La campagna referendaria di Di Maio, fra bagni e argomenti che fanno acqua

            Al netto delle polemiche sulla foto del settimanale Oggi che lo ritrae in tutt’altre faccende affaccendato, in acqua con la sua fidanzata, Luigi Di Maio ce la sta mettendo tutta nella campagna referendaria sui tagli ai seggi parlamentari per riprendersi davvero il ruolo di capo del movimento grillino, dopo la rinuncia all’incarico e alla cravatta a favore di Vito Crimi. Fra gli argomenti che va usando c’è quello secondo cui, dopo il fallimento di tutti i tentativi precedenti di far dimagrire le Camere, un no adesso seppellirebbe la questione. Non se ne parlerebbe più perché mai più i grillini -ha evitato di spiegare il ministro degli Esteri- avrebbero in Parlamento, per riprovarci, la forza di cui hanno disposto e dispongono in questa legislatura a dir poco anomala.

             Un altro argomento cui ricorre Di Maio è la deplorazione dell’antigrillismo pregiudiziale dei no ai tagli,  come se i grillini non avessero contestato altre riforme costituzionali per Di Maio.jpegavversione persino fisica, con Renzi.jpeginsulti veri e propri ai loro promotori. Mi riferisco naturalmente alla partecipazione pentastellata alla campagna referendaria del no nel 2016 alla riforma costituzionale varata dal governo e dalla maggioranza di Matteo Renzi. Che pure, oltre a un taglio di seggi parlamentari, prevedeva molte altre cose di cui si è ritoccata con mano la necessità nella pandemia virale: la revisione, per esempio, dei rapporti fra Stato e regioni dopo il riconoscimento generale, anche dei loro promotori, della riforma del titolo quinto della Costituzione improvvisata dal centrosinistra ulivista nel 2001. Essa era stata allora concepita al solo scopo, peraltro fallito, di strappare Umberto Bossi alla tentazione di rimettersi con Silvio Berlusconi dopo la rottura di fine 1994.

               Di Maio ha cercato recentemente di far credere che il no grillino alla riforma costituzionale targata Renzi, tesa anche a diversificare competenze e ruoli delle due Camere, fosse stato motivato quattro anni fa dalla volontà di difendere il bicameralismo paritario o “perfetto”. Ma questa è solo tattica, nella illusione di poter nobilitare il carattere esclusivo e anti-castale del taglio grillino dei seggi parlamentari. Che da solo basterebbe ed avanzerebbe per rivitalizzare un Parlamento dequalificatosi solo per il suo carattere pletorico, non per il cattivo funzionamento determinato anche dalle competenze ripetitive delle due Camere. E’ risibile pensare che qualcuno davvero creda a questa rappresentazione.

               Se c’è dell’antigrillismo, come onestamente in parte più o meno consistente c’è nella campagna del no, esso è pari -ripeto- all’antirenzismo che motivò moltissimo il no dei pentastellati nel 2016, anche a costo di ritrovarsi in compagnia del già allora odiatissimo Silvio Berlusconi. Così come l’antiberlusconismo aveva motivato nel 2001  il no del centrosinistra ulivista alla riforma costituzionale del centrodestra, anch’essa organica come quella successiva di Renzi: tanto organica da essere definita “federalista”.

            Lo stesso Berlusconi, d’altronde, quattro Berlusconianni fa concorse al no alla riforma di Renzi, dopo averla assecondata per buona parte del tragitto parlamentare, solo perché egli aveva rotto nel frattempo col presidente del Consiglio sulla scelta del successore di Giorgio Napolitano al Quirinale.

           Le riforme costituzionali risentono inevitabilmente del clima politico in cui maturano. Estranearle dal contesto è illusorio, o ingenuo.

 

 

 

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Conte ha spaccato la Repubblica, per fortuna solo quella di carta, per ora

            Con la sua “carta del silenzio”, come l’ha definita Claudio Tito commentando la frenata del presidente del Consiglio sulla strada delle esternazioni quotidiane, Giuseppe Conte ha spaccato la Repubblica di carta.

             Al severo giudizio di Tito, che gli contesta di non volere “sporcarsi le mani” lasciando praticamente imputridire i problemi per intervenire solo in condizioni di emergenza, all’ultimo Tito su Conte.jpegmomento e nella logica andreottiana del “tirare a campare per non tirare le cuoia”, il vecchio fondatore Eugenio Scalfari ha contrapposto un giudizio indulgente, “sostanzialmente positivo” su Conte. Che, non avendo alle spalle “un partito del quale sia il principale esponente”, data la condizione quanto meno caotica del movimento grillino che lo ha portato a Palazzo Chigi, si trova spesso in “gravi difficoltà”. Dalle quali si difende come può guidando così un “governo discreto”. Ce ne sono stati sì di “migliori” nella Scalfari su Contestoria “moderna” d’Italia “ma soprattutto di peggiori”, come si dovrebbe continuare a insegnare nelle scuole, se riusciranno davvero a riaprire nei tempi promessi dalla ministra competente Lucia Azzolina. Che -sia detto per inciso- a vederla e sentirla nei salotti televisivi  mi fa pensare più a una imitatrice che alla ministra vera, autentica della Pubblica Istruzione.

             Purtroppo la lettura dei giornali non mi ha dato notizie, o impressioni, più consolanti sulla Repubblica: quella vera, non di carta, presieduta al Quirinale da Sergio Mattarella. Al qualeMagri sul Colle.jpeg Ugo Magri sulla Stampa ha attribuito la convinzione -che mi permetto di non condividere- di un Parlamento non minacciato di delegittimazione da una vittoria del sì al referendum confermativo del 20 e 21 settembre sul taglio di 345 dei suoi attuali 945 seggi elettivi.

              Diversamente dal predecessore, e collega di partito, Oscar Luigi Scalfaro, che nel 1994 sciolse le Camere, pur elette meno di due anni prima, per l’intervenuto cambiamento della legge elettorale sotto la spinta referendaria del 1993, Mattarella questa volta si risparmierebbe uno scioglimento anticipato per la perdurante presenza di una maggioranza di governo, che sarebbe l’attuale, per quanto malmessa secondo la rappresentazione della Repubblica di carta. 

            Sul piano storico, diciamo così, contesto il ricordo attribuito a Mattarella perché nel 1994 una maggioranza a favore della prosecuzione della legislatura col governo di Carlo Azeglio Ciampi c’era, allertata ogni mattina dal povero Marco Pannella con assemblee di parlamentari contrari alle elezioni anticipate. Ma Scalfaro non volle sentir ragioni e spinse Ciampi alle dimissioni per il ricorso immediato alle urne reclamato soprattutto dal Pds-ex Pci di Achille Occhetto, illuso di vincere nonostante la “discesa in campo” annunciata da Silvio Berlusconi.

            Sul piano non storico ma pienamente politico sarebbe il caso di segnalare a Mattarella la delegittimazione del Parlamento attuale risultante dal giudizio che ne dà sulla prima pagina il giornale più contiano e grllino fra tutti Il Fatto sul Parlamento.jpegquelli che si stampano in Italia: Il Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio. Che, ancora entusiasta delle forbici e delle sagome Travaglio su Prodi.jpegdelle poltrone da tagliare esposte davanti a Montecitorio dai pentastellati dopo l’approvazione della loro riforma, ha liquidato le Camere attuali come un Parlamento dove “un terzo è di troppo”, composto da “assenti, peones e fannulloni”.  A chi, come Romano Prodi, si è schierato per il no al referendum Travaglio ha prescritto addirittura la Tac. 

 

 

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La notizia buona ma scomoda di cui Zingaretti non può vantarsi nel Pd e fuori

             Impegnato in una edizione inusuale e difficile delle feste dell’Unità, alle prese contemporaneamente con le paure del Covid, delle elezioni regionali del 20 settembre e del contemporaneo referendum nazionale sulla riduzione dei seggi parlamentari, che vede i militanti del Pd molto divisi ma tentati più dal no che dal sì dovuto agli alleati grillini, Nicola Zingaretti ha una buona notizia di cui però non può vantarsi, né fuori né dentro il partito.

              La notizia, fornitagli sul Corriere della Sera da Nando Pagnoncelli con una certa evidenza in prima pagina, è quella della ormai certa vittoria elettorale in Campania, che è una delle sette regioni Pagnoncelli su Campania.jpegin cui si voterà fra meno di un mese. Il “governatore” uscente e piddino Vincenzo De Luca nel sondaggio appena effettuato da Ipsos per il Corriere      ha ben 21 punti di vantaggio sul candidato del centrodestra Stefano Caldoro e più di 34 sulla candidata grillina Valeria Ciarambino. Che non potrà certo sperare in chissà quale aiuto da visite, telefonate, incontri e persino qualche comizio promessole dal corregionale ministro degli Esteri Di MaioLuigi Di Maio, pubblicamente impegnatosi a sostenere le donne e gli uomini del suo movimento che corrono da soli, pur essendosi anche lui convertito negli ultimi tempi alle nuove simpatie per il Pd coltivate da Beppe Grillo in persona. Che cominciò la sua avventura politica -non dimentichiamolo- 11 anni fa in terra sarda iscrivendosi alla sezione del Pd di Arzachena, nel cui territorio il comico genovese ha una casa di vacanza. Vi si iscrisse puntando dichiaratamente a concorrere alle primarie per la successione al dimissionario Walter Veltroni dalla carica di segretario.

            Il rifiuto oppostogli dall’allora reggente Dario Franceschini, adesso capo della delegazione del Pd nel secondo governo Conte, fece andare su tutte le furie Grillo. Che se la legò al dito e organizzò in tutta fretta Grillo.jpega Bologna un comizio per “vaffanculare” -parola sua- il Pd e tutti gli altri partiti e seminare in piazza un suo movimento. Col quale adesso Zingaretti, dopo avere fatto un accordo di emergenza l’anno scorso per evitare elezioni anticipate a sicura vittoria del centrodestra a forte trazione leghista, vorrebbe farne altri non più di emergenza e forzati, ma ordinari, di prospettiva nazionale e periferica.

            Il forte vantaggio di De Luca sui concorrenti dipenderà, come scrive Nando Pagnoncelli sul Corriere della Vincdenzo De LucaSera, dalla sua “prorompente personalità”, in edizione originaria e in versione imitata da Maurizio Crozza in televisione, ma anche dalla sua dichiarata, netta contrarietà alla linea politica di Zingaretti. Che lui ha sfidato a sottoporre ad una verifica congressuale dopo l’imminente turno elettorale di settembre, e prima di quello dell’anno prossimo riguardante un bel po’ di Comuni italiani importanti, fra i quali Napoli.

            Grazie a De Luca, che è riuscito a raccogliere attorno alla propria candidatura ben 15 liste, rappresentative -ha scritto sempre Nando Pagnoncelli- di “segmenti sociali e politici molto variegati e trasversali”, il Pd ha conservato praticamente intatta la sua consistenza elettorale del 19 per cento tornando in testa alla graduatoria regionale e ricacciando i grillini dal 33,8 per cento delle elezioni europee dell’anno scorso al 17,2 valutato oggi. Non parliamo poi della Lega, scesa dal 19,2 delle europee di un anno fa al 3,3 per cento. Ma quel 19 per cento del Pd salirebbe addirittura al 31 col 12 per cento dei voti accreditati alla sola lista personale di De Luca, cresciuta di 7 punti e mezzo rispetto alle precedenti elezioni regionali.

 

 

 

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Il Parlamento bonsay già prodotto dai grillini prima del taglio dei seggi

Signore e signori del teatrino della politica italiana, in assenza degli spettacoli di Beppe Grillo, fermi un po’ per l’estate e un po’ per precauzione virale, ecco a voi il Parlamento bonsay che ha partorito Luigi Di Maio in una intervista al Corriere della Sera. Che pure sembrava dettata dalla buona intenzione di svelenire almeno un po’ il taglio dei seggi parlamentari sottoposto a verifica referendaria.

Perché -ha chiesto il ministro degli Esteri già capo del Movimento 5 Stelle ma obiettivamente più visibile del “reggente” Vito Crimi- dovremmo tacere dei “risparmi” che deriveranno da 345 seggi parlamentari in meno nelle nuove Camere grazie alla riforma così fortemente voluta da noi? Già, perché? A dire il vero, come ha appena confermato l’ex presidente del Consiglio Romano Prodi, che un po’ di conti li sa fare, almeno meglio di Di Maio, il risparmio sarebbe appena dello 0,007 per cento della spesa pubblica. Che sarebbe pari -hanno calcolato altri refrattari alle enfatiche calcolatrici grilline- ad un caffè al giorno per ogni italiano. Ma sempre di un risparmio si tratta, sostiene Di Maio.

Diamoglielo pure per buono a Di Maio e al suo movimento questo risparmio pur simbolico, più da tromboni che da trombe. Poi, magari, verranno altri risparmi tagliando, per esempio, le attuali indennità parlamentari, in una partita già annunciata dal ministro degli Esteri ma che forse si poteva giocare prima della riduzione dei seggi, e magari anche con effetto immediato, senza aspettare le Camere successive a quelle attuali. Ma sarebbe stata forse una partita più difficile. E’ più facile giocare contro quelli che non sono in campo, come è avvenuto con gli ex parlamentari ai quali sono stati tagliati i cosiddetti vitalizi, anch’essi con tanto di forbici esibite trionfalmente in piazza.

Ma più dei risparmi, che fanno storcere il naso a professori come Valerio Onida, deciso a votare sì ai tagli nel referendum del 20 settembre ma convinto anche che non si debba risparmiare sulle istituzioni, vale per Di Maio il fatto che con meno deputati e senatori potrà diventare finalmente efficiente e virtuoso il cosiddetto bicameralismo perfetto stabilito dall’articolo 72 della Costituzione. Che fu avventatamente messo in discussione, secondo lui, dalla riforma voluta nel 2016 dall’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi e fortunatamente bocciata nel referendum per niente confermativo che gli costò la guida del governo.

Se due Camere sovrapposte e ripetitive, con le stesse funzioni, in grado di palleggiarsi all’infinito ogni legge o leggina, non hanno funzionato bene e si guadagnarono già nel 1979 le critiche di Nilde Jotti, appena eletta al vertice di Montecitorio, ciò è avvenuto secondo Di Maio per il loro sovraffollamento. Una volta dimagrite, esse funzioneranno alla perfezione, alla faccia della buonanima della Jotti, dalla quale comunque Di Maio ha preso la parte del discorso di quasi 40 anni fa ancora comodo per lui: quella in cui si parlava anche della possibilità di ridurre il numero dei parlamentari, sia pure in un diverso contesto.

Ciò che a Di Maio sembra essere sfuggito, pur essendo egli stato vice presidente della Camera per l’intera legislatura scorsa ed essendo al governo ormai da due anni, è che il bicameralismo “perfetto” pensato dai costituenti nel 1947 si è letteralmente perso per strada in questa legislatura così orgogliosamente segnata dai grillini al sostanziale comando dell’esecutivo con Giuseppe Conte. Si è perso per strada perché per varie ragioni, o con vari pretesti, come preferite, prima per i tempi imposti dalle scadenze comunitarie a proposito delle leggi finanziarie o di bilancio e poi per le emergenze virali, il bicameralismo si è fatto via via meno perfetto, o più virtuale, se non addirittura finto.

Con frequenza sempre maggiore, fra le doglianze e infine proteste soltanto della presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, messa perciò alla berlina dal Fatto Quotidiano come una Regina Elisabetta all’italiana, il governo è ricorso alla cosiddetta questione di fiducia, decapitando emendamenti e dibattiti, per non far toccare palla ad uno dei due rami del Parlamento, costretto così ad approvare le leggi nel testo ricevuto dall’altro.

“Non far toccare palla” è esattamente l’espressione usata dalla presidente del Senato, giustamente insofferente della versione mini o bonsay del Parlamento che stiamo già sperimentando senza i tagli. Figuriamoci che cose ne sarà o potrà essere dopo, se il referendum del mese prossimo lo permetterà.

 

 

 

Pubblicato sul Dubbio

Quelle mascherine mancanti a Salvini e a Mastella, entrambi a Benevento

               Ben fatto, direi al sindaco di Benevento Clemente Mastella che ha fatto multare il leader della Lega Matteo Salvini sorpreso in pubblico senza mascherina nell’esercizio delle sue funzioni, diciamo così, di ospite della città campana  e di politico, peraltro ostile in questa contingenza politica all’ex ministro di vantata provenienza democristiana. Bisognerebbe farla finita con i Briatore e le Santanchè di turno in un periodo di perdurante epidemia o rischio virale.

            Ma con quella foto che sorprende anche lui senza mascherina, e le dovute distanze dai vicini, anche Mastella Mastella da multare.jpegdovrebbe invitare il comandante dei vigili urbani della sua Benevento  a fargli notificare una multa di 400 euro, giusto per essere seri ed equanimi. Non credo proprio che i due fiancheggiatori del sindaco ripresi nella foto siano suoi congiunti, nelle varie accezioni dei decreti del signor presidente del Consiglio dei Ministri, fortunatamente fermatesi sulla soglia dei congiuntivi.  

Quanto piace a Di Maio il bicameralismo “perfetto” criticato dalla Jotti

              Questa, poi, di difendere il “bicameralismo perfetto”, dimagrito di 345 seggi dai 645 elettivi quanti ne trovò arrivando a Montecitorio nel 2013, diventandone uno dei vice presidenti e scalando così il movimento grillino sino a diventarne il “capo”, l’abbronzatissimo Luigi Di Maio se la poteva risparmiare. Un po’ come lo strafalcione del generale Augusto Pinochet dittatore del Venezuela e non del Cile, o del nome storpiato al presidente della Cina per abbreviarlo, giusto per citare due errori o infortuni commessi per lo stesso motivo per il quale il ministro degli Esteri, già vice presidente del Consiglio, ministro dello Sviluppo Economico e del Lavoro, si è messo a difendere il bicameralismo perfetto dopo avere scomodato dalla tomba la povera Nilde Jotti per farne la madrina del taglio dei seggi parlamentari sottoposto a referendum. Il giovanotto -non se l’abbia a male- ha studiato e studia poco almeno alcuni dei problemi di cui si occupa.

             E’ vero. Nilde Jotti, la giustamente indimenticata deputata comunista dell’Assemblea Costituente, dove si legò anche sentimentalmente al segretario del partito Palmiro Togliatti, efficientissima Nilde Jiotti.jpege unanimemente apprezzata  presidente della Camera, presidente di una delle commissioni bicamerali impegnatesi in  una riforma non occasionale ma organica della Costituzione dopo decenni di applicazione rivelatori anche dei difetti, e non solo dei pregi, proprio insediandosi al vertice di Montecitorio nel 1979 sorprese anche il suo partito, un po’ troppo conservatore nel campo istituzionale, parlando del numero eccessivo dei parlamentari italiani. Ma lo fece senza sbandierare sagome e forbici, come avrebbe fatto dopo molti anni davanti al portone di Montecitorio Di Maio. Lo fece parlando nel contesto di una riforma ben più ampia della Costituzione e del Parlamento denunciando i danni sperimentati dalla sovrapposizione e ripetitività di due Camere aventi le stesse funzioni.

             Altro che la storia raccontata da Di Maio al Corriere della Sera, in una intervista raccolta da Alessandro Trocino, della “superficialità” del tentativo di “scaricare ingiustamente” sul sistema istituzionale”, compresa “l’assoluta parità tra Camera e Senato nel procedimento legislativo sancita Di Maio bicameralistadall’articolo 72 della Costituzione, le inefficienze di una classe politica frammentata”. Che pertanto diventerebbe d’incanto efficiente e non frammentata disponendo di 600 seggi parlamentari elettivi anziché 945: elettivi, poi, per modo di dire perché, abolita anche la preferenza unica voluta dagli elettori nel referendum del 1991 contro le preferenze plurime, e bloccando ormai a doppia mandata le liste dei candidati, i seggi sono in realtà nella disponibilità delle segreterie dei partiti o dei movimenti, come preferiscono chiamarsi quelli che si sentono più dotati e innovativi. E, ridotti, sarebbero ancora più controllabili e disciplinati.

            Bisognerebbe cominciare a chiedersi sino a quando Di Maio e i grillini, sostenuti dalle campagne del Fatto Quotidiano, continueranno I voltagabbana.jpegad abusare, con le loro Il no di Prodi.jpegimprovvisazioni, della nostra pazienza, come chiese ai suoi tempi Marco Tullio Cicerone a Lucio Sergio Catilina. Intanto essi incassano il no referendario ai tagli parlamentari anche di Romano Prodi: un falso “voltagabbana”, per stare al linguaggio del Fatto, non avendo egli votato la sforbiciata nel Parlamento di cui non fa parte.

 

 

 

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Matteo Renzi ci sta facendo “vivere da grillini” a sua insaputa

            Ha un nel dire e scrivere Matteo Renzi a Castrocaro Terme e dintorni, nelle lezioni su come “meritare l’Europa” e nelle lettere e-news ad amici, seguaci, militanti, simpatizzanti e finanziatori che, dopo aver Renzi a scuola.jpegloro risparmiato di “morire da sovranisti”, impedendo l’anno scorso le elezioni anticipate a sicura vittoria del centrodestra a trazione leghista, ora è impegnato di giorno e di notte a non condannarli a “vivere da grillini”. Con i quali, smettendo all’improvviso di mangiareScuola di Renzi le riserve di pop-corn acquistati dopo la batosta elettorale del 2018 per godersi lo spettacolo della loro partita con Matteo Salvini, spinse l’anno scorso il Pd di cui faceva ancora parte ad allearsi al governo appunto per evitare le elezioni anticipate e il ricorso alle urne. Cui diversamente il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, anche a costo di strappare con qualche consigliere, non avrebbe potuto sottrarsi, salvo forse guadagnare qualche altro mese con un governo tecnico, o giù di lì, magari affidato a Carlo Cottarelli, essendo ancora Mario Draghi impegnato al vertice della Banca Centrale Europea, per allestire o improvvisare la legge di bilancio imposta dalle scadenze costituzionali e dalla paura dei mercati finanziari.

            Dopo un anno ormai di governo con i grillini, per fronteggiare i quali, non fidandosi di Nicola Zingaretti al vertice del Pd, si era messo subito in proprio con Italia Viva, mettendo in mora ora questo ora quel ministro, salvo graziarli all’ultimo momento con mosse da capogiro, Renzi vorrebbe far credere agli amici che non si vive già da grillini, per usare le sue stesse parole. Come altro pensa di stare a vivere l’ex presidente del Consiglio con gli alleati in una maggioranza e combinazione ministeriale che sotto la guida di Giuseppe Conte è di fatto riuscita a trasformare in una corazza, o in un busto di gesso, la disgrazia della pandemia e della sua perdurante emergenza, tra alti e bassi, una sparata di virologo e una di discotecaro, un’indagine giudiziaria e l’altra, tra Bergamo e Roma?

            E’ ormai evidente a tutti che, per quanto in “travaglio”, al minuscolo, o in crisi d’identità esplosa col salasso delle elezioni europee e di quelle regionali e comunali successive; per quanto acefali con quel “reggente” scaduto in termini statutari dopo la rinuncia almeno formale di Luigi Di Maio all’incarico di “capo”; per quanto lacerati da ogni tipo di contrasti, politici e personali; per quanto insofferenti di Davide Casaleggio e della sua “piattaforma Rousseau”; per quanto abituatisi anche loro a ridere dei messaggi ed altri segnali di BeppeRenzi sul Corriere.jpeg Grillo, rimasto a corto di spettacoli anche per la paura dei contagi virali; per quanto insomma malmessi, i pentastellati conducono il gioco in Italia. Hanno imposto le loro “riforme”, prima a Salvini e poi al Pd, dalla prescrizione breve al taglio di 345 seggi parlamentari su 945 elettivi, e non hanno permesso nessuna delle misure compensative concordate: dalla riforma del processo penale, per renderne certi i tempi ed evitare che un imputato resti tale a vita, anche dopo essere stato paradossalmente assolto in primo grado, a quella dei regolamenti parlamentari, della legge elettorale e delle maggioranze qualificate per le cariche di garanzia, a cominciare da quella per la scelta del capo dello Stato.

            Il ruolo ormai giugulatorio dei grillini potrebbe addirittura rafforzarsi con la vittoria del sì al referendum del 20 settembre sul taglio ai seggi parlamentari, per quanto il risultato ad essi favorevole sembri ogni giorno di più meno scontato, almeno nelle dimensioni da loro immaginate grattando la pancia degli elettori.

 

 

 

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Il Nì in arrivo dal Pd al referendum sui tagli ai seggi parlamentari

            Il “Sì con libertà” del No che il segretario Nicola Zingaretti -secondo un titolo di prima pagina del manifesto- si accinge ad annunciare alla direzione del Pd in vista del referendum Zingaretti alla direzione Pdconfermativo del 20 settembre sui 345 seggi parlamentari tagliati dalla riforma imposta dai grillini negli accordi di governo è praticanente un Nì. E’ cioè qualcosa che non esiste in natura, e neppure nei dizionari della lingua italiana, ma esprime bene tutta l’ambiguità della situazione e della stessa prova  alla quale sono chiamati gli elettori. Che saranno prevedibilmente più numerosi nelle sette regioni in cui si voterà  fra meno di un mese anche per il rinnovo dei consigli regionali, per non parlare del rinnovo dei circa mille consigli comunali. Altrove l’affluenza sarà ben inferiore, non ostativa comunque della validità del risultato complessivo perché nei referendum confermativi non esiste la condizione pregiudiziale dei referendum abrogativi, che è la partecipazione della metà più uno degli aventi diritto al voto.

            Il Nì come soluzione di compromesso virtuale fra il Sì reclamato dai grillini, in ottemperanza agli accordi di governo di un anno fa, e il No reclamato o già annunciato da parecchi esponenti e anche dirigenti del Pd per reazione al mancato rispetto di altre parti di quegli accordi, relativi alla modifica compensativa dei regolamenti parlamentari, ad una nuova legge elettorale e a modifiche della Costituzione per una ridotta partecipazione dei delegati regionali all’elezione parlamentare del presidente della Repubblica; il Nì, dicevo, consentirà ad un Luigi Zanda.jpegautorevole senatore piddino come Luigi Zanda, già capogruppo a Palazzo Madama e tesoriere del partito, di votare per il No, come ha già annunciato di essere “orientato” a fare, senza con questo violare una indicazione o direttiva di partito. “Non l’ho mai fatto”, ha spiegato Zanda ottenendo subito da Zingaretti la pratica autorizzazione a farlo per la cornice ambigua -ripeto- della posizione da indicare alla direzione, visti gli adempimenti Zingaretti al Corriere .jpegsinora mancati degli accordi di governo. Su uno dei quali il segretario del Pd, parlando di una nuova legge elettorale proporzionale in una intervista al Corriere della Sera, ha fiduciosamente dichiarato ancora possibile il voto di almeno una delle Camere. Eppure siamo ormai a meno di un mese dal referendum.

            I malumori che attraversano anche il Pd -come altri partiti sia della maggioranza sia dell’opposizione di centrodestra- di fronte alla riduzione dei seggi parlamentari reclamato dai grillini con motivazioni anti-casta, per tagliare” poltrone” e spese intese come sperperi, anche se il risparmio consisterebbe in un caffè al giorno per ogni italiano, sono ben espressi in una vignetta donata al comitato dei promotori del referendum dal celebre vignettista Sergio Staino, già direttore della compianta Unità, la storica testata giornalistica del Pci fondata da Antonio Gramsci. Il presunto “80 per cento dei compagni del Pd” tentati dal Sì a un Parlamento fortemente ridotto risultano “contagiati da populismo”, grillino o di altra marca, secondo il militante Bobo, in cui Staino suole identificarsi.

 

 

 

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Il vulnus dei tagli ai seggi parlamentari è il Quirinale, generalmente ignorato

              Stupisce che il pur accresciuto dibattito sul taglio dei 345 seggi parlamentari su 945 sottoposto alla verifica referendaria del 20 settembre, per quanto abbia fatto segnare quello che Gazzetta.jpegGiuseppe De Tommaso ha felicemente definito sulla Gazzetta del Mezzogiorno “il fascino indiscreto del no”, ignori il principale vulnus politico e istituzionale di questa riforma fortemente voluta dai grillini. Che in Parlamento l’hanno imposta prima ai leghisti e poi, nel cambio della maggioranza di governo, al Pd che aveva votato contro nei primi tre dei quattro passaggi necessari fra Camera e Senato.

            Il vulnus si chiama Quirinale, dove il mandato di Sergio Mattarella scadrà nel 2022, per cui il nuovo presidente della Repubblica sarebbe condannato ad essere eletto, per rimanere in carica sino al 2029, da un Parlamento delegittimato proprio da una eventuale vittoria del sì nel referendum: il Parlamento pletorico, inefficiente  e troppo costoso che i grillini vorrebbero fosse bocciato  dagli elettori con le forbici del sì referendario ai tagli. D’altronde, fra le ragioni fondanti della maggioranza giallorossa realizzatasi a sorpresa l’anno scorso fu sfrontatamente indicata quella di eleggere nell’attuale, pletorico e inefficiente Parlamento il nuovo presidente della Repubblica, per evitare che a provvedervi fosse un altro prodotto da elezioni anticipate prevedibilmente vinte dal centrodestra, per giunta a trazione leghista.

E’ a dir poco disinvolta la lettura che fanno della figura del Presidente della Repubblica, e della sua funzione di garanzia fissata dalla Costituzione, i grillini e tutti coloro che, con varie motivazioni, continuano a sostenere la causa della sforbiciata parlamentare senza preventive o contemporanee correzioni di regolamenti, legge elettorale e maggioranze qualificate richieste oggi per passaggi fondamentali, fra i quali c’è anche l’elezione del capo dello Stato. Cui concorrebbero, per esempio, a Camere tagliate senza altri aggiornamenti gli stessi 60 delegati regionali richiesti in un Parlamento di 945 seggi elettivi e almeno cinque fra senatori a vita o di diritto qual è quello in carica.

            Mi chiedo quale rappresentanza politica e morale e quale  legittimità istituzionale potrà mai avere nel 2022 il nuovo capo dello Stato eletto dalle Camere attuali ma nella prospettiva di un Parlamento così diverso come quello derivante dalla vittoria del sì referendario. Almeno si abbia il coraggio, il buon gusto, la decenza politica -direi- di chiedere e ottenere Mattarellapreventivamente da Mattarella la disponibilità a farsi rieleggere con l’impegno di dimettersi alla nascita del nuovo Parlamento, l’anno dopo, perché possa essere il nuovo a scegliere il successore. Ma neppure ci provano a questo passaggio i disinvolti grillini, decisi con i voti di cui dispongono oggi a Montecitorio e a Palazzo Madana ad eleggere un presidente alla cui scelta potrebbero contribuire ben più modestamente dopo le prossime elezioni, quando essi sono i primi a sapere di non poter tornare con le generose percentuali del 2018.

            In questo quadro così devastante, opportunistico e compromesso meraviglia che un fine costituzionalista come Valerio Onida abbia appena sposato il sì al referendum pensando di Onida 1 .jpegsalvarsi l’anima col rifiuto Onida 2.jpegdelle motivazioni della riforma addotte dai grillini. Egli infatti “odia” addirittura “il taglio” vantato dai pentastellati e trova “fasulla” la ragione del “risparmio” perché giustamente “non si risparmia sulle istituzioni”. In un certo senso il fronte fascinoso del no dovrebbe essere grato a Onida per gli ottimi argomenti che gli ha fornito dal fronte del sì parlandone a Repubblica.

 

 

 

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In morte di Arrigo Levi, maestro coraggioso di giornalismo

Arrigo Levi, morto a 94 anni nella sua abitazione romana dove aveva voluto tornare apposta dall’ospedale in cui era ricoverato per spegnersi fra le sue cose, i suoi libri, i suoi quadri, consapevole che stesse appunto arrivando la fine di una vita così intensamente trascorsa, ha ricevuto dal giornalismo molto più di quanto non gli abbia dato. Lo dico nonostante egli avesse diretto la prestigiosissima Stampa dal 1973 al 1978, succedendo ad Alberto Ronchey, avesse fatto a più riprese l’inviato, il corrispondente da sedi importanti come Londra e Mosca anche per il Corriere della Sera, avesse lasciato il suo segno di giornalista televisivo alla Rai e alla Fininvest di Silvio Berlusconi, per non parlare delle sue collaborazioni con la stampa internazionale, a cominciare dal Times.

Levi avrebbe meritato ben più direzioni di quotidiani. E le avrebbe ottenute se solo avesse avuto un carattere meno forte. Con quello che invece aveva, e che non faceva proprio nulla per nascondere, gli editori-generalmente in Italia non puri ma rimediati, con interessi prevalenti in altri settori- tendevano più ad ammirarlo ed apprezzarlo, per carità, che ad assumerlo come direttore. Gianni Agnelli questo coraggio lo ebbe. E ne fu ricambiato perché negli anni di piombo il direttore della Stampa, in una città peraltro come Torino, seppe fronteggiare l’emergenza con lo stesso spirito combattente con la quale da ebreo italiano si era arruolato come volontario nell’esercito di Israele nella prima guerra in cui lo Stato fondato da Davide Ben Gurion nel 1948 rischiò di morire.

Arrigo Levi si era scelto come vice direttore al giornale della Fiat Carlo Casalegno, che le brigate rosse uccisero nel 1977 anche per intimidire lui, il direttore, scambiandolo evidentemente per quello che non era, pur con tutta la storia personale e familiare che aveva già alle spalle, compreso l’esilio antifascista del padre in Argentina.

Era stato Levi alla direzione della Stampa nel 1973 a chiamare per primo e ad ospitare come collaboratore -e che collaboratore- Indro Montanelli appena licenziato dal nuovo direttore del  Corriere della Sera Piero Ottone. Al quale Giulia Maria Crespi aveva affidato il compito di spostare a sinistra il giornale più tradizionale e diffuso della borghesia lombarda e nazionale.

Proprio dalle colonne del Corriere  Giovanni Spadolini, aiutato poi dallo stesso Montanelli a passare alla politica nelle liste del Pri di Ugo La Malfa per rasentare nel 1992 il Quirinale, aveva cercato di contrastare la rassegnazione  o paura o smania, secondo i casi, di una corsa a sinistra.

Dalla finestra della Stampa Montanelli era riuscito a rimanere affacciato sui suoi lettori preparando l’avventura del Giornale nuovo, ad acquistare le cui copie in edicola per un bel po’ di tempo si rischiava fisicamente. Montanelli d’altronde sarebbe entrato pure lui nel mirino delle brigate rosse, per fortuna non lasciandovi la vita.

La fermezza di carattere, la puntigliosità con la quale preparava i suoi articoli e le sue trasmissioni, o ne ordinava agli altri controllandone l’esecuzione, non hanno mai fatto perdere a Levi apertura e generosità ai colleghi, specie i più giovani. Ne sono  testimone per un incontro avuto con lui quando, nominato direttore editoriale di Video news, la struttura della Fininvest cui faceva capo un suo celebre settimanale televisivo, ebbi occasione d’incontrarlo. Certo, le nostre opinioni politiche non erano proprio uguali. A me piaceva la politica fortemente autonomista e anticomunista di Bettino Craxi, a lui meno o per niente, pur avendo collaborato da giovane -mi raccontò lui stesso- alla rivista socialista Critica Sociale diretta allora da Guido Mondolfo. Ebbi la sensazione però che di Craxi a Levi non piacesse il temperamento, più che la politica. E debbo dire, onestamente, che Bettino faceva poco per  rendersi più simpatico, o meno antipatico, come preferite.

Sono sicuro, a tanti anni di distanza, che se Levi e Craxi, o viceversa, avessero avuto l’occasione, la voglia e quant’altro di parlarsi e confrontarsi direttamente, come capitò a me quella volta di fare con Levi parlando proprio di Craxi e della sua politica, si sarebbero intesi, o scoperti meno lontani o più vicini.

Lasciatemi scrivere, a conclusione di questo ricordo personale, che non mi è piaciuta l’enfasi con la quale in memoria di Arrigo Levi ho sentito parlare in televisione dell’esperienza ch’egli ha avuto, dopo la sua lunga avventura professionale, di consigliere di ben due presidenti della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano. Che hanno potuto avvalersi della sua esperienza, della sua cultura, del suo cosmopolitismo, con quelle quattro lingue in cui parlava e scriveva correntemente, e con la trentina di libri che ha scritto. Ma, con tutto il rispetto dovuto al Quirinale e ai suoi inquilini, il vero mestiere, la vera passione di Arrigo Levi è stata quella del giornalismo, scritto e parlato. Da cui -ripeto- egli ha ricevuto meno, molto meno di quello che ha dato.

Addio, maestro, come pensai alla morte di Montanelli dopo le stagioni della scuola, leggendone articoli e libri, della collaborazione al Giornale e della separazione professionale avvenuta per una diversa lettura della politica di Craxi, di cui anche Montanelli, come Levi, diffidava più per temperamento che per altro.

 

 

 

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