come Ernesto Galli della Loggia. Il quale piuttosto che chiedersi come altri se sia giusto o no tentare di esportare la democrazia dove non c’è, o è troppo lontana e diversa dai modelli consoni alla nostra cultura, tradizioni, abitudini e quant’altro, si è chiesto se la “nostra” società, intesa come quella occidentale di cui pensiamo di fare parte, sia davvero attrezzata a compiere una simile, ideologizzata e ideologizzante missione.

            La risposta di Ernesto Galli della Loggia è impietosamente negativa. Ci manca quella che l’editorialista del Corriere della Sera chiama “una dimensione per così dire volontaria della morte”, che invece è presente nei terroristi e ne alimenta il fanatismo e il pericolo: singolo come quello del kamikaze che ha appena provocato a Kabul non 90, come si pensava in un primo momento, ma più di 170 morti, ma anche collettivo, o comunitario.

Ernesto Galli della Loggia

            E’ anche per supplire a questa mancata disponibilità alla morte per fini pur nobili nella nostra società che, secondo Galli della Loggia, è mutata la natura stessa degli eserciti che impieghiamo, fatto di militari veri e propri, al servizio della bandiera dello Stato da cui dipendono, ma anche di “mercenari”, di “contractor” esterni, forniti da privati. Che gli americani in Afghanistan hanno usato in abbondanza, e che hanno contributo per più della metà al bilancio dei caduti.  

Ripreso da http://www.startmag.it

La tenaglia di paura e sangue in cui è stretto l’Afghanistan, ma anche l’Occidente

            Quei 250 tra morti e feriti, civili e militari, provocati dagli attentati a Kabul durante le  partenze degli afghani protetti dagli occidentali, sono già un bilancio pesante ma purtroppo parziale di questa nuova fase della tragedia dell’Afghanistan. Che dopo vent’anni di occupazione militare di americani e alleati è ora prigioniero di un conflitto tutto interno fra i talebani, con i quali gli Stati Uniti hanno trattato il ritiro delle truppe, e gli oltranzisti musulmani che li considerano rinunciatari o traditori. Non a caso tra le vittime degli attentati ci sono anche talebani.

            So che sto per fare un paragone difficile da digerire dalle nostre parti,  non so se più fra i giovani o  gli anziani che hanno vissuto certi passaggi della storia italiana di quasi 50 anni fa, ma lo faccio lo stesso per franchezza e onestà, anche a costo di essere scambiato per uno sprovveduto, esagerato e quant’altro. Fatte naturalmente le debite proporzioni politiche e culturali, i talebani tornati a Kabul dopo e, secondo alcuni, per effetto dei controversi accordi di Doha con gli americani sono un po’ come i comunisti italiani di una cinquantina d’anni fa, appunto. Che erano passati dalla cosiddetta Resistenza incompiuta e/o dall’allineamento totale all’Unione Sovietica, in un mondo allora rigorosamente bipolare, ad una collocazione tale da riconoscersi protetti anch’essi dalla Nato, come disse una volta il segretario del Pci Enrico Berlinguer. E  poter quindi negoziare con i democristiani, e persino con un atlantista come Ugo La Malfa, una partecipazione alla maggioranza di governo. Nacquero così non uno ma due governi democristiani presieduti entrambi da Giulio Andreotti e appoggiati dal più forte partito comunista d’Occidente: il primo con l’astensione e il secondo con tanto di voto di fiducia.

            Come i talebani di oggi a Kabul, pur senza i loro mitra al collo, la barba e tutto il resto che basta e avanza per fare paura, i comunisti italiani di una cinquantina d’anni fa incorsero nella reazione dei terroristi delle brigate rosse e simili, che li accusavano di essersi imborghesiti e arresi, più o meno, al nemico.

            Almeno per un po’ i comunisti italiani seppero resistere all’assalto politico e armato dei loro avversari di sinistra, perfino esagerando -per me- in fermezza, come avvenne nella vicenda del sequestro di Aldo Moro compiuto appunto dai brigatisti rossi. Con i quali, per non sembrarne condizionato, il Pci negò ogni possibilità di trattare il rilascio dell’ostaggio. La cui posizione paradossalmente era aggravata dal fatto di avere svolto un’azione decisiva per gli accordi che aveva portato i comunisti nella maggioranza. Poi, morto non a caso Moro, essi si ritrassero dalla maggioranza per conto loro tornando a fare l’opposizione, salvo cambiare none, simbolo e quant’altro  una decina d’anni dopo, sotto le macerie del muro di Berlino.

Titolo della Stampa

            Ora si tratta di capire, tornando a Kabul, se sia più utile agli occidentali confondere i talebani con gli attentatori delle ultime ore o cercare di affrancarli in qualche modo dai condizionamenti dei loro avversari o concorrenti. E’ una scelta tutta politica, da compiere secondo me più con la testa che con la pancia, più con la ragione che con l’istinto. Non mi sembra francamente sbagliata l’opinione raccolta dalla Stampa con quel titolo di prima pagina che dice: “Ma il terrore non fermerà il dialogo con i Talebani”, preferibilmente con la minuscola.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Dietro il no di Enrico Letta al trasloco di Mario Draghi al Quirinale

Il titolo del Dubbio

Anche questa edizione del raduno di Comunione e Liberazione a Rimini ha finito per incrociare le scadenze della politica interna e abbassare al loro livello i temi alti, o addirittura altissimi, proposti almeno formalmente dagli organizzatori. Che d’altronde conoscono benissimo la sorte dei loro appuntamenti, ai quali non a caso chiamano tutti i protagonisti, e pure qualche attore minore o comparsa dello spettacolo di turno della politica italiana. Sono uomini di mondo, diciamo così, anche i ciellini. I quali possono ora vantarsi, fingendo magari di esserne sorpresi, e persino amareggiati, che sia partito dal loro raduno il classico sasso nello stagno limaccioso del cosiddetto semestre bianco davanti al Quirinale.

            A lanciare il sasso è stato, in particolare, il segretario del Pd Enrico Letta -ospite a Rimini con i leader degli altri partiti della maggioranza di governo, fatta eccezione per Silvio Berlusconi rappresentato da Antonio Tajani- sostenendo la permanenza di Mario Draghi a Palazzo Chigi “almeno sino al 2023”, cioè sino alla scadenza ordinaria della legislatura e alle elezioni per il rinnovo delle Camere. Il che significa, come hanno subito avvertito i decriptatori più o meno professionali dei messaggi politici, un bel no sia al trasferimento di Draghi da Palazzo Chigi al Quirinale, per sostituire Sergio Mattarella alla scadenza del settennato, sia allo scioglimento anticipato delle Camere da parte di chi dovrà comunque succedere al presidente uscente della Repubblica.

Mattarella ricevuto a Pesaro dal sindaco Ricci

            In teoria, non essendo andato più in là di quell’”almeno” nelle sue parole a Rimini, si potrebbe attribuire al segretario del Pd una disponibilità ad unirsi a chi ha già auspicato una rielezione a termine di Mattarella, come già avvenne nel 2013 con Giorgio Napolitano. Ne ha parlato di recente con i giornalisti il sindaco piddino di Pesaro Matteo Ricci aspettando proprio Mattarella in visita nella sua città, e spiegando come ciò servirebbe a rinviare l’elezione del successore alla nuova legislatura, ad opera di Camere più legittimate o, se preferite, meno delegittimate delle attuali: le ultime, fra l’altro, di quasi mille parlamentari, contro i seicento complessivi delle nuove, fra deputati e senatori eletti, per effetto della riforma voluta dai grillini e ratificata col referendum non a caso chiamato “confermativo”.  

Si sa che poi il sindaco marchigiano ha trovato il modo di ripetere la sua opinione direttamente al capo dello Stato, ma non se n’è conosciuta la reazione: se uguale o diversa dalla confessione da lui fatta nei mesi scorsi ad una scolaresca di non vedere l’ora di prendersi a febbraio il meritato riposo pur di senatore a vita. Che non fu proprio tale -ad esempio- per il suo amico e collega di partito Francesco Cossiga, il quale da ex presidente della Repubblica continuò a partecipare attivamente alla politica da attore per niente distaccato.

            Matteo Ricci è un uomo che da un po’ di tempo a questa parte tiene a presentarsi come un uomo fedele alla “disciplina di partito”, che ha preferito, per esempio, alla tentazione pur confessata di sostenere almeno alcuni dei referendum sulla giustizia promossi da radicali e leghisti. Ciò potrebbe autorizzare a pensare, ripeto, che l’idea di un Mattarella convertito ad una rielezione implicitamente a termine, e quindi rassegnato a sospendere la ricerca di una casa in affitto dove trasferirsi a febbraio, possibilmente vicino alla figlia,  non dispiaccia ad Enrico Letta. Che tuttavia potrebbe anche essere trattenuto su questa strada dal timore di dare del suo partito un’immagine di debolezza, come se non avesse candidati spendibili per una successione ordinaria a Mattarella, che magari smaniano invece di essere messi in pista.

Lo stesso Enrico Letta potrebbe giocarsi la partita scommettendo indovinate su chi? Ma addirittura su Matteo Renzi, che nel 2014 lo detronizzò da Palazzo Chigi confidando al generale della Finanza  Michele Adinolfi intercettato al telefono di considerare l’allora presidente del Consiglio al posto sbagliato, non adatto a lui, avendo invece migliori requisiti per il Quirinale. Ma allora Enrico Letta non aveva ancora l’età per aspirarvi. Ora invece ce l’avrebbe, con  i suoi 55 anni compiuti il 20 agosto.

            Curiosamente però una candidatura del segretario del Pd al Quirinale, pur essendo noto il rapporto preferenziale da lui stabilito col nuovo presidente del MoVimento 5 Stelle Giuseppe Conte per un centrosinistra largo eccetera eccetera, potrebbe non andare bene proprio ai grillini. Fra i quali quell’”almeno fino al 2023” di Draghi a Palazzo Chigi ha diffuso la paura che Letta voglia trattenerlo alla guida del governo anche nella nuova legislatura, magari per fargli realizzare il piano della ripresa sino all’ultima tappa -nel 2026- del percorso delle riforme concordate con l’Unione Europea a garanzia dei finanziamenti ottenuti, tra debiti e stanziamenti a fondo perduto.

Titolo del Fatto Quotidiano
Titolo di Domani

           Già si è levato dal solito Fatto Quotidiano il mormorio ironico ma non troppo contro un Draghi “fino al 2028”, cioè per tutta la prossima legislatura. Il direttore di Domani, il quotidiano di Carlo De Benedetti, si è sorpreso a sospettare che Letta non abbia candidati credibili alla presidenza del Consiglio dopo le elezioni del 2023, dando forse per scontato che le vinca il centrodestra. E Giuliano Ferrara ci ha messo del suo sul Foglio dando del “cretino” a chiunque non capisca che, con i tempi che corrono, in Italia ma anche fuori,  Draghi sul colle del Quirinale per 7 anni, col suo prestigio personale e tutto il resto, valga molto di più che un Draghi sulla collinetta, diciamo così, di Palazzo Chigi per un anno o poco più, e chissà cosa dopo.

Pubblicato sul Dubbio

Attenti a non sbagliare nella valutazione della complessa vicenda afghana

L’editoriale del Corriere della Sera

            Per non prendersela, anzi riprendersela col presidente americano Joe Biden, già colpito dalla sua ironia ma proprio oggi difeso in un editoriale di Paolo Mieli nella dolorosa vicenda dell’Afghanistan, Emilio Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera ha rivolto i suoi sberleffi -direbbe lo stesso Mieli- al presidente del Consiglio italiano Mario Draghi. Al quale ha fatto dire, nella vignetta di giornata, che “dopo l’esportazione della democrazia”, evidentemente fallita o riuscita male in quelle terre lontane dopo vent’anni di occupazione militare, “ora non resta che l’importazione di rifugiati”. Su cui peraltro l’Europa già si è divisa, come al solito,  

La vignetta del Corriere della Sera

            Paolo Mieli ha opportunamente ricordato che Biden ha ereditato dal predecessore Donald Trump i cosiddetti accordi di Doha, stipulati trattando con “l’Emirato islamico afghano che non è riconosciuto dagli Stati Uniti come Stato ed è noto come i talebani”, secondo i documenti diffusi dagli stessi americani su quei negoziati per la fine dell’occupazione militare degli occidentali, originariamente concordata per fine maggio e poi prorogata al 31 agosto. Pochi o nessuno dei governi che hanno più o meno esplicitamente contestato alla Casa Bianca la gestione del ritiro delle truppe hanno fatto qualcosa di serio per evitare che si arrivasse alle immagini da Kabul di cui ora sono scandalizzati o sorpresi prendendosela con Biden.

            Al “festoso” G7 di giugno in Cornovaglia “il dossier Afghanistan -ha ricordato Mieli- fu collocato ad uno dei penultimi posti, il cinquantasettesimo su settanta. Ora si può tranquillamente affermare che, se in Cornovaglia qualcuno avesse suonato l’allerta, avremmo avuto un centinaio di giorni in più per procedere ad un’evacuazione dall’Afghanistan assai più ordinata”.

Paolo Mieli sul Corriere

            Quanto poi al rifiuto di Biden opposto, in questa fase convulsa delle partenze dei profughi, alle richieste di un rinvio ulteriore delle scadenze del ritiro dei militari stabilite con i talebani, smaniosi di subentrare del tutto agli occupanti anche nell’aeroporto di Kabul, peraltro minacciato da gente più estremista di loro, Mieli ha realisticamente condiviso la linea del presidente americano. Il quale è convinto che rispettando gli accordi gli Stati Uniti avranno “più forza per intervenire in modo diverso, anche militarmente, ma in discontinuità con la presenza dei vent’anni trascorsi. Stare ai patti -ha spiegato Mieli- offrirà più titoli domani per dar vita ad alleanze che siano in grado di costringere” i talebani “a rispettarli anche  loro”, e a dimostrare se e quanto sono davvero cambiati aprendosi alle trattative di Doha. “Aspettiamo prima di dare un giudizio sui mesi iniziali della sua presidenza”, ha concluso Mieli, concordando evidentemente con la linea scelta in Italia da Draghi,  a proposito sempre di Biden e di chi già lo liquida come un traditore o uno scimunito.  Che intanto sta aiutando il presidente del Consiglio italiano a organizzare quella sessione straordinaria del G20 a metà settembre per stendere sull’Afghanstan una rete di sicurezza mondiale, coinvolgendo tutti i paesi davvero interessati a quell’area incandescente.

Mattia Feltri sulla Stampa

            Con i fatti si misurerà anche il pessimismo di Mattia Feltri, che sulla Stampa ha avvertito le democrazie “spaventate” che “si rinserrano nei loro castelli, chiudono i confini anzichè aprirli, preoccupate che i barbari vogliano attraversali per mangiargli nel piatto”.  

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L’aquila italiana ha volato bene nella missione in Afghanistan, sino all’ultimo

            Non so quale nome gli americani abbiano dato alla loro operazione di recupero e partenza da Kabul di quanti si sono affidati alle forze militari a stelle e strisce per abbandonare l’Afghanistan tornato nelle mani dei talebani. Noi italiani abbiamo scelto quello dell’aquila, che è poi il volatile adottato dagli statunitensi per il loro simbolo confederale.  

Lo stemma degli Stati Uniti d’America

            Agli americani sarà difficile, quanto meno, portare via in aereo dalle piste dell’aeroporto di Kabul tutti coloro ai quali hanno promesso il soccorso e l’espatrio. E ciò per i tempi troppo stretti che essi stessi si sono imprudentemente dati nelle trattative che  hanno condotto con i talebani per ritirare i propri contingenti armati dopo vent’anni di occupazione.

Un cargo americano in partenza da Kabul

            A noi italiani sarà invece più facile rispettare gli impegni entro venerdì 27 agosto, quando dovranno cessare i voli dei nostri apparecchi, essendo i giorni residui del mese di agosto destinati nell’aeroporto solo alla smobilitazione degli ultimi presidi militari occidentali preposti alla sorveglianza e alla sicurezza delle piste e degli impianti.

            I numeri dell’operazione italiana dell’Aquila sono stati forniti alle commissioni Esteri e Difesa congiunte della Camera e del Senato dal governo. E sono di 3741 afghani garantiti e protetti dai nostri militari e diplomatici, di cui 2659 già sbarcati in Italia e i rimanenti in partenza ma già al sicuro nell’aeroporto, ha detto ieri il ministro della Difesa Lorenzo Guerini. L’inviato della Stampa racconta invece da Kwait City di un numero imprecisato di afghani destinati all’Italia ma non ancora in aeroporto a Kabul, almeno nel momento in cui lui trasmetteva il suo reportage.

            Significativo, per la prova di efficienza che l’Italia è riuscita a dare nella sua partecipazione, sino all’ultimo, alla spedizione occidentale in Afghanistan è anche il particolare riferito da Guerini che armi e mezzi italiani non sono finiti nelle mani dei talebani, diversamente da ciò che è accaduto a quelli americani lasciati in dotazione alle forze afghane che hanno opposto una “quasi nulla resistenza” ai talebani. Di quest’ultima, sconcertante circostanza -per quanto prevedibile, in verità, nel momento in cui  gli americani hanno trattato direttamente appunto con i talebani il ritiro delle truppe degli Stati Uniti e dei paesi alleati- il ministro della Difesa italiano ha detto che occorrerà “un’analisi in diverse sedi, a cominciare dalla Nato”.

            L’Italia, insomma, ha fatto ben bene le cose che le spettavano. E con Draghi a Palazzo Chigi credo che stia facendo bene anche le cose consentite alle sue forze, e al prestigio del presidente del Consiglio, per porre le basi di un controllo internazionale di quanto sta accadendo e ancora più accadrà in Afghanistan, a tutela dei  semi di libertà e diritti civili che gli occidentali -noi occidentali, pur con i nostri limiti e difetti- abbiano saputo spargere sulla società di quelle terre.  Neppure la paura dalla quale sono fuggiti in tanti, e tanti ancora vorrebbero ancora fuggire,  può giustificare il disfattismo alimentato -ahimè- in Occidente anche dalla cosiddetta intelligentja.

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Due conti alla rovescia: 7 giorni a Kabul per i fuggitivi, 200 giorni a Roma per Draghi

Vignetta del manifesto

            Le cronache dall’Afghanistan e le fantasie sugli scenari della politica italiana ci offrono sui giornali due conti alla rovescia. Uno è quello, purtroppo reale e drammatico, dei sette giorni dati dai telebani all’espatrio di chi vuole fuggire da loro sugli aerei dei paesi occidentali ex occupanti, insufficienti purtroppo per numero di mezzi e frequenze dei voli a soddisfare tutti. C’è solo, a questo punto, da incrociare le dita e scommettere sullo spettacolo di quel console italiano Tommaso Claudi fotografato su un muro dell’aeroporto di Kabul a raccogliere un bambino affidatogli da braccia disperate. E’ un po’ l’altra faccia della medaglia immaginata sul manifesto dalla vignettista  Lele Corvi, in cui il mondo è diviso tra l’Afghanistan in burqa e il resto con la mascherina antipandemica spostata sugli occhi per non vedere.

Titolo del Foglio

            L’altro conto alla rovescia, non di sette ma di duecento giorni, più o meno, è quello che ha appassionato e proposto il direttore Claudio Cerasa sul Foglio per mandare al Quirinale Mario Draghi alla scadenza del settennato di Sergio Mattarella. Della cui rielezione, chissà perché, nel giornale fondato da Giuliano Ferrara non si gradisce sentir parlare, pur potendo essere a termine implicito come fu nel 2013 quella di Giorgio Napolitano: giusto per il tempo, questa volta,  di attendere l’elezione  nel 2023 delle nuove e più legittimate Camere alleggerite di un terzo dei seggi. Ciò potrebbe portare a un nuovo presidente della Repubblica più rappresentativo di quell’unità nazionale di cui parla la Costituzione a proposito della sua figura.

Cerasa sul Foglio
Mattarella accolto a Pesaro dal sindaco

            Proprio mentre qualcuno trova nel Pd il coraggio -considerando i tanti aspiranti al Quirinale dalle parti del Nazareno- di parlare di una rielezione a termine del presidente uscente, come ha appena fatto a Pesaro il sindaco Matteo Ricci parlando di Mattarella con i giornalisti mentre il capo dello Stato  stava raggiungendo in visita ufficiale la città marchigiana, il direttore del Foglio ha tentato di spiegare perché l’elezione di Draghi, cioè il suo trasferimento da Palazzo Ghigi al colle più alto di Roma, converrebbe invece sia al centrodestra sia al centrosinistra. Al centrodestra -ha scritto Cerasa- perché i suoi leader “avrebbero buoni margini per trasformare le prosssime elezioni in una competizione utile per stabilire chi andrà a Palazzo Chigi”, fra Matteo Salvini e Giorgia Meloni, entrambi sostenuti da un pacificatore Silvio Berlusconi. Al centrosinistra, evidentemente comprensivo di quel che rimarrà dei grillini nelle nuove Camere, Draghi dovrebbe convenire al Quirinale come “un argine mica male contro ogni forma di estremismo politico” dovesse essere partorita anche dal centrodestra. Conclusione, sempre di Cerasa: “Sette anni sicuri nelle mani di Mario Draghi sono preferibili a due anni” ancora di Mattarella “e poi chissà”.

Mattia Feltri sulla Stampa

             Mattia Feltri invece prevede sulla Stampa che “né i leader di destra né i leader di sinistra saranno disposti a cedere il passo a Draghi, e a rinunciare alla loro propaganda da incantatori”, forse gradita persino dagli elettori, vista la frequenza con la quale sbandano nelle urne. “Il mistero è dunque Draghi, imposto a un Paese non ancora civilizzato. E infatti non durerà”, scrive il mio amico Mattia, che mi consentirà gli scongiuri.

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