Calenda, “affascinato” dalla Meloni, la difende dal “sabotaggio” di Berlusconi

Non so se, informato a decine di migliaia di chilometri di distanza, Matteo Renzi abbia condiviso del tutto il giudizio sostanzialmente entusiastico espresso dal suo socio politico in Italia Carlo Calenda all’uscita da Palazzo Chigi, dopo un’ora e mezza di confronto con la presidente Giorgia Meloni sulla “manovra”, come viene chiamata la legge di bilancio finalmente pronta per l’ormai solitamente rapido esame parlamentare. Una manovra -ha detto Calenda alla Stampa– che ha troppo l’impronta di Matteo Salvini ma che Giorgia Meloni è “preparata” abbastanza per avvertirne i limiti, cambiarla con l’aiuto del cosiddetto terzo polo e renderla persino appetibile per un voto favorevole o un’astensione. A meno che il governo, premuto dall’urgenza, fretta e quant’altro, cui non ha potuto sottrarsi l’anno scorso neppure Mario Draghi, non ricorra alla fiducia. Che Calenda non potrebbe proprio votare, pur con tutto il rispetto, persino l’ammirazione nutrita verso la premier. Dalla quale egli si è detto addirittura “affascinato”, oltre che colpito per la preparazione, per la storia di “una donna che nasce in una famiglia non privilegiata, con una vita difficile e che ce la fa da sola”. Qualcosa -ha spiegato il senatore ed ex ministro- “che mi predispone positivamente dal punto di vista della chimica”. Gli ormoni insomma reclamano la loro parte. E con essi, si sa, è pericoloso scherzare. 

Di fronte a tanto ben di Dio, diciamo così, un altamente responsabile Calenda ha mostrato di non darsi pace sia per l’opposizione pregiudiziale praticata contro la Meloni del Pd di Enrico Letta e dal MoVimento 5 Stelle, che si contendono strade e piazze per protestare, sia per “il sabotaggio” praticato all’interno della maggioranza da Forza Italia. Dove naturalmemte non hanno gradito rinfacciando al “supponente” censore una “irrilevanza” -ha detto, in particolare, Licia Ronzulli- che il terzo polo cercherebbe di nascondere mostrando di potere spendere quello che non ha. In effetti, a pensarci bene, esso dispone solo di 9 parlamentari nell’unica assemblea dove i margini della maggioranza sono modesti, attorno ai 15. E questi margini sono minacciati, più ancora  che dai contrasti interni alla coalizione di governo, dalle forzate assenze, nei momenti cruciali, di troppi senatori nominati ministri e sottosegretari.

Ma oltre che dai ranghi ridotti nel pur cruciale Palazzo Madama, il terzo polo sarebbe indebolito dalla divisione fra “il tatticismo esasperato” contestato a Calenda dal direttore del Giornale ancora della famiglia Berlusconi, se sono vere le voci di una sua imminente vendita alla famiglia Angelucci, e “quello professionale” attribuito a Matteo Renzi da Augusto Minzolini. Che è stato comunque superato nella polemica da Alessandro Sallusti su Libero con una prima pagina-manifesto, con  tanto di foto dell’interessato, che grida in blu: “Calenda bussa a destra- Di questo qui non c’è da fidarsi”. 

Di fronte a tanta passione, chiamiamola così, o all’ironia di Stefano Rolli, che sul Secolo XIX traduce le “aperture” della Meloni a Calenda  e viceversa in una porta sbattuta in faccia dalla stessa Meloni a Silvio Berlusconi; di fronte a tanta passione, dicevo, sembra di essere finiti a scuola, o  in un convento, a leggere sul Corriere della Sera le riflessioni del professore Angelo Panebianco sulle “scommesse centriste” in questa diciannovesima legislatura cominciata da poco. 

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Dopo Ischia Meloni promette entro un mese un piano di “adattamento al cambiamento climatico”

Visti anche i problemi avuti con le ultime conferenze stampa, interrotte da proteste di giornalisti insoddisfatti del troppo poco tempo lasciato alle loro domande o del tono sbrigativo di certe risposte, la presidente del Consiglio si è lasciata intervistare a lungo, a poco più di un mese dal suo insediamento, dal direttore in persona del giornale più diffuso in Italia: Luciano Fontana, del Corriere della Sera. Che non le ha risparmiato qualche critica: per esempio, quando la premier gli ha risposto negativamente ad una domanda sull’opportunità di ritirare, ora che guida il governo, qualche querela per diffamazione presentata da semplice leader di una forza politica. E ciò per non apparire, a torto o a ragione, intenzionata ad approfittare del maggiore potere acquisito politicamente. 

Diversamente dal direttore del Corriere, non credo che la Meloni abbia torto a reclamare ancora il processo contro lo scrittore Roberto Saviano. Che le aveva dato della “bastarda” e dovrebbe quanto meno scusarsi per attendersi il buon gesto della rinuncia all’azione penale: cosa che invece lui non ha fatto, rivendicando anzi il merito e il diritto all’offesa. La santità non è ancora un requisito richiesto ad una fedele arrivata alla guida di un governo. 

A parte questo aspetto che potrebbe anche apparire marginale, ma tale non è per la disinvoltura con la quale in Italia non si fa solo politica ma anche giornalismo, l’intervista ha naturalmente toccato la dolorosa vicenda di Ischia   travolta dal fango, che occupa le prime pagine con un bilancio ancora incompleto di vittime, mentre scrivo. “In Consiglio dei Ministri -ha detto la presidente- abbiamo preso un impegno: approvare entro l’anno il piano nazionale di adattamento al cambiamento climatico”. Di fronte al quale si spera a Palazzo Chigi che si riducano anche le polemiche, recriminazioni e altro ancora in corso. Esse hanno coinvolto, a torto o a ragione, anche la Meloni per avere a suo tempo votato alla Camera, pur essendo all’opposizione, la contestata norma introdotta dal primo governo di Giuseppe Conte ad un provvedimento dopo il crollo del ponte Morandi a Genova per accelerare, quanto meno, vecchie pratiche di condono edilizio pendenti a Ischia. Che con Genova, a dire il vero, avevano poco o niente da condividere.

Certo, varare entro un mese, ormai, un piano nazionale di adattamento al cambiamento climatico non è un impegno da poco. Ma temo che, pur riuscendovi, la presidente del Consiglio si troverà pure lei alle prese con un inconveniente ormai abituale in Italia: l’incapacità di spendere le risorse finanziarie stanziate. Ciò accade anche con i fondi europei, dei quali si occupa proprio oggi in una intervista al Foglio il ministro competente Raffaele Fitto, con tanto di titoli in rosso impiegati dal giornale fondato da Giuliano Ferrara. 

Sullo spettacolo un pò troppo singolare appena dato, sempre sullo sfondo della tragedia di Ischia, da due ministri scontratisi sui sindaci da arrestare o da difendere nella gestione dell’abusivismo edilizio, la Meloni ha cercato caritatevolmente di minimizzare. Ed ha scommesso sulla compattezza e sulla durata del suo governo e della relativa maggioranza. Della quale -ha detto- non penso che abbia bisogno di allargarsi a qualcuno perché è solida”. “Ciò non toglie -ha aggiunto riferendosi a Renzi e Calenda citati nella domanda del direttore del Corriere della Sera- che se alcuni all’interno dell’opposizione vorranno condividere con noi alcune proposte ci sarà sempre la nostra disponibilità”, evidentemente, ad accogliere il loro voto favorevole. Cioè, a gratis, come si dice a Roma. 

Stimolata a parlare in particolare anche di Silvio Berlusconi, e dei cattivi umori attribuitigli spesso dai giornali, la presidente del Consiglio ha assicurato di “sentirlo spesso su tutte le questioni fondamentali”. “Anche con Salvini -ha detto- c’è un rapporto costante e continuo”. Si vedrà se è ottimismo d’ufficio o davvero qualcosa di più.  

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Abusi edilizi, evasioni fiscali, redditi di cittadinanza: parenti stretti del lassismo populista

Sono reo confesso, persino davanti a un commissario di polizia o pubblico ministero assomigliante fisicamente a Marco Travaglio, di scarsa, ma assai scarsa simpatia verso il politico Giuseppe Conte. Non verso l’avvocato, poco importa se del popolo o di altri più in particolare, per il rispetto che gli debbo -chiamatelo pure opportunistico- come collega dei miei, anzi nostri editori. Non ridete, per favore. Lo dico sul serio. 

Eppure, non per convenienza ma per convinzione, non per simpatia -ripeto- ma per onestà professionale, scrivendo di politica da una vita, e per niente breve, ritengo disonesto il processo più o meno sommario che hanno improvvisato gli avversari contro l’ex presidente del Consiglio per quel maledetto articolo 25 di un decreto sul crollo del ponte Morandi a Genova, nel 2018. Esso consentiva l’espletamento più rapido di vecchie pratiche di condono di ancor più vecchi abusi edilizi a Ischia. Alcuni dei quali, magari, possono avere messo il loro pur infinitesimale zampino nella valanga di acqua e di fango che ha appena riportato tragicamente l’isola sulle prime pagine dei giornali, italiani e anche stranieri. E che ha spinto persino il troppo algido presidente Emmanuel Macron, almeno agli occhi dei suoi critici, a fare una telefonata di solidarietà e di riconciliazione -si spera- alla nuova premier romana Giorgia Meloni dopo il malinteso, chiamiamolo così, sui migranti sbarcati una volta tanto in un porto francese dalla nave di soccorso Ocean Viking.

Nossignori, se volete processare Conte, dovete portare sul banco degli imputati fior di altri politici viventi e defunti, alla memoria. E non solo per gli abusi edilizi e relativi condoni, tutti studiati per raccogliere insieme consensi elettorali ed entrate utili a mettere qualche pezza nei conti pubblici sempre sofferenti, ma anche per quelli che mi permetto di considerare, anche al costo di sembrarvi provocatorio, i loro parenti stretti. Sono, nell’ordine più spontaneo che mi viene, le evasioni fiscali e i redditi -al plurale- di cittadinanza. Materia, quest’ultima, con tutti gli abusi che vengono fuori un giorno sì e l’altro pure, spesso tra le pieghe di indagini su altri reati, addebitabile alla categoria più generale del populismo d’accatto. In cui Conte, paradossalmente, per convenienza elettorale e politica avrebbe pure interesse a rimanere solo sul banco metaforico degli imputati, tanto da avere già organizzato una prima manifestazione di protesta contro i tagli pianificati dal nuovo governo, ma dove non sarebbe giusto lasciarlo solo, ancora una volta. 

Al reddito di cittadinanza, al singolare, come una pomata da spalmare sulla piaga dell’indigenza, o persino -nella immaginazione balconara di Luigi Di Maio nel 2018 in veste di vice presidente del Consiglio e ministro, insieme, del Lavoro e dello Sviluppo Economico- come l’arma segreta per “la sconfitta della povertà”; al reddito di cittadinanza, dicevo, hanno dato il loro contributo di apprezzamento e persino di collaborazione quasi tutti. Penso ai leghisti di Matteo Salvini, partecipi del primo governo Conte, al Pd di Enrico Letta partecipe del secondo governo Conte, naturalmente contrario a rimetterlo in discussione, ma anche a Silvio Berlusconi, sempre pronto a precisare i limiti di ogni intervento correttivo e a riconoscere le buone finalità della misura a suo tempo voluta dai grillini. 

Il mio buon amico Marcello Sorgi nei panni di uno storico ancora più attrezzato e professionale di un altro mio buon amico come Paolo Mieli, è appena risalito sulla Stampa addirittura al 119 dopo Cristo per trovare nell’imperatore Adriano il progenitore dei condonisti- chiamiamoli così- dei nostri tempi e di quelli attribuibili alla cosiddetta prima Repubblica. Conte può così ritrovarsi, non so francamente quanto volentieri o pazientemente, con i compianti Mariano Rumor, Giovanni Spadolini, Bettino Craxi, Giulio Andreotti, e i viventi Lamberto Dini e Berlusconi, finiti tutti in effigie più o meno ovale in una galleria all’interno, sempre, della Stampa. 

Per chiudere, permettetemi due parole su una proposta appena formulata su Repubblica da Giovanni Moro, figlio dell’indimenticato e indimenticabile Aldo, contro gli evasori fiscali che tanto ha indignato sulla Verità Maurizio Belpietro: togliere loro il diritto di voto, attivo e non solo passivo. Ma guarda, Giovanni, che gli evasori fiscali, per me anch’essi parenti stretti degli abusivi dell’edilizia e di altri corteggiati dai populismi ambivalenti, già se ne fregano da soli delle elezioni non partecipandovi. Non a caso gli astensionisti costituiscono da tempo il vero, temo insuperabile partito di maggioranza in Italia.

Pubblicato sul Dubbio

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L’incredibile avventura capitata in televisione al sindaco di Forio d’Ischia

Collegato con lo studio televisivo dell’Arena di Massimo Giletti, su la 7, l’avvocato Francesco Del Deo in veste di sindaco di Forio d’Ischia si è assunto ieri sera un compito davvero immane riconoscendo, per carità, il fenomeno dell’abusivismo edilizio nell’isola ma equiparandolo, per qualità e quantità, a quello più generale d’Italia. E negando che almeno questa  volta esso abbia avuto un’incidenza nell’ennesimo disastro locale da pioggia e frana. Un disastro costato, sino al momento in cui scrivo, sette morti – uno in meno di quelli dati per certi da Milano ieri mattina dal vice presidente del Consiglio e ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini, rimbrottato per questo anche dal suo ex capo di Gabinetto al Viminale e ora ministro dell’Interno- e cinque dispersi. Che naturalmente mi auguro risultino alla fine tutti vivi. 

L’avvocato e sindaco Del Deo, senza volerlo offendere, deve essere apparso a qualche spettatore da casa un marziano un pò avanti negli anni, ben travestito da terrestre: il vero scoop realizzato da Massimo Giletti nella sua ormai lunga attività giornalistica, fra Rai e La 7. Uno che l’editore Urbano Cairo dovrebbe tenersi ben stretto, senza farselo sottrarre dalla concorrenza.  

Così, ad occhio e croce, solo a vedere le immagini della montagna franata, il grafico del canalone creato dall’acqua, il fango ai lati o sui resti delle case, senza aver letto le storie, raccontate la mattina dai giornali, di terrazzi panoramici realizzati dai proprietari dei manufatti tagliando gli alberi che ne intralciavano la realizzazione; così, dicevo, ad occhio e croce si era tentati di gridare da casa al povero avvocato Del Deo, ma indirettamente anche a Giletti che non gli aveva ancora interrotto per protesta il collegamento: “Ah francè, ma che stai a dì”. E chiamo il sindaco per nome scusandomi col Papa per la incidentale omonimia, né colpevole né colposa da parte dello sfortunato avvocato così chiamato dai suoi genitori prima ancora che Bergoglio potesse solo immaginare di diventare Pontefice. Ed ora purtroppo, l’avvocato, chiamato dalle circostanze a raccontare -penso- quel che tecnici ed altri collaboratori dell’amministrazione comunale gli avevano riferito e garantito. Così essi hanno finito per indurlo ad una specie di abuso d’ufficio in materia di informazione al pubblico locale e, più in generale, nazionale. Che non so, francamente, se e quando potrà riprendersi dallo shoc procuratogli dalla micidiale combinazione della tragedia fisica e, a questo punto, anche verbale, amministrativa e politica abbattutasi su quella terra così bella ma così tanto violentata dagli uomini, prima ancora che dalla natura.  

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Il rovinoso fango d’Ischia e dintorni, condito di dolore e strumentalizzazioni politiche

La foto di quell’uomo appena salvato dal fango a Ischia, scelta da molti giornali in prima pagina, può ben essere considerata la più rappresentativa della tragedia abbattutasi ancora una volta su un’isola tra le più belle d’Italia. Ma anche tra le più devastate, ancor prima del fango di oggi e dei terremoti del passato, dalla purtroppo diffusissima pratica dell’abusivismo edilizio. Che è stata tollerata da governi nazionali e amministrazioni locali di ogni colore politico. Lo si deve dire o riconoscere con franchezza, anche se la solita faziosità travestita da passione ha indotto alcuni -e non solo il Giornale in un titolo di prima pagina- a puntare il dito sul primo governo di Giuseppe Conte, quello gialloverde. Nel 2018  esso infilò, sia pure cercando di smorzarne a parole portata ed effetti, l’ennesimo condono edilizio nel decreto legge d’intervento sul crollo del ponte Morandi a Genova. 

Ventisettemila condoni edilizi a Ischia per 60 mila abitanti, come ha ricordato Il Fatto Quotidiano, parlano da soli. C’è da vergognarsi per tutti, anche fra quelli che gridano al dolore e allo scandalo solo quando la bomba d’acqua di turno sulla montagna sovrastante provoca la tragedia anch’essa di turno. 

E’ ben magra, a questo punto, la soddisfazione che possono togliersi gli avversari di  un Matteo Salvini peraltro già in difficoltà per i malumori nel suo movimento, appena emersi anche dai funerali di Roberto Maroni, cogliendolo in fallo verbale. Mi riferisco alla vignetta proprio del Fatto Quotidiano in prima pagina con quell’annuncio  salviniano e prematuro di otto morti a Ischia, contro l’unico sino a quel momento accertato dai soccorritori, ma nel buco nero di undici dispersi. E’ alquanto sciacallesco -come ha gridato Libero in un titolo- rappresentare Salvini col suo annuncio e “a destra, l’isola di Ischia devastata da una frana”. 

Dico e scrivo di più, nonostante la vignetta di Stefano Rolli che sul Secolo XIX  fa ricordare da un soccorritore che “non è il momento delle polemiche” e si sente rispondere da un protestatario: “Semmai ripasso”. Non mi è per niente piaciuta la fretta con quale il ministro dell’Interno in carica Matteo Piantedosi, pur essendone stato al Viminale il capo di Gabinetto fra il 2018 e il 2019, ha praticamente zittito, o fatto zittire, Salvini per quell’uscita, Che è la meno grave o la più comprensibile e giustificabile fra quelle cui dalla sua postazione nuova di vice presidente del Consiglio e ministro delle Infrastrutture  Salvini ci ha già abituato in poco più di un mese, occupandosi anche di problemi estranei alle sue pur notevoli competenze di governo. Ecco: l’ho scritto con la dovuta schiettezza, anche a costo di sembrare quello che non sono, cioè un estimatore di Salvini a prescindere, pure dai suoi gravi e grandi scompensi elettorali, frutti non solo di sfortunate coincidenze. “Destino cinico e bravo”, soleva dire il compianto Giuseppe Saragat quando il suo Psdi usciva insoddisfatto dalle urne.  

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Ai funerali di Bobo Maroni mai così evidente la crisi di Matteo Salvini nella Lega

Non per volere strumentalizzare i funerali di  Roberto Maroni -Bobo per gli amici ma ormai anche per quanti neppure lo avevano mai conosciuto, il  leghista forse più noto e popolare dopo il fondatore del movimento Umberto Bossi- ma a vederne le immagini televisive e a leggerne le cronache degli inviati dei maggiori giornali viene spontaneo chiedersi se le esequie celebrate a Varese siano state solo dell’ex vice presidente del Consiglio, ex ministro dell’Interno e del Lavoro, ex presidente della regione Lombardia prematuramente scomparso per malattia. E non anche quelle politiche dell’uomo – Matteo Salvini- che ne raccolse a suo tempo la staffetta alla guida del partito irrimediabilmente orfano della leadership bossiana. Che era stata compromessa  non tanto dagli effetti di un ictus quanto dalla caduta di credito, ahimè e dolorosamente, personale nella gestione del Carroccio. 

“Che qui Salvini non giochi in casa -ha scritto da Varese l’inviato del Corriere della Sera Marco Cremonesi- si misura dal freddo applauso al suo arrivo”, ancora più freddo se paragonato a quelli rimediati da tanti altri convenuti ai funerali, a cominciare naturalmente dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni: leader di un partito –Fratelli d’Italia- dove sono passati già molti leghisti e altri bussano da tempo alla porta, volendo seguire gli elettori che hanno già cambiato il loro voto. 

Pur intimamente e orgogliosamente compiaciuta di questa capacità di attrattiva politica, con una trasmigrazione diretta evidentissima ad una semplice lettura dei risultati elettorali e poi dei sondaggi, la Meloni probabilmente sarà anche tentata da qualche preoccupazione per la tenuta del suo governo e della maggioranza. Per quanto oggettivamente indebolito, come hanno appunto confermato anche i funerali di Maroni e la fredda accoglienza ricevuta dai leghisti del “territorio”, come lui preferisce dire, Salvini può compiere falli di difesa, chiamiamoli così, a discapito del governo. Di cui egli è vice presidente e ministro non certo secondario delle Infrastrutture, uso più a parlare che a tacere, più al controcanto che al canto. 

Oltre alla freddezza dell’accoglienza ricevuta da Salvini a Varese sotto quel “Grazie Bobo” steso al balcone della sede locale della Lega, è stata notata l’assenza non solo e non tanto di Umberto Bossi, alle prese con la sua non eccellente salute, e reduce dall’ennesimo allarme che ha fatto scattare ansie e controlli, quanto di qualcuno dei suoi familiari. Un’assenza e “un silenzio inspiegabile al punto -ha scritto Cremonesi- da far dubitare a molti che “l’Umberto” ne sia stato informato: ma il promotore del Comitato Nord Paolo Grimoldi garantisce”. 

L’inviato della Stampa Francesco Moscatelli ha inutilmente cercato almeno una corona o un cuscino di fiori di Bossi osservando: “Segno che la ferita di dieci anni fa, quando Maroni gli subentrò alla guida della Lega non si è mai rimarginata”. Come quella più recente avvertita da Salvini con la richiesta avanzata da Maroni di un cambiamento al vertice del movimento dopo i risultati elettorali del 25 settembre. Ma tra i due s’era già rotto da tempo il rapporto politico, nel contesto comunque di un logoramento più generale della vita interna di partito. 

Non a caso Filippo Maroni, il figlio maggiore di Bobo, nello struggente saluto rivolto al padre in Chiesa ha detto: “Nei momenti di difficoltà hai capito che la famiglia poteva essere un porto sicuro, hai capito che ci sono cose più importanti della politica con la p minuscola”. Di cui d’altronde il compianto Bobo non è stato la sola vittima nella storia, recente e non, del suo e nostro Paese. 

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Carlo Calenda e Matteo Renzi: Dio li ha fatti e poi li ha accoppiati

L’intervista a Repubblica in cui Carlo Calenda ha riconosciuto a Giorgia Meloni prima “il gesto importante” e  poi “l’atto di maturità politica” compiuti mostrando interesse al suo progetto di manovra economica, diverso naturalmente da quella varata dal Consiglio dei Ministri, e predisponendosi volentieri ad un incontro per confrontarsi, gli è già costata il sospetto, l’accusa e quant’altro di volere offrire “una stampella” al primo governo di destra-centro, anziché di centrodestra. Che è una distinzione politicamente maggiore di quella di genere che forse ha colpito di più la gente comune. 

Sospetto, accusa -ripeto- rafforzato dalla preoccupazione espressa dal leader o co-leader, come preferite, del cosiddetto terzo polo che il governo possa “sfaldarsi”, poco importa se per l’insofferenza di Silvio Berlusconi o per la instabilità ormai della leadership di Matteo Salvini nella Lega. “Sarebbero problemi per l’Italia e io non me lo auguro”, ha aggiunto Calenda spiegando che i partiti di centrodestra, o destra-centro, “hanno vinto le elezioni e devono governare”, forse anche grazie all’opposizione “mai pregiudiziale” del terzo polo, in modo da far vedere “cosa sanno fare”, lasciando il giudizio conclusivo agli “elettori”. Ormai “è finito -ha detto ancora l’alleato e ritrovato amico di Renzi- il tempo dei governi d’emergenza o d’opportunismo”, serviti in altre occasioni ad evitare, ritardandolo, il ricorso chiarificatore alle urne. 

L’alleato e ritrovato amico Renzi, appunto. I due si scambiano ogni volta che ne hanno l’occasione apprezzamenti e comprensioni, per carità, da quando hanno deciso di mettersi insieme, paghi del pur modesto elettorale del 25 settembre, conseguito in soli tre mesi rispetto ai dodici anni -ha ricordato Calenda- compiuti dalla Meloni per salire dall’1 all’8 per cento, ma poi al 25.

        Già alle elezioni europee del 2024 Renzi si è proposto, prima ancora che augurato, di sorprendere tutti facendo salire il suo terzo polo in testa alla graduatoria. Le europee a Renzi, si sa, hanno portato fortuna. Quelle del 2015, l’anno dopo il suo arrivo a Palazzo Chigi, lo innalzarono come segretario del Pd al 40 per cento dei voti, come solo i democristiani riuscivano a fare ai loro tempi migliori. Cinque anni dopo il Pd, nello stesso tipo di elezioni, precipitò al 22 per cento, ma Renzi non ne era più il segretario, praticamente costretto a lasciare per il ben più modesto e rovinoso 18 per cento conseguito l’anno prima nelle elezioni politiche impostegli, secondo lui, dal presidente della Repubblica alla scadenza ordinaria. Diverso, sempre secondo lui, sarebbe stato l’esito, con ripercussioni sul dopo, se Sergio Mattarella lo avesse accontentato facendolo andare alle urne l’anno prima, sull’onda del 40 per cento -sempre quel benedetto 40- conseguito con i sostenitori della riforma costituzionale da lui intestatasi ma dannatamente bocciata nel referendum del 4 dicembre 2016. 

Ah, che piaghe ancora queste date e questi numeri per Matteo Renzi. Che non per questo, tuttavia, si è mai rassegnato al ruolo di un attore minore, e tanto meno di una comparsa. Se prima poteva costruire governi e maggioranze, adesso si accontenta di poter far cadere i primi e le seconde. Ne sa qualcosa, per non andare troppo indietro negli anni, Giuseppe Conte.  Che, grazie proprio a Renzi ancora nel Pd, riuscì a restare nel 2019 a Palazzo Chigi cambiando alleato, dalla Lega allo stesso Pd, ma fu dallo stesso Renzi, ormai fuori dal partito del Nazareno, praticamente rovesciato dopo poco più di un anno a vantaggio di un Mario Draghi inutilmente rappresentato o immaginato  disinteressato e stanco dall’avvocato pugliese: stanco, in particolare, per le fatiche alla presidenza della Banca Centrale Europea, a Francoforte.

Ora, come rottamatore in servizio permanente ed effettivo, Renzi si è appena avventurato, in una intervista alla Stampa, a realizzare proprio lo scenario temuto da Calenda: quello di una crisi del governo Meloni. Che è stata annunciata nel titolo dell’intervista già per “l’anno prossimo”, ma in realtà prevista dalle parole testuali di Renzi all’indomani delle elezioni europee del 2024. Allora -ha detto il rottamatore- “questo governo rischierà di andare a casa” per le difficoltà, evidentemente, all’interno di una maggioranza provata dai risultati elettorali. “Lì saremo pronti”, ha aggiunto Renzi al plurale, parlando -immagino- anche a nome di un Calenda apparso invece nella sua intervista a Repubblica per nulla convinto o smanioso di una crisi. 

E’ davvero strana- non credo solo per temperamenti- la coppia Calenda-Renzi, o viceversa. Dio li fa e poi li accoppia, dice un vecchio proverbio popolare usato anche per qualche felice commedia d’arte.

Pubblicato sul Dubbio

Renzi, il rottamatore, già prenota la caduta del governo Meloni grazie anche a lui

Il cosiddetto terzo polo di Carlo Calenda e Matteo Renzi fa naturalmente parte delle opposizioni che la manovra del governo di Giorgia Meloni ha diviso fra di loro e al loro interno.

Calenda, si sa, pur nel contesto di un giudizio negativo sulla legge di bilancio, sta per incontrare la presidente del Consiglio. E si è già guadagnato da Piero Ignazi su Domani il sospetto o l’accusa, come preferite, di essere in “marcia” di avvicinamento all’esecutivo di centrodestra, anche nell’ultima edizione di destra-centro. Ma Renzi in una lunga intervista alla Stampa, pur condividendo il confronto che sta per avvenire a Palazzo Chigi, ha tenuto a precisare che l’iniziativa è stata di Calenda, non sua quindi. Lui, come vedremo, ha altri progetti o sogni sulla Meloni, alla quale riconosce o addirittura invidia, da ex presidente del Consiglio, solo il merito di avere portato alla guida del Ministero della Giustizia uno come Carlo Nordio. Al quale -chissà- avrebbe forse  dovuto pensare anche lui quando fece il suo governo, nel 2014, ma preferì puntare su Nicola Gratteri, bocciatogli perché magistrato ancora in servizio dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Che per lo stesso motivo però avrebbe detto no anche a Nordio, andato in pensione solo tre anni dopo. 

Venuta meno l’ipotesi di Gratteri, non proprio un garantista come Nordio, a dire la verità, Renzi dovette ripiegare sul suo allora collega di partito Andrea Orlando. Sul quale sentite che cosa ha detto ora alla Stampa, sapendolo impegnatissimo nel Pd sul fronte di una nuova alleanza con i grillini: “Fa il ministro con tutti, ha sempre questa faccia contrita che dice “mi tocca fare il ministro”. Poi l’ha fatto con tutti: Renzi, Gentiloni, Letta, Draghi”. Ai suoi ex colleghi di partito Renzi non risparmia certamente giudizi urticanti quando ne ha l’occasione, ad eccezione di Stefano Bonaccini. Di cui, sempre parlando alla Stampa, ha tenuto a sottolineare la perdurante amicizia, non compromessa neppure dalla condizione attuale di candidato alla segreteria del Pd. 

Ma torniamo ai rapporti col governo in carica. Ciò che Renzi persegue non sembra proprio il supporto attribuitogli dagli avversari senza distinzione da Calenda, se non di qualche forma o battuta. No, anche nei riguardi della Meloni e del governo con poco più di un mese di anzianità Renzi ha rivendicato il suo ruolo di rottamatore. “Io -ha detto testualmente alla Stampa– sono quello che i governi li fa cadere. Come insegna Sorrentino nella Grande Bellezza, la cosa bella non è organizzare la festa, ma avere il potere di farla fallire”. Cioè di fare la festa all’incontrario, come si dice del resto in gergo popolare, nel quale fare la festa a uno, o a una, significa farlo o farla fuori: nel caso della povera Meloni, una specie anche di femminicidio politico sognato dal rottamatatore proprio nel giorno in cui Palazzo Chigi è stato illuminato di rosso, come il Senato e la Camera, nel segno della lotta alle violenze contro le donne. 

“Io -ha insistito e spiegato Renzi- non faccio inciuci. L’ultimo che l’ha detto è Conte e deve ancora riprendersi dalla botta che ha preso. Ma so che nel 2024 alle elezioni europee il governo rischierà di andare a casa. Lì saremo pronti”. Specie se da quelle urne, come lo stesso Renzi ha sognato in un altro passaggio dell’intervista, il cosiddetto terzo polo dovesse uscire meglio di tutti. 

Probabilmente Renzi pensa di poter incrociare i suoi sogni con l’insofferenza di Forza Italia nella maggioranza, amplificata oggi dal Riformista di Piero Sansonetti con questo titolo di prima pagina all’ennesima intervista del vice presidente berlusconiano della Camera Giorgio Mulè: “Forza Italia critica la manovra e avverte Giorgia: attenta, non ti libererai di noi”. C’è comunque un errore nel titolo della Stampa all’obbiettivo o sogno di Renzi. L’anno del melonicidio -come il draghicidio denunciato a suo tempo da Marco Travaglio- non sarebbe già il prossimo ma quello ancora successivo. 

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Le disumanità secondo le speciali categorie di giudizio di Giuseppe Conte

Tutto preso a contrastare “la manovra disumana” varata in Italia dal governo di Giorgia Meloni mettendo mano al cosiddetto reddito di cittadinanza, che ha consentito ai pentastellati di perdere nelle elezioni di settembre “solo” la metà dei voti del 2018, e di lanciare da questa posizione un’opa contro il Pd di Enrico Letta troppo tiepido e poco credibile all’opposizione, Giuseppe Conte si è avventurato a difendere Putin dalla ben più consistente e vera disumanità rimproveratagli dal Parlamento Europeo con la natura ormai terroristica della guerra all’Ucraina. Dove i missili cadono anche su ospedali, scuole, parchi giochi dei bambini, palazzi civili con l’obiettivo dichiarato di sprofondare la popolazione nel freddo e nel buio,   come ha titolato Avvenire, oltre che nel sangue già abbondantemente sparso in nove mesi di cosiddetta operazione speciale. Che si continua a non poter chiamare guerra in Russia senza finire in galera. “Lo strazio di Kiev”, ha misuratamente lamentato il manifesto.

Alla mozione del Parlamento Europeo contro i metodi terroristici di Putin, approvata con 494 voti, si sono opposti astenendosi anche i  cinque deputati pentastellati italiani presenti e guidati da Tiziana Beghin, coperti a Roma da Conte in persona con questa motivazione dettata in una intervista al Corriere della Sera nel contesto dell’opposizione grillina alla “disumana” -ripeto- manovra economica del governo Meloni: “La condotta di Putin e della Russia l’abbiamo condannata senza se e senza ma. Oggi i nostri sforzi sono protesi a costruire, a partire dal protagonismo dell’Unione Europea, un vero percorso diplomatico. Definire la Russia uno Stato terrorista allontana le parti in causa e non aiuta a ricomporre il dialogo”. 

Neppure aiutare militarmente gli ucraini a resistere sin dal primo momento dell’attacco e dell’invasione, come si era deciso in Italia col consenso anche di Conte, è alla fine apparso allo stesso Conte favorire il “percorso democratico”, come adesso dice il presidente pentastellato dopo avere ritirato la fiducia al governo di Mario Draghi,  essere passato all’opposizione, avere provocato le elezioni anticipate e averle perdute. Anche se l’avvocato pugliese  finge di essere uscito dalle urne quasi indenne, comunque meglio di un Pd più votato e più rappresentato in Parlamento.

Mentre Conte si è premurato di soccorrere i suoi a Strasburgo, superati nell’ostilità alla mozione antiputinana solo dai voti del tutto contrari di tre deputati dissidenti del Pd- Pietro Bartolo, Andrea Cozzolino, Massimiliano Smeriglio- e della ex legista Francesca Donato, Il Fatto Quotidiano si è premurato di soccorrere lo stesso Conte con questo titolo o ragionamento, in apertura per quanto modesta del giornale: “I terroristi che danno dei terroristi ai russi- Strasburgo vota una risoluzione contro il Cremlino. Una forma di doppia morale, poiché dimentica le atrocità commesse, tra gli altri, dall’”alleato” turco contro i curdi”. Di cui tuttavia il Parlamento Europeo non stava occupandosi dibattendo della guerra in Ucraina. Un titolo, insomma, quello del Fatto, di cui si potrebbe chiedere, alla dipietrese, che c’azzecca. 

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Una manovra divisiva più per le opposizioni che per la maggioranza di destra-centro

Il rischio della manovra adottata dal governo Meloni con la sua prima legge di bilancio – sia nella versione “tisana” commentata dal vice presidente forzista della Camera Giorgio Mulé, sia nella versione “disumana”, da “macelleria sociale”, denunciata dal presidente delle 5 Stelle Giuseppe Conte- era di compattare le opposizioni e, al tempo stesso, di dividere la maggioranza. 

Almeno il ricompattamento delle opposizioni è stato evitato dalla presidente del Consiglio e dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. In piazza, salvo sorprese, non scenderanno insieme il segretario del Pd Enrico Letta e Giuseppe Conte, come accadde invece nella manifestazione romana per la pace. Dal cui corteo il primo dovette sfilarsi per le crescenti contestazioni nei suoi riguardi. 

Letta si terrà stretta la sua manifestazione di protesta già annunciata, in un percorso ancora da definire, per il 17 dicembre: troppo sotto Natale, hanno borbottato quanti non intendono forse parteciparvi. Sarà una protesta contro una manovra “improvvisata e iniqua”, ha detto  il  segretario del Pd facendo storcere il muso all’amico o compagno di partito Andrea Orlando, smanioso di riallearsi con Conte e convinto che la legge di bilancio sia ancora peggiore: “lucidamente reazionaria”. 

Le opposizioni sono quindi divise fra di loro e al loro interno: un vantaggio in più per il governo, pur alle prese anch’esso -per carità- con problemi fra e nei partiti della maggioranza. Ma questi ultimi non sembrano proprio destinati ad esplodere in modo da compromettere la tenuta di una coalizione dove tutti sanno bene che ciò che ritengono sia mancato in questa manovra potrà essere perseguito e ottenuto nelle prossime solo a condizione che il governo sopravviva. E possibilmente per tutti i cinque anni della legislatura, non cadendo  prima per lasciare cantare vittoria alle opposizioni neppure unite fra di loro. 

Più che i forzisti di Silvio Berlusconi -quelli della “tisana” di Mulé- nella maggioranza di centrodestra, o di destra-centro, ad essere anche in visibile sofferenza, come nella conferenza stampa tenuta dalla Meloni sulla manovra, è il vice presidente del Consiglio e leader leghista Matteo Salvini. Che ha dovuto fingere di non sentire e non capire quando il collega di partito e ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha rivendicato il merito di avere contenuto le richieste di maggiori spese per non far saltare i conti, e con i conti anche i rapporti con l’Unione Europea. E ha dedicato questi sforzi con una certa commozione all’amico e collega di partito appena scomparso Roberto Maroni, finito negli ultimi anni anni isolato nella Lega dal combinato disposto, diciamo così, delle aggressioni giudiziarie per la passata esperienza alla presidenza della regione Lombardia e per una maggiore consapevolezza mostrata e reclamata nel governo della cosa pubblica, senza troppe fughe in avanti dagli effimeri successi elettorali. 

L’ultimo sondaggio disponibile è quello condotto da Swg per il Tg7 il 21 novembre scorso, dal quale la Lega risulta al 7,6 per cento contro l’8,1 di una settimana prima, l’8,9 delle elezioni politiche del 25 settembre di quest’anno e il quasi 35 per cento delle elezioni europee del 2019. Che fecero perdere la testa a Salvini, allora vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno del primo governo Conte: tanto ch’egli reclamò “pieni poteri” con le elezioni anticipate per finire all’opposizione, avendo ingenuamente scommesso sulla indisponibilità del Pd di Nicola Zingaretti a subentrargli nella maggioranza, con Conte sempre a Palazzo Chigi. 

Fu allora peraltro che la staffetta nel centrodestra, per assumerne la guida e portarlo alla vittoria elettorale dello scorso settembre, passò a Giorgia Meloni e ai suoi fratelli d’Italia. Che ad ogni sondaggio, dopo il rinnovo delle Camere, continuano a crescere a spese appunto della Lega, oltre che della Forza Italia di Berlusconi, stremata dal progetto neppure tanto nascosto di contenere la Meloni instaurando con Salvini un rapporto privilegiato gestito a lungo da Licia Ronzulli. Che se non è riuscita a diventare ministro nell’attuale governo, dove Berlusconi la voleva, ha conquistato quanto meno la postazione di capogruppo forzista al Senato. E da lì, francamente, anche se volesse, avrebbe ben poco da tessere di costruttivo o distruttivo con Salvini, secondo le preferenze.

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