Conte e Renzi si contendono adesso anche il fantasma di Moro

            Quest’anno già anomalo di suo, e orribile con quei 73 mila morti e più di Covid in una pandemia che purtroppo non è finita, anche se le vaccinazioni appena cominciate possono farci almeno immaginare la luce in fondo al tunnel, si chiude sul piano politico come più sorprendentemente non si poteva immaginare. Si conclude col fantasma di Aldo Moro conteso da entrambi i protagonisti dello scontro politico che sembra ormai destinato a sfociare nella crisi: Giuseppe Conte e Matteo Renzi. L’ordine è solo alfabetico perché, in verità, a trascinare il fantasma nella lite è stato prima Renzi, nell’aula del Senato, e poi Conte, nella conferenza stampa di fine anno, come per ritorsione.

            Renzi, parlando sul bilancio dello Stato che poi ha votato controvoglia, ha ricordato a Conte l’importanza che Moro attribuiva alla “verità” nel dibattito politico: la verità alla quale il capo attuale del governo cercherebbe invece di sfuggire scansando o ritardando i chiarimenti, e confondendo fra pregi della “stabilità” e danni dell’”immobilismo”. Che tuttavia non impedirebbe a Conte, sempre secondo Renzi, di condannare il Paese, col suo originario Recovery plan, allo “sperpero” di quelle irripetibili e grandi risorse finanziarie messe a disposizione dell’Italia dall’Unione Europea per la ricostruzione e ripresa dalla pandemia. “Noi non ne saremo complici”, ha avvertito.

            Conte gli ha in qualche modo risposto da una parte parlando della “parlamentarizzazione” della verifica ancora aperta, se dovesse sfociare in una crisi, anche per mettere alla prova la compattezza del partito di Renzi, e vedere se poterlo sostituire in qualche modo nella maggioranza con i “responsabili” provenienti dal centrodestra e da ex grillini, di cui scrivono i retroscenisti sui giornali. E dall’altra parte  rinfacciando a Renzi un altro Moro, diciamo così, che lui naturalmente preferisce e al quale si ispira anche da corregionale, cioè da pugliese: quello che nel suo ultimo discorso politico da uomo libero, nel 1978, pochi giorni prima del tragico sequestro da parte delle brigate rosse, spiegò ai gruppi parlamentari della Dc che non si fa politica con gli “ultimatum”. Così invece  farebbe Renzi.

            Da vecchio e convinto estimatore e amico di Moro, pur riconoscendo che Renzi gli è più distante di Conte per stile, cultura e altro, in questo frangente politico lo si può considerare più vicino perché il compianto presidente della Dc prima del sequestro aveva gestito con fatica una crisi di governo per impedire, sia pure senza ultimatum, come ha ricordato il presidente del Consiglio, che la politica della cosiddetta “solidarietà nazionale” col Pci di Enrico Berlinguer superasse i limiti ch’egli si era proposto. E che invece l’allora segretario della Dc ed amico Benigno Zaccagnini e Giulio Andreotti, presidente del Consiglio, erano disposti a superare aprendo le porte del governo almeno a due “indipendenti di sinistra” eletti nelle liste comuniste. Il Pci non doveva e poteva superare invece in quelle circostanze l’appoggio esterno al monocolore democristiano, né porre veti alla conferma di alcuni ministri scudocrociati particolarmente e politicamente invisi alle Botteghe Oscure come Carlo Donat-Cattin e Antonio Bisaglia. Che infatti furono entrambi confermati ai loro posti, anche a rischio di riportare la crisi in alto mare.

            Ora l’argine che Renzi sta cercando di costruire è nei rapporti con i grillini, già troppo determinanti nel governo, sino a immobilizzarlo, per lasciarli immutati.

Il povero Sergio Mattarella è ormai l’eroe ignoto della porta accanto

            Manca un nome, a mio avviso, nell’elenco degli “eroi della porta accanto”- come li ha felicemente definiti qualcuno-  appena insigniti dal capo dello Stato delle onorificenze di ufficiale o commendatore o cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica per essersi distinti in casi di “impegno civile e di dedizione al bene comune”. Ai 36 italiani di nascita o di adozione selezionati al Quirinale meriterebbe di essere aggiunto proprio lui, il premiante presidente Sergio Mattarella. Che si appresta a firmare e promulgare entro domani, pur di evitare il cosiddetto esercizio provvisorio, la legge di bilancio che il Senato sta licenziando con la procedura della fiducia nello stesso testo approvato domenica scorsa dalla Camera, anche lì con la procedura iagulatoria della fiducia. Ma si appresta a farlo -temo, facendo storcere il naso a fior di costituzionalisti- anche dopo l’ultimo errore che ha dovuto ammettere il governo, colto in flagranza di pasticcio dalla presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati.

            A quest’ultima un imbarazzatissimo vice ministro dell’Economia Antonio Misiani, del Pd, ha dovuto riconoscere l’incongruenza, a dir poco, contestata a una norma del bilancio applicando la quale il contributo integrativo dei redditi medio-bassi, istituito dal governo Renzi in misura di 80 euro mensili e portati a 100 dal governo in carica, si ridurrebbero in realtà a 50 euro. Il giornale che meglio racconta la vicenda in prima pagina, diversamente dai richiami generici e un po’ ermetici di altri, è Il Tempo con un titolo che più esplicito non poteva essere: “Tagliati gli 80 euro di Renzi”, giusto -potrà osservare qualcuno- per fare aumentare nell’ex presidente del Consiglio la già forte tentazione che ha di provocare la crisi.

            Il bilancio a questo punto avrebbe dovuto essere modificato. Ma, mancando il tempo  per un altro passaggio parlamentare entro domani, il governo ha deciso di rimediare subito dopo la promulgazione del provvedimento con un apposito decreto legge. Conte ha insomma contato -scusate il bisticcio verbale- sulla benevolenza, pazienza, comprensione, anzi eroismo -come dicevo all’inizio- del presidente della Repubblica.

            Di fronte a questo modesto ma pur significativo episodio politico e istituzionale stona alquanto la disinvoltura attribuita al presidente del Consiglio dai suoi più accaniti sostenitori. Che sono naturalmente quelli del Fatto Quotidiano, secondo i quali  Conte si sarebbe consultato col “regista” del Pd Goffredo Bettini ed avrebbe deciso di prendere praticamente per le corna quel rompistacole di Renzi, anzi d mandarlo letteralmente a quel posto con un “Vaffanculo” acronimo di qualcosa da opporre al “Ciao”, anch’esso acronimo, di un documento predisposto da Renzi per contestare la politica del governo. Tanto, al Senato ci sarebbero già dissidenti del centrodestra e dello stesso partito renziano sufficienti a garantire comunque la fiducia.

             La situazione politica è arrivata a un tale punto di tensione e confusione che persino Mario Monti, compiaciutosi recentemente con Conte di avere ammorbidito, se non cambiato, i grillini sul versante del sovranismo anti-europeo, lo ha invitato, in una intervista al Corriere della Sera, a chiarire finalmente ciò che non si è ancora capito dopo più di due anni di governo: che idea egli abbia dell’Italia e di quali obiettivi assegnarle per i prossimi cinque o dieci anni.

 

 

 

Ripreso da http://www.startmag.it http://www.policymakermag.it

Il governo tra il Ciao di Matteo Renzi e il Ciaone attribuito a Giuseppe Conte

            Ci sarà pure un po’ o un po’ troppo scautismo o goliardia in quel Ciao di Matteo Renzi a Giuseppe Conte, formalmente inteso come acronimo di un contropiano proposto dall’ex presidente del Consiglio per la gestione dei fondi europei della ripresa ispirato a “cultura, infrastrutture, ambiente e opportunità”, ma apparso a molti, in questa fine d’anno ambivalente per il governo, come un saluto, anzi un commiato, non passando ormai giorno senza che le due ministre e il sottosegretario del nuovo partito renziano non preannuncino o minaccino le dimissioni e la crisi. La famosa verifica della maggioranza -ricordiamolo- è cominciata ma non ancora conclusa.  

            Eppure stavolta, nonostante lo scetticismo manifestato dal direttore Alessandro Sallusti sul Giornale della famiglia Berlusconi, che teme un altro ripensamento del senatore di Scandicci, sembra che le cose siano state spinte troppo in avanti per essere fermate. Stavolta la mossa di Renzi, che non ha voluto aspettare il pur prenotato intervento al Senato sul bilancio del 2021 da approvare in tutta fretta per evitare il cosiddetto esercizio provvisorio, assomiglia più allo scacco matto che ad una mossa del cavallo, per stare all’immagine della scacchiera altre volte usata dall’interessato.

            Direi che, dato il contesto risultante anche dall’editoriale odierno del giornale milanese di via Solferino, affidato a Sabino Cassese per una impietosa analisi della “manovra” da 40 miliardi in via di approvazione a Palazzo Madama, ancora più negativa di quella dell’Ufficio parlamentare del Bilancio, appare un po’ riduttivo il titolo del Corriere della Sera alle notizie di giornata su Renzi e sugli sviluppi della già ricordata verifica. “E ora si teme per il governo”, dice questo titolo. Soltanto adesso ? Ma sono ormai giorni e settimane che Renzi scala la crisi, pur fingendo a volte di volere scalare addirittura il rilancio del cosiddetto Conte 2 o di concedere al presidente del Consiglio una terza esperienza a Palazzo Chigi, in condizioni naturalmente diverse da quelle acquisite grazie anche all’emergenza virale.

            La sensazione che le cose si siano messe davvero male per il professore è confermata dalle reazioni del suo principale sostenitore mediatico, diciamo così. Che è naturalmente il direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio. Il quale nell’editoriale sugli sviluppi della situazione politica ha ammesso che, al di là o contro le apparenze di uno Zingaretti indeciso se sospettare più di Conte o di Renzi, “mezzo Pd” è ormai contro il presidente del Consiglio. Per cui egli ha descritto o si è augurato uno scenario di sfida che somiglia più a un incubo che ad altro.

             In particolare, Travaglio ha immaginato un Conte ormai disinibito, che abbandona anche la tentazione di un’alleanza elettorale col Pd, accetta di mettersi alla testa del pur malmesso, turbolento e incasinato Movimento 5 Stelle e lo riporta al 30 per cento dei voti, e anche oltre, del 2018 in uno scontro elettorale solitario contro tutti e tutto, usando la minacciata intenzione di Mattarella di reagire ad una crisi al buio col ricorso alle elezioni anticipate, anche in pieno inverno e con la campagna di vaccinazione in corso. Che peraltro si sta già rivelando più complicata ancora del previsto, con le solite polemiche, i soliti ritardi e la solita confusione, per quanto sotto il presidio, stavolta, addirittura delle Forze Armate. Temo, per lui, che il “ciaone” di Conte sollecitato o sognato da Travaglio sia quanto meno prematuro.

 

 

 

 

Ripreso da http://www.startmag.it http://www.policymakermag.it

           

La solita corsa contro il tempo dell’imbarazzante Bilancio dello Stato

            A dispetto della sicumera, a questo punto, del grande consigliere, suggeritore, regista del Pd Goffredo Bettini -ormai stabile in Italia, avendo diradato i suoi soggiorni nella lontana Tahilandia per stare più vicino ai compagni che si dividono tra sofferenza e speranza nell’alleanza con i grillini da lui fortemente sostenuta- il Bilancio dello Stato che la Camera ha appena approvato non è per niente “un lavoro positivo” di cui compiacersi. Dal Senato non possono certamente aspettarsi miglioramenti nei tre giorni che gli sono stati lasciati a disposizione per ratificarlo, naturalmente con le stesse procedure brevi della fiducia adottate a Montecitorio.

            Bettini  deve aver letto con fastidio e incredulità un costituzionalista di professione, nonché componente dell’Autorità di garanzia della concorrenza, come Michele Ainis. Che su Repubblica ieri ha denunciato le prepotenze ripetute anche quest’anno dal governo contro il Parlamento, riducendo il Senato ad una sostanziale finzione, a dispetto del bicameralismo salvato dalla riforma di Matteo Renzi nel 2016.   Il presidente della Repubblica, dal canto suo, pur avendo il diritto riconosciutogli dalla Costituzione di trattenere per 30 giorni sulla sua scrivania una legge per valutarla con consapevolezza prima della promulgazione, o di un suo rinvio alle Camere, anche quest’anno dovrà per forza fingere di studiarsi bene le carte, e i conti, perché glien’è stato negato il tempo.

            Pur di evitare il ricorso al cosiddetto “esercizio provvisorio”, per quanto previsto dalla Costituzione, come gli ha ricordato Ainis, che lo preferirebbe a un bilancio approvato ormai abitualmente con procedure iugulatorie, il povero Sergio Mattarella – “solo nella tempesta”, ha titolato su di lui lo spagnolo El Pais- firmerà in tutta fretta, al massino dolendosi delle circostanze in cui gli è nuovamente capitato di farlo. E la Corte Costituzionale girerà la testa dall’altra parte, pur avendo ammonito a suo tempo le Camere ad affrontare con più tempo e serietà una scadenza del genere.

            Eppure, a parte Ainis, che all’inizio del suo intervento su Repubblica, ne ha fatto solo un cenno, nessuno ha ricordato che quella chiamata anche “manovra da 40 miliardi” è stata liquidata come “un coacervo di misure senza disegno” dall’Ufficio parlamentare di Bilancio.  Vi si trova -ha spiegato Ainis- “un po’ di tutto: dal bonus rubinetti al finanziamento di un master in medicina termale”, in  quanto tale neppure coinvolta più di tanto -credo- nell’emergenza virale con cui tutto si cerca in questi tempi di giustificare o coprire.

            L’Ufficio parlamentare di Bilancio non è qualcosa di privato o esoterico, ma un organismo pubblico e indipendente di sorveglianza sulla finanza pubblica, con una trentina di dipendenti, un presidente e due consiglieri nominati dai presidenti delle Camere, scegliendoli tra una decina di nomi proposti dalle Commissioni Bilancio a maggioranza dei due terzi, più un collegio di revisori di altre tre persone, più ancora un comitato scientifico di una ventina di esperti. La sua formazione risale al 2014, in attuazione della legge costituzionale del 2012 con la quale fu reso obbligatorio il pareggio.

            La sede gli è stata assegnata nel Palazzo parlamentare di San Macuto, o del Seminario. Dove, per intenderci, lavora anche il Comitato di Sicurezza della Repubblica, che vigila sui servizi segreti. Tanta forma, diciamo così, meriterebbe altrettanta sostanza e considerazione: non certo l’indifferenza opposta dal governo a questo organo di controllo dei conti dello Stato.

 

 

 

 

Ripreso da www,startmag.it http://www.policymakermag.it

Sale la fiducia nelle vaccinazioni ma per il governo è sempre aria di crisi

            Il “Vax pensiero” felicemente suonato sulla sua prima pagina dal manifesto per partecipare al clima di speranza che merita l’avvio della campagna di vaccinazione antipandemica -a dispetto dell’ironia usata da Beppe Grillo nell’assordante silenzio degli amici, ma anche degli avversari politici, che in fondo lo temono ancor più di quanto non appaia-  non solleva il governo dal rischio dello scongelamento di una crisi che ha già costretto il presidente del Consiglio alla pratica indesiderata della “verifica” della maggioranza.

            Francesco Verderami sul Corriere della Sera ha attributo a Matteo Renzi -che peraltro sta preparando il discorso al Senato sulla legge di bilancio in uscita proprio oggi dalla Camera con la ormai solita corsa contro il tempo- questa confidenza agli amici: “L’esperienza del Conte 2 per me è già archiviata. Se volete, discutiamo sul dopo”. E ancora: “Dovrei nascondermi su Marte se cambiassi idea”. Infine, giusto per non bruciarsi alle spalle proprio tutti i ponti: “Certo, dare la fiducia a un Conte 3 mi costerebbe”. Ma sarebbe comunque un altro governo, che il presidente del Consiglio dovrebbe negoziare con i suoi attuali alleati, a cominciare da Renzi. Non sarebbe certamente una compagine ministeriale con Renzi all’opposizione e Silvio Berlusconi, per esempio, nella maggioranza o direttamente o indirettamente, con un bel po’ di cosiddetti responsabili in buona parte provenienti dalle sue parti e in qualche modo prestati a Conte.

            D’altronde, già all’inizio di questa anomala legislatura, nel 2018, se a Conte riuscì l’impresa di fare, come fiduciario dei grillini, il suo primo governo con la Lega di Matteo Salvini, ciò accadde perché Berlusconi più o meno malvolentieri, pur di evitare nuove elezioni dalle quali il suo alleato di centrodestra potesse uscire sorpassando ancora di più Forza Italia, diede una vera e propria autorizzazione. Che Salvini  gli rinfacciò  anche pubblicamente quando il Cavaliere dall’opposizione divenne più nervoso un po’ perché l’esperienza di governo gialloverde durava più di quanto egli non avesse messo nel conto e un po’ perché la Lega, anziché risultarne penalizzata, come lui forse sperava, cresceva in ogni elezione parziale, o locale. Essa arrivò a raddoppiare i propri voti, e a dimezzare quelli dei grillini, nelle elezioni di fine maggio dell’anno scorso per il rinnovo del Parlamento europeo. Poi sbagliò modi e tempi della crisi, fidandosi troppo dell’impegno pubblico del segretario del Pd Nicola Zingaretti di non cambiare alleati prima di un passaggio elettorale.

            Ora la musica di Berlusconi sembra cambiata, pur negli ondeggiamenti e nei tatticismi che anche lui ha imparato a praticare con un certo professionismo politico negato solo a parole. Proprio oggi in una lettera sempre al Corriere della Sera l’ex presidente del Consiglio si è mostrato tutto proteso perché “i liberali”, che ritiene di rappresentare, anche se con meno voti “di quanti vorremmo”, possano “tornare al ruolo di guida della coalizione di centrodestra”.

            Il contesto, diciamo così, è insomma diverso. E dovrà forse farsene una ragione sul Fatto Quotidiano Marco Travaglio. Che, sempre schieratissimo con Conte, ne ha oggi celebrato “la vetta” nei sondaggi, contro il “flop dei 2 Matteo”, Renzi e Salvini. E ha preannunciato “pulizie di fine anno” di segno naturalmente opposto a quello perseguito dagli avversari o critici del presidente del Consiglio faticosamente in carica.

 

 

 

 

Ripreso da http://www.startmag.it http://www.policymakermag.it

La “siringata” di Beppe Grillo nella campagna di vaccinazione anti-Covid

            Mentre arrivava a Roma il furgone con per le prime 9750 dosi di vaccino acquistate dall’Italia e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio si affrettava a vantarsi della campagna immunitaria con la quale -ha detto- “ci riprenderemo le nostre libertà e torneremo ad abbracciarci”, il suo amico, “garante”, “elevato” e quant’altro Beppe Grillo diffondeva dal  blog “personale” un video, peraltro assai scadente anche di qualità, oltre che di contenuto, per irridere sostanzialmente a tutta l’operazione. Del resto, sono arcinote le tradizioni culturali, diciamo così, di Grillo contro le vaccinazioni, per quanto corrette una volta dall’adesione ad un documento molto apprezzata dal pur “rivalissimo” Matteo Renzi. Che cominciò a fidarsene sino a portarne il movimento nella maggioranza e al governo l’anno scorso.

           “Eh, i vaccini…io li sto aspettando. Li sto aspettando tutti. Li vorrò fare tutti insieme, in un’unica siringata. Comincerò -ha detto Grillo- con lo Sputnik 5 russo che dà la controindicazione di una leggera fosforescenza ai polpastrelli che verrà eliminata dal vaccino cinese. Che in controtendenza darà luccichio giallognolo al palmo della mano.  Tutti e due poi verranno coperti dai vaccini americani e inglesi, ultimo quello italiano che amalgamerà tutto l’insieme. Quindi io sarò immune e vi consiglio di fare altrettanto fino al Covid 2045”.

            Due mi sembrano gli aspetti tragici, o più tragici, di questa sortita. Il primo è individuabile nel successo che Grillo ha come comico. Personalmente -ma io sono un tipo strano- mi viene poco da ridere ascoltandolo anche solo come comico. E mi capita da parecchio, prima ancora che egli unisse alla comicità la politica.

             Tanti anni fa -più di una trentina- in uno spettacolo estivo ad Orbetello, essendo capitato tra le prime file, fui severamente redarguito con battute che volevano essere naturalmente ironiche dal protagonista dello spettacolo perché non ridevo.

            L’altro aspetto maggiormente tragico dell’esperienza di Beppe Grillo sta nella sua “discesa” in politica, come si vantò di aver fatto Silvio Berlusconi nel 1994, e dei danni che è riuscito a procurarle, superando di parecchie spanne il Cavaliere, definito forse anche per questo dallo stesso Grillo sprezzantemente “psiconano”.

            Formalmente il comico non ha, o non ha ancora funzioni dirette di governo, avendo preferito farsi rappresentare a Palazzo Chigi da un avvocato. Che però dipendendo, nel fondo delle cose, dai suoi umori -suoi, nel senso di Giuseppe Conte naturalmente- è diventato un problema per il Paese, nonostante gli sforzi di realismo che ogni tanto cerca di fare Luigi Di Maio guadagnandosi gli elogi persino del professore berlusconiano e mancato premio Nobel per l’economia Renato Brunetta.

             C’è chi dice apertamente, magari dopo averlo sperimentato direttamente da alleato di governo, come il capo della Lega Matteo Salvini, che Il presidente del Consiglio in carica è diventato un problema, e non più la “risorsa” che si era proposto di essere per il Paese. C’è chi lo fa capire, come Matteo Renzi, anche partecipando alla sua attuale maggioranza, e avendo appena ottenuto una verifica non ancora conclusa. C’è infine chi fa sforzi sovrumani per non farlo capire ma ogni tanto si tradisce con battute o comportamenti, come il segretario del Pd Nicola Zingaretti. Ma quanto potrà durare ancora questa storia?

 

 

 

 

Ripreso da http://www.startmag.it http://www.policymakermag.it

           

 

In questo Babbo Natale vedete più Giuseppe Conte o Mario Draghi ?

            Secondo voi questo fotomontaggio rimasto nella rete dell’Ansa per buona parte della vigilia di Natale, quasi come augurio alla politica, è stato realizzato col volto del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, com’è apparso a molti, truccato da Babbo Natale, con quei 200 e rotti miliardi di euro dei fondi europei della ripresa da gestire con criteri e metodi che hanno già provocato mezza crisi di governo, o col volto di Mario Draghi? Che è diventato nelle cronache, nei retroscena e nelle analisi politiche il virtuale concorrente dello stesso Conte nel caso in cui la crisi dovesse scongelarsi ed esplodere.

            Non ci crederete, ma tra i sostenitori del presidente del Consiglio uscente  il nervosismo è tale che si è coltivato il sospetto che all’Ansa -la maggiore agenzia di stampa italiana, molto conosciuta e apprezzata anche all’estero, per quanto in crisi anch’essa come tutta l’editoria- abbiano voluto tirare un colpo mancino all’inquilino di Palazzo Chigi allungando in qualche maniera l’ombra dell’ex presidente della Banca Europea sui precari equilibri politici del momento, nascosto sotto i panni e la barba di  Babbo Natale.  

Imperdibile quella “mangiatoia delle vanità” denunciata dal Papa

            Della predica di Papa Francesco nella Messa di Natale ha molto e giustamente colpito l’informazione televisiva e on line, nella breve pausa che si è data la carta stampata, l’esortazione all’ottimismo in questi tempi di pandemia. Che hanno peraltro costretto in uno spazio relativamente angusto della imponente Basilica di San Pietro la solenne celebrazione religiosa.  Anche questa volta, ha detto praticamente il Pontefice, usciremo dal tunnel della paura, per quanti errori possano essere stati compiuti nella gestione dell’emergenza e possano ancora compiersi, adesso che si è aperta la fase delle vaccinazioni.

            Ma a chi in qualche modo è condannato dalle abitudini o dal mestiere a seguire la politica – nell’avvicendarsi addirittura delle Repubbliche, peraltro a Costituzione sostanzialmente invariata, salvo per alcune parti che ne hanno ridotto l’autonomia a vantaggio del potere giudiziario o hanno dilatato a tal punto i poteri locali da compromettere il governo del Paese- non ha potuto non procurare una scossa quell’immagine della “mangiatoia delle vanità” contrapposta da Papa Francesco alla mangiatoia dell’umiltà e, insieme, sacralità in cui nacque Gesù.

            Quanta “vanità” in effetti si può scorgere nella crisi sospesa o congelata in cui si sta concludendo questo sfortunatissimo 2020. Abbiamo la vanità, certo, di chi è sempre all’attacco, dall’opposizione ma anche dall’interno di una maggioranza troppo composita e affrettata per non prevederne l’intrinseca debolezza, ma anche la vanità di chi è arroccato nella difesa di un equilibrio che è ormai saltato nei rapporti politici, e persino in quelli personali, senza neppure il pudore ormai di nasconderlo.

            Un presidente del Consiglio -spiace dirlo- che sembrava prestato alla politica ne è diventato un professionista incallito, com’è d’altronde capitato anche ad altri che l’hanno più o meno preceduto ai confini tra la cosiddetta società civile contrapposta a quella politica, o del Paese reale contrapposto al Paese legale.

              Pure Silvio Berlusconi, benedett’uomo, peraltro confortato a lungo da un ampio consenso elettorale, sembrò arrivato a Palazzo Chigi per liberare il Paese da una politica che l’aveva troppo asservita e ne divenne rapidamente un “signor professionista”, come gli disse una volta pranzando con la sua famiglia uno che s’intendeva di queste cose e di questo mondo: l’ex presidente, o presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga. Che peraltro proprio in quel periodo stava beffardamente pescando nelle sue acque -quelle del centrodestra- per improvvisare un partito che serviva a portare alla guida del governo Massimo D’Alema, dopo la prima caduta di Romano Prodi dall’albero dell’Ulivo del cosiddetto centrosinistra.

            Abbiamo inoltre assistito alla metamorfosi politica di “tecnici” che sembravano impermeabili ai partiti come Lamberto Dini e Mario Monti, finiti per allestirne di propri dalla durata effimera. Ora è il turno di Giuseppe Conte, che galleggia sulla paura delle elezioni anticipate da parte di chi sa di uscirne comunque indebolito, cioè tutti dopo il taglio cosiddetto lineare dei seggi parlamentari, e sulla crisi identitaria, oltre che elettorale, dell’ex ormai partito di maggioranza -quello grillino-uscito dalle urne del 2018. Tutto il resto è chiacchiera.

 

 

 

Ripreso da http://www.startmag.it http://www.policymakermag.it

             

 

Per rimanere congelata la crisi avrà bisogno dei -75 gradi del vaccino

            Se siamo davvero alla crisi “congelata” di cui hanno scritto fior di analisti, temo che le mancheranno le condizioni necessarie per non scongelarsi. Anche ad essa occorreranno forse i 75 gradi sotto zero di cui hanno bisogno per essere conservati e trasportati in sicurezza i vaccini antipandemici.

            Va bene che le previsioni meteorologiche non sono delle migliori e che è già caduta in molte parti d’Italia tanta di quella neve da aver fatto imbufalire gestori d’impianti e sciatori costretti invece alla chiusura o astinenza, ma i 75 gradi sotto zero mi sembrano francamente difficili da preventivare.

            Né, fuor di metafora, i rapporti fra i partiti interessati più direttamente alla verifica della maggioranza giallorossa mi sembrano tali da consentire il lusso o il disastro, secondo i punti di vista, di una crisi lasciata a lungo sospesa a mezz’aria, o stipata nei contenitori dei vaccini.

         Cerchiamo, via, di non fare  Matteo Renzi, cui si debbono sia la nascita di questa maggioranza e di questo governo sia questa crisi, congelata o sospesa che sia, più sprovveduto o imprudente di quanto già non sia. Non a caso Mattarella si è premurato di riceverlo nei giorni scorsi al Quirinale, come ha appena rivelato Massimo Franco sul Corriere della Sera, per verificarne personalmente i malumori. È chiaro che ormai, per quanto Conte abbia cercato nel salotto televisivo di Bruno Vespa di apparire teso a “sminare” la situazione, come hanno scritto sul Fatto Quotidiano, quanto più sopravviverà questo governo, magari anche rimpastato, tanto meno dureranno l’Italia Viva del senatore di Scandicci e i suoi gruppi parlamentari, già sottoposti ad un certo logoramento. Cui Renzi reagisce non indietreggiando ma insistendo negli attacchi, come ha fatto nel salotto televisivo di Myrta Merlino.

            Nè un sostanziale suicidio, neppure assistito, di Renzi con una resa si tradurrebbe automaticamente in un affare anche per il Pd, oltre che per Conte. Al contrario, il partito di Nicola Zingaretti e di Dario Franceschini si troverebbero, senza Renzi, prigionieri di Conte e dei grillini ancora più di prima.

            Quali siano i veri umori dei parlamentari, e quindi degli elettori del Pd, nei riguardi del presidente del Consiglio dipendente dalle tensioni interne del Movimento 5 Stelle, ormai non più catalogabili con soli criteri politici, emergendo spesso da quelle parti più sette che correnti o “anime”, come soavemente le chiama Conte, lo si è capito e visto negli applausi strappati da Renzi agli ex compagni di  partito nell’ultimo discorso pre-verifica tutto d’attacco  pronunciato nell’aula del  Senato. Dove peraltro Renzi ha  prenotato un altro intervento nella settimana prossima, quando  passerà fuggevolmente a Palazzo  Madama il bilancio.

           Temo che non sarà neppure quello un discorso rasserenante per Conte. O  sarà di quel  particolare tipo di serenità che solo Renzi riesce disinvoltamente a promettere o garantire mentre prepara tutt’altro. Lo imparò a suo spese Enrico Letta proprio di questi tempi, negli ultimi giorni della sua unica e  breve esperienza a Palazzo Chigi. Che era cominciata addirittura all’insegna delle cosiddette larghe intese, dopo l’improvvida scommessa di Pierluigi Bersani sui grillini, nel 2013, per un governo, pensate un po’, di “minoranza e combattimento”.

 

 

 

 

Ripreso da http://www.startmag.it http://www.policymakermag.it

 

 

L’oggetto ormai misterioso della verifica della maggioranza

            Tra chi l’ha reclamata all’interno della maggioranza giallorossa -renziani e Pd, gli uni a passo di carica e l’altro con la solita diversità di toni- e chi l’ha dovuta subire, dopo averne contestato persino il nome, cioè il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e i suoi referenti grillini, non si capisce che fine abbia fatto o possa fare la verifica, ora che gli incontri a Palazzo Chigi risultano formalmente conclusi con l’annuncio, fra l’altro, di un’importante seduta del Consiglio dei Ministri fra Natale e Capodanno.

              Saranno gli stessi giorni peraltro durante i quali, come ormai al solito, un ramo del Parlamento -in questo caso il Senato- dovrà approvare a scatola chiusa con la fiducia il bilancio discusso per modo di dire nell’altro ramo del Parlamento, anche lì con le strette e i bavagli della fiducia. Questo ormai è ciò che è rimasto del bicameralismo salvato, secondo i suoi cultori tradizionali, dalla riforma costituzionale tentata nel 2016 dall’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi. Che imprudentemente si era presentato al Senato annunciando che quella in procinto di chiedere sarebbe stata l’ultima fiducia a un governo nell’aula di Palazzo Madama. Quante fesserie capita di dire quando ci si avvolge nelle bandiere della retorica o dei sogni, cioè delle illusioni.

                Della verifica -tornando al tema- non si si sa se è fra le palle ancora appese all’albero di Natale allestito da Conte nei suoi uffici o fra quelle che un vignettista ha fatto buttare giù da Renzi in uno dei suoi riti o esercizi di rottamazione. La Stampa e il manifesto hanno parlato di “tregua” in attesa di un “rimpasto”, secondo almeno il quotidiano orgogliosamente comunista, ma meno fiduciosamente Libero ha parlato di “tarallucci e vino tra Conte e Renzi” in attesa della “resa dei conti dopo le feste”.

               Decisamente ottimistica, dal suo punto di vista, è stata la rappresentazione del Fatto Quotidiano con la garanzia di Luigi di Maio che “per noi c’è solo Conte”, anche se altri gli hanno attribuito e gli attribuiscono ancora sentimenti o ambizioni diverse, ma soprattutto con retroscena su un “pressing  del Colle” al quale Renzi si sarebbe “arreso” ritirandosi dalla crisi.

                Anche Romano Prodi ha voluto mettersi in questa girandola di notizie e impressioni spargendo consigli dal Corriere della Sera, come quello a Conte di andare più spedito nella sua azione, anche per non complicare i rapporti con l’Unione Europea così generosa con quei 209 miliardi di euro messi a disposizione dell’Italia per l’emergenza pandemica, e a Renzi di stare attento “alle discese e alle curve” in cui evidentemente sarebbe impegnato dopo avere esaurito la o  le scalate. C’è da dire che da corridore provetto, che alla sua età percorre ancora un bel po’ di chilometri quasi al giorno, Prodi s’intende di cadute applicabili alla politica. Basta pensare ai suoi due brevi governi di cosiddetto centrosinistra -non uno solo- caduti a dieci anni di distanza, fra il 1998 e il 2008,  nelle curve delle discese impostegli dalle componenti più agitate della maggioranza, o dalle disavventure giudiziarie del suo guardasigilli Clemente Mastella.

                 Significativa mi sembra anche la prudenza mostrata oggi dall’immancabile Goffredo Bettini, che dall’interno del Pd, in una intervista al Riformista. ha mostrato una certa inedita indifferenza alle sorti del governo, tenendo più alla necessità che il suo partito si riprenda “il popolo”. Vasto programma, avrebbe detto il compianto generale De Gaulle.

 

 

 

 

Ripreso da http://www.startmag.it http://www.policymakermag.it

Blog su WordPress.com.

Su ↑