Nell’uovo di Pasqua una mediazione di Berlusconi fra Salvini e Di Maio

            Se fosse vero, sarebbe uno scoop clamoroso, la sorpresa dell’uovo di Pasqua. E’ l’annuncio di un Silvio Berlusconi ancora più sorprendente del solito, disposto o addirittura già impegnato in una “mediazione” fra il suo alleato Matteo Salvini e Luigi Di Maio per la formazione di un governo e/o di una maggioranza composta dal centrodestra e dai grillini. Che pure solo a sentire pronunciare il nome dell’ex presidente del Consiglio inorridiscono, o fingono di inorridire, pur avendo contribuito in modo decisivo all’elezione della berlusconiana Maria Elisabetta Alberti Casellati alla presidenza del Senato.

         La Casellati, si sa, è subentrata all’ultimo momento alla candidatura, troppo indigesta ai grillini, del capogruppo uscente di Forza Italia Paolo Romani, macchiato in modo politicamente indelebile da una condanna ancora indefinita per peculato di modesta entità, ma pur sempre peculato. Mai un telefonino a carico di una pubblica amministrazione è costato tanto a chi lo ha lasciato indebitamente usare da una figliola minorenne.

            L’annuncio della mediazione di Berlusconi, tempestivo anche rispetto alle consultazioni che si apriranno il 4 aprile al Quirinale, dove forse il presidente forzista potrà riferirne al capo dello Stato sollevandolo dalle inquietudini di una crisi di governo formalmente apertasi nel buio più completo con le dimissioni di Paolo Gentiloni, è stato dato dal Quotidiano Nazionale del gruppo Monti Riffeser. Che racchiude tre testate storiche come Il Giorno, il Resto del Carlino e La Nazione, nel loro ordine geografico, dal Nord in giù.

            Complementare all’annuncio di questa notizia può essere considerato un editoriale di Bruno Vespa, sugli stessi giornali, in cui Berlusconi è iscritto d’ufficio alla categoria degli “imbucati alla festa”. Ai quali può capitare, quando sono bravi davvero, di essere tanto disinvolti da essere scambiati anche dal padrone di casa per invitati davvero, se non addirittura -come nel caso di Berlusconi- per l’invitato più importante, o più utile agli affari di famiglia.

L'imbucato.jpg          Vespa peraltro conosce e frequenta come pochi l’ex presidente del Consiglio, al quale si è prestato due volte come notaio dei suoi contratti con gli elettori conducendo Porta a Porta, la famosa trasmissione televisiva di Rai 1 promossa dal compianto Giulio Andreotti a “terza Camera”, preferita spesso dai politici alle due contemplate dalla Costituzione per anticipare umori, opinioni, svolte e quant’altro.

            In contemporanea con l’annuncio della mediazione di Berlusconi fra leghisti e grillini è arrivata una previsione dell’ex vice presidente della Camera Roberto Giachetti, renziano, anzi renzianissimo. Il quale in una intervista ha invitato quei colleghi di partito, il Pd, smaniosi di uscire dal ghetto dell’opposizione, o addirittura dall’Aventino dove li avrebbe relegati Matteo Renzi prima di dimettersi da segretario e di buttare la chiave, a non farsi illusioni sulla inevitabilità di una rottura del dialogo, a dir poco, in cui sono impegnati Salvini e Di Maio, o viceversa.

            I grillini -ha avvertito Giachetti- “digeriranno” alla fine anche il rospo Berlusconi, imbarcandone ministri e quant’altro, come hanno fatto con la Casellati alla presidenza del Senato, dimenticandone la difesa sempre fatta del capo del suo partito nei processi e dintorni.

            Berlusconi, dal canto suo, si è già vantato molte volte di sapere essere concavo o convesso, secondo le convenienze. E che lui avverta l’interesse a “rimanere in campo ad ogni piatto” lo ha appena scritto sul Giornale di famiglia il direttore Alessandro Sallusti in un editoriale, guarda caso, soddisfatto della capacità che i grillini stanno dimostrando di essere “realisti”. Se non è la stessa zuppa, pur polemica, del renziano Giachetti, è pan bagnato, magari nel latte che gli avvocati di Berlusconi hanno chiesto alla magistratura milanese di versare concedendo al loro cliente la riabilitazione prevista per chi ha già finito di scontare da tre anni la pena a suo tempo inflittagli. E onorata dall’ex presidente del Consiglio, colpevole di frode fiscale secondo la Cassazione, con i cosiddetti servizi sociali in un ospizio della Brianza.     

           

Papa Francesco lava i piedi ai detenuti. Franceschini inumidisce quelli del Pd

              Mentre il Papa lavava umilmente i piedi ai detenuti onorando i riti quaresimali, il ministro uscente dei beni culturali Dario Franceschini cercava di togliere dai piedi del suo partito, il Pd, le scarpe e le calze del pur ex segretario Matteo Renzi. E ciò per farlo camminare a piedi scalzi sulla strada del soccorso al progetto del governo grillino impantanatosi nella palude del centrodestra. Dove il leghista Matteo Salvini resiste oltre le previsioni dell’aspirante premier delle 5 stelle, Luigi Di Maio, ai  veti personali e politici contro il coinvolgimento dell’odiatissimo Silvio Berlusconi. Che è un alleato ancora utile al Carroccio.

            Franceschini, già insofferente verso Renzi quando ne era ancora segretario, pur avendolo aiutato cinque anni fa nella scalata al vertice del partito, ha colto l’occasione offertagli da un’assemblea dei deputati piddini per reclamare una verifica, diciamo così, della linea del partito prima dell’incontro di Mattarella con i suoi rappresentanti nelle consultazioni della settimana prossima al Quirinale. E’ una verifica che, non bastando evidentemente le decisioni già assunte dalla direzione, dove la scelta renziana di opposizione sia a grillini sia ai leghisti dispone di una larga maggioranza, Franceschini immagina più facile in un’assemblea congiunta dei deputati e senatori del Pd. Alla quale, almeno sino ad ora, non sembra però disponibile il segretario temporaneo Maurizio Martina, convinto come il coordinatore Lorenzo Guerini che un riesame della situazione politica potrà essere programmato solo dopo, e non prima delle consultazioni del capo dello Stato.

            Con la solita, felice immaginazione che lo distingue dalla ormai lontana fondazione il Manifesto, quotidiano ancora orgogliosamente comunista, ha tradotto col titolo-copertina della sua prima pagina nell’Uomo di Pasqua l’uovo che Franceschini, spalleggiato pubblicamente dal collega di governo Andrea Orlando, ha cercato di rifilare a Renzi e, più in generale, al Pd con la sua sorpresa politicamente perfida incorporata.

Rivolta di  Franceschini.jpg

            Più sbrigativamente ed esplicitamente, e più interessato alla questione per il ruolo un po’ di garante e di sorvegliante del movimento delle 5 stelle che condivide con Beppe Grillo sul terreno mediatico, il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio ha trionfalmente annunciato in apertura del giornale una clamorosa “Rivolta anti-Renzi” esplosa nel Pd. Dove gli ha fatto un po’ da spalla sulla prima pagina di Repubblica il politologo Piero Ignazi denunciando “la bufala delle dimissioni” di Renzi, che continua a dettarne o condizionarne la linea di opposizione, responsabile a parole ma pregiudiziale nella sostanza, a qualsiasi combinazione di governo comprensiva di grillini o leghisti, peggio ancora se insieme.

            E’ da settimane che Travaglio diffida Di Maio dal perseguire intese di governo col centrodestra, o solo con la Lega, preannunciandogli sciagure elettorali, e lo esorta a cercare invece accordi col più debole e forse anche omogeneo Pd. Cui tuttavia Di Maio ha continuato a riservare schiaffi più che altro, avendolo appena escluso anche a Montecitorio, oltre che al Senato, dagli uffici dei questori. Che hanno particolare rilevanza nella gestione delle Camere.

            Liturgicamente di passione per i credenti, questa settimana lo è per il Pd sul piano politico, in una Quaresima cominciata con i risultati elettorali del 4 marzo, che lo hanno “respinto all’opposizione”, secondo le parole pronunciate all’esordio della nuova legislatura nel discorso pronunciato nell’aula di Palazzo Madama dal presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano in veste di senatore anziano, e perciò di presidente temporaneo dell’assemblea, prima che le subentrasse Maria Elisabetta Alberti Casellati. Che intanto ha colto l’occasione offertale da un’intervista del Corriere della Sera per lamentare la pratica dei veti in politica, con chiara allusione a quello posto dai grillini contro il suo partito e il suo leader, Berlusconi.

            Non è per niente detto che la settimana di Passione sia destinata a finire per il Pd con la Resurrezione in arrivo nelle chiese, e negli animi dei fedeli. E non sia invece condannato dalle circostanze, il Pd, a soffrire le pene dell’inferno dell’opposizione, pur “rigeneratrice” nella convinzione dei renziani. Un inferno curiosamente soppresso sul piano anche religioso da Eugenio Scalfari nel riferire il pensiero appena raccolto in una udienza privata dal Papa, che però si è sentito frainteso e lo ha fatto smentire.

 

Mattarella rinvia la partenza delle consultazioni, di notte e a fari spenti

            Annunciate per martedì 3 aprile, la prima giornata lavorativa dopo le feste di Pasqua e Pasquetta, le consultazioni al Quirinale per la soluzione della crisi apertasi con le formali dimissioni del governo di Paolo Gentiloni cominceranno invece mercoledì 4. Sarà trascorso allora un mese esatto dalle elezioni politiche del 4 marzo.

            Un rinvio di ventiquattro ore è certamente modesto. Eppure è un segno del buio pesto nel quale si muove la diciottesima legislatura. E che non incoraggia certamente il presidente della Repubblica alla fretta, già di suo estranea al suo temperamento, Anzi, Sergio Mattarella ha già messo nel conto almeno due turni di consultazioni, senza ricorrere per il secondo agli espedienti passati delle esplorazioni affidate al suo supplente, cioè il presidente del Senato, o ad altri, come il presidente della Camera.

            Di un nuovo governo, appunto per il buio pesto, non si vede neppure l’ombra, anche se i giornali ne anticipano o immaginano a iosa. E il candidato grillino a Palazzo Chigi, Luigi Di Maio, ne vede invece solo uno, di composizione incerta, anzi incertissima, ma comunque presieduto da lui, e non da altri, perché così avrebbero deciso gli elettori. Dei quali invece si si sa solo che un terzo ha votato per il movimento delle 5 stelle e due terzi contro. Tanto è vero che ai grillini mancano un centinaio di seggi parlamentari per poter fare da soli, come ricorda un giorno sì e l’altro pure a Di Maio l’interlocutore più assiduo che risponde al nome di Matteo Salvini. E di cui pure il capo grillino in assoluto, che è Beppe Grillo, va parlando in giro come dell’uomo più affidabile in circolazione al di fuori del movimento pentastellare.

            Ma Salvini, per quanta fiducia abbia in lui Grillo e per quanta diffidenza o paura ne abbia invece Silvio Berlusconi, non intende rinunciare all’alleanza con l’ex presidente del Consiglio indigesto a Di Maio. Che ne fa addirittura una questione d’igiene politica, non gradendo incontrarlo, e neppure rispondere a qualche sua telefonata. Che invece Berlusconi sarebbe pronto a fargli, se gli fosse garantita una risposta.

            La diffidenza di Berlusconi verso l’alleato leghista, già accusato una volta di tradimento dopo le elezioni con un comunicato ufficiale, pur rientrato nel giro di mezza giornata, si evince anche dalla decisione attribuita al presidente di Forza Italia di partecipare autonomamente, con le due donne appena insediate ai vertici dei suoi gruppi parlamentari, e forse anche con qualche altro consigliere, al rito delle consultazioni al Quirinale. Dove pertanto la coalizione di centrodestra -che pure si vanta di aver vinto le elezioni più ancora dei solitari grillini, disponendo insieme di più seggi parlamentari di loro, oltre ad avere raccolto nelle urne più voti-  si presenterà in ordine sparso. Toccherà poi a Mattarella decifrarne gli umori.

            Alla partecipazione alla sfilata nello studio del capo dello Stato, peraltro, Berlusconi ha attribuito un obiettivo di solito estraneo a questo rito: quello della sua piena legittimazione politica, in attesa della riabilitazione chiesta l’8 marzo scorso per l’esaurimento della pena inflittagli cinque anni fa per frode fiscale, e poi della pronuncia della corte europea dei diritti umani sul suo ricorso contro l’incandidabilità comminatagli sino all’anno prossimo con l’applicazione retroattiva della cosiddetta legge Severino.  

            Al Quirinale, in verità, Berlusconi si è già affacciato altre volte dopo la ridotta agibilità politica. Ma questa volta la presenza gli preme più di altre un po’ per rifarsi dello smacco subìto col soprasso elettorale ad opera dei leghisti e un po’, a leggere certe cronache, dalla voglia che gli è tornata di prenotare per sé direttamente, condizioni politiche e non politiche permettendo, un adeguato Ministero. Che non potrebbe che essere quello degli Esteri per la competenza e le conoscenze internazionali che vanta. Ma non ditelo, per favore, a Di Maio e a Grillo perché quelli uscirebbero pazzi. E non potrebbero neppure cambiare interlocutori, dal centrodestra alla sinistra, perché hanno appena litigato col Pd per la spartizione delle vice presidenze parlamentari e degli uffici di questori e segretari.   

La sponda nel Pd che Di Maio cerca o minaccia per fare il governo

Gli antirenziani nel Pd, palesi o occulti che siano,  debbono essere ridotti molto male se hanno cantato vittoria e partecipato al rito sempre sospetto ed equivoco delle acclamazioni per portare alla guida del nuovo e dimagrito gruppo della Camera il ministro uscente Graziano Delrio. Che sarebbe renziano sì, ma meno di Lorenzo Guerini, ritiratosi dalla corsa alla quale aveva partecipato sui giornali. Meno renziano di Guerini e “diversamente renziano” da Andrea Marcucci, il presidente del nuovo gruppo del Senato, di cui fa parte Matteo Renzi in persona, una delle più curiose matricole del Parlamento, avendo già fatto il presidente del Consiglio, oltre che il segretario del partito. E avendo tentato da capo del governo di tagliare le unghie, e anche di più, proprio al Senato con una riforma da lui stesso annunciato nell’aula di Palazzo Madama, quando avvertì incautamente che la fiducia in arrivo alla sua squadra ministeriale sarebbe stata l’ultima nella storia di quel ramo del Parlamento.

            Per quanti sforzi faccia, di memoria e di intelligenza, non riesco a ricordare o a cogliere fatti ed elementi di diversità davvero significativa fra Renzi e il suo ex sottosegretario a Palazzo Chigi, traslocato all’improvviso al Ministero delle Infrastrutture, al posto del dimissionario o dimissionato Maurizio Lupi, non certo per punizione.

            Sì, è vero. In un fuori onda televisivo, mentre si consumava la scissione del Pd con l’uscita di Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e compagni, sicuri di poter raccogliere l’anno dopo nelle urne un bottino di voti a due cifre, anziché il poco più del 3 per cento del 4 marzo scorso, Delrio si lamentò che Renzi non si fosse speso abbastanza per evitare la rottura. Ma se ne lamentò nella presunzione del tutto sbagliata, poi riconosciuta come tale anche da lui, Delrio, che gli avversari di Renzi fossero ancora trattenibili, trovandoselo ancora di fronte nel partito dopo avergli fatto perdere il referendum sulla riforma istituzionale.

            E’ una diversità ben strana da Renzi quella del nuovo capogruppo del Pd alla Camera che ha esordito assicurando gli intervistatori televisivi che i suoi parlamentari, per le competenze che hanno, sapranno fare bene il lavoro di “opposizione” che li attende. E così rispondendo all’aspirante grillino a Palazzo Chigi Luigi Di Maio, che proprio in quelle ore si scontrava a distanza col segretario leghista Matteo Salvini proprio sul tema dei rapporti col Pd.

            Salvini, si sa, del Pd non vuole sentir parlare come socio di una nuova maggioranza di governo e respinge al mittente le pregiudiziali dei grillini contro eventuali ministri, politici o tecnici, designati da Berlusconi. E consiglia a Di Maio di rinunciare a Palazzo Chigi, al pari di lui, per facilitare la soluzione della crisi dopo i veleni inevitabili della lunga campagna elettorale cominciata praticamente all’indomani della bocciatura referendaria della riforma costituzionale di Renzi. Di Maio invece è pronto anche a rovesciare la maggioranza sperimentata con Salvini per l’elezione dei nuovi presidenti delle Camere, con una berlusconiana al Senato e un grillino a Montecitorio, pur di formare lui il governo,  sperando in un soccorso del Pd. Delrio gli ha già risposto. Di Marcucci, al Senato, è bastato il silenzio, tanto evidente e riconosciuto è il suo renzismo d’opposizione ai vincitori delle elezioni. O “prevalenti”, come preferisce chiamarli il più prudente ma non meno diffidente presidente della Repubblica.   

La ricetta di Napolitano inascoltata per contenere la protesta grillo-leghista

Da modesto e anziano osservatore politico vorrei cortesemente dissentire dal forte giudizio negativo, espresso forse sul piano più sociologico che altro, dall’autorevole Alberto Abruzzese sul discorso col quale, da presidente anziano e perciò provvisorio del Senato, Giorgio Napolitano ha inaugurato venerdì scorso la diciottesima legislatura. Un discorso “invadente e scorretto”, lo ha definito Abruzzese facendo involontariamente da sponda -credo- all’accusa rivolta al presidente emerito della Repubblica da Marco Travaglio, sul Fatto Quotidiano, di avere scoperto con ritardo la dirompente realtà dei grillini. Che Napolitano, quando era al Quirinale, si rifiutò di riconoscere come un “boom”, dicendo di ricordare solo quello economico degli anni Cinquanta e Sessanta, non altro.

Mi è sembrato di capire che, memore della comune esperienza comunista, Abruzzese non abbia ancora perdonato a Napolitano e agli altri dirigenti del Pci neppure le distanze, chiamiamole così, prese dalla contestazione giovanile del 1968. Nella cui valutazione riuscì ad essere più aperto nella Dc Aldo Moro, che pure ne era stato in qualche modo vittima avendo appena perduto nella primavera di quell’anno la presidenza del Consiglio con la crisi post-elettorale di governo. Una crisi paradossalmente gestita, con la complicità di Giuseppe Saragat al Quirinale, dai “dorotei” democristiani accortisi  all’improvviso della necessità di spostare più a sinistra gli equilibri politici. Sarebbe infatti nato da quella crisi il centrosinistra “più incisivo e coraggioso”, non più delimitato a sinistra, come lo definì il nuovo presidente del Consiglio Mariano Rumor. Che dalla segreteria della Dc sino a pochi mesi prima aveva trattenuto Moro dalla tentazione di concedere agli alleati socialisti, per esempio, i fondi necessari alle pensioni sociali. O un’inchiesta parlamentare sui servizi segreti, dopo le deviazioni emerse nell’estate del 1964, quando Pietro Nenni aveva avvertito nei suoi diari “rumori di sciabole” su una crisi di governo provocata sul terreno dell’istruzione dai settori più moderati dello scudo crociato. Avvenimenti lontani, d’accordo, ma pur sempre utili a capire quanto difficile e tormentato sia sempre stato il percorso della sinistra in Italia.

Secondo Abruzzese, o quanto dal suo articolo sul Dubbio mi è parso di capire, “l’incapacità di pensiero estremista” da parte di Napolitano e degli altri dirigenti del Pci di allora finì per “accendere la miccia di nuovi estremismi fuori controllo”, sino agli sbocchi terroristici degli anni Settanta e Ottanta. La stessa incapacità avrebbe avuto l’anziano Napolitano cinque anni fa valutando il fenomeno grillino e costituendo le premesse di una sua ulteriore crescita, scoprendone in ritardo tutta la carica protestataria con i risultati delle elezioni del 4 marzo scorso. E spingendosi tanto avanti, o indietro, indifferentemente, da farsi scappare nell’aula del Senato quel già ricordato intervento “invadente e scorretto”. Di cui fa parte anche quel Pd “respinto all’opposizione”, ha detto Napolitano pensando, con spirito appunto invadente, a quei settori dello stesso Pd che sarebbero disposti ad offrire ai grillini un’alternativa alla tentazione di un rapporto privilegiato con la Lega di Matteo Salvini e, più in generale, con il centrodestra sperimentato nell’elezione dei nuovi presidenti delle Camere.

Diversamente da Abruzzese, e ancor più da Travaglio naturalmente, non ritengo che Napolitano avesse troppo snobbato il fenomeno grillino alla sua esplosione, nelle elezioni del 2013. Pur negando ai pentastellati il famoso boom, forse per un eccesso di civetteria intellettuale o per una reazione troppo orgogliosa a persone che già avevano preso a dileggiarlo, l’allora capo dello Stato individuò perfettamente le ragioni della protesta che aveva alimentato elettoralmente il movimento fondato dal comico genovese. Penso, fra l’altro, al rovesciamento sui partiti di governo del mancato funzionamento del sistema istituzionale, ormai obsoleto alla luce dei cambiamenti intervenuti dopo l’approvazione della Costituzione, alla fine del 1947.

Da politico consumato, l’allora presidente della Repubblica avvertì che la bocciatura di una intera classe dirigente e parlamentare come “casta”, chiusa nei suoi “privilegi”, nasceva da quella specie di aterosclerosi istituzionale che si era creata col vecchio e superatissimo sistema bicamerale curiosamente chiamato perfetto. Perfetto poi in che cosa se non nell’allungamento dei tempi necessari ad un’attività legislativa al passo con i tempi e ad un rapporto efficiente tra Parlamento e governo, tra potere legislativo ed esecutivo?  Per non parlare di tutte le altre magagne accumulatesi negli anni, comprese quelle riguardanti la giustizia e, più in particolare, i rapporti tra politica e magistratura.

Piuttosto che assecondare, enfatizzandola, la protesta fine a stessa e accreditare una nuova e un po’ troppo improvvisata classe dirigente, che scambiava il Parlamento per il bivacco di memoria fascista o per una scatola di tonno da aprire, e  aspirava ad uscire dall’euro con un referendum, Napolitano rilanciò con forza il tema da lui sostenuto da tempo di una riforma istituzionale. E impedì coerentemente all’allora segretario del Pd Pier Luigi Bersani, cui non aveva potuto negare dopo le elezioni un incarico per la formazione del nuovo governo, anzi un pre-incarico, valutando giustamente con grande prudenza la situazione, di presentarsi alle Camere con una squadra ministeriale baldanzosamente definita “di minoranza e di combattimento”, forte di una maggioranza a Montecitorio, grazie ad un “premio” elettorale peraltro destinato ad una bocciatura della Corte Costituzionale, e appesa al Senato agli umori imprevedibili dei grillini. E tutto questo solo in odio, preconcetto e assoluto, di Silvio Berlusconi, allora non  condannato ancora per frode fiscale con una sentenza della Cassazione emessa rincorrendo con una sezione feriale i termini della prescrizione.

Rieletto al Quirinale, unico tra tutti i presidenti della Repubblica, dopo la bocciatura di entrambi i candidati messi in pista da Bersani per la sua successione, prima Franco Marini e poi Romano Prodi, un Napolitano ancora più franco e nervoso del solito scudisciò quasi letteralmente le Camere reclamando una riforma istituzionale finalmente radicale, e minacciando le dimissioni se non ne avesse visto l’avvio. Al quale provvidero il governo delle cosiddette larghe intese presieduto da Enrico Letta e poi quello di Matteo Renzi, dalle intese meno larghe ma dalla guida più ferma, che forse non guastava al punto in cui erano arrivate le cose.

Se la riforma targata Renzi, che incideva finalmente sul bicameralismo paritario, variante del perfetto, ed era completata da una riforma elettorale davvero maggioritaria, col ballottaggio finale e decisivo che garantisse un sicuro vincitore, fece nelle urne referendarie del 4 dicembre del 2016 la fine miserrima a tutti nota, la colpa non fu certo di Napolitano. La colpa fu dei partiti che non seppero stare insieme dall’inizio alla fine del percorso riformatore;  della personalizzazione del referendum incautamente provocata da Renzi, e riconosciuta troppo tardi per porvi rimedio; della disinvoltura con la quale Berlusconi a destra e Massimo D’Alema a sinistra si ritrovarono nel fronte del no insieme con i grillini, non certo interessati ad un cambiamento delle cose che svuotasse le loro proteste, e infine degli elettori che caddero nelle trappole dei pifferai.

Sì, lo so. Ho scritto una cosa generalmente considerata sacrilega. C’è gente convinta che gli elettori abbiano sempre ragione, come i clienti ai banchi del mercato. Ma anche gli elettori possono sbagliare scartando il buono per inseguire il meglio. Fu semplicemente deriso chi sostenne in quella sciagurata campagna referendaria che una riforma difettosa potesse essere poi migliorata, e fosse quindi preferibile ad una riforma mancata.

Gli effetti di quella scelta referendaria si sono riversati nelle elezioni politiche del 4 marzo, nei suoi risultati e nelle incerte, assai incerte prospettive delle consultazioni che il capo dello Stato condurrà dalla settimana prossima per la formazione di un nuovo governo: il primo e spero non ultimo di una legislatura brevissima.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

Matteo Salvini non fa più il garibaldino, Luigi Di Maio invece sì

              La versione antigaribaldina che Matteo Salvini si è guadagnato negando di considerare “la morte come alternativa” all’obiettivo di Palazzo Chigi da lui stesso datosi nella campagna elettorale, sicuro di sorpassare -com’è poi avvenuto- il partito di Silvio Berlusconi nella coalizione di centrodestra, ha naturalmente scatenato illusioni o speranze, secondo i gusti, in direzione di un governo grilloleghista, con o senza il companatico a sorpresa di qualche ministro azzurro, cioè di Forza Italia, e magari anche dei Fratelli d’Italia. Sarebbe la proiezione della larga maggioranza con la quale sono stati eletti alle presidenze delle Camere la forzista, appunto, Maria Elisabetta Alberti Casellati e il pentastellato Roberto Fico.

            Prima ancora che Salvini ripudiasse come modello il grido garibaldino Roma o morte inciso sul monumento che troneggia ancora al Gianicolo, un sarcastico o sadomaso Giuliano Ferrara, che divide le sue simpatie fra Berlusconi, di cui fu nel 1994 il ministro dei rapporti col Parlamento, e Matteo Renzi, da lui battezzato laicamente delfino dell’uomo di Arcore con la formula del “royal baby”, aveva messo in pista per la guida di un governo grilloleghista Giovanni Flick. Che somma diverse qualità, tutte utili al bisogno: già ministro della Giustizia di Romano Prodi, già presidente della Corte Costituzionale e già corteggiato come consulente dalla sindaca grillina di Roma Virginia Raggi. Della quale Dio solo sa quanto bisogno abbia di consiglieri per portare a termine indenne il suo primo ma anche unico mandato capitolino, avendo la signora annunciato di non volere ricandidarsi all’improba impresa di guidare la Capitale d’Italia.

            A parte l’appena confermato proposito, direi garibaldino a questo punto, del pentastellato Luigi Di Maio di dirigere lui il governo con tutti quei voti che il suo partito ha preso alle elezioni, non so se alle qualità note di Flick, sempre per la guida di una formazione ministeriale  grilloleghista, si possa aggiungere quella ancora ignota, ma pur sempre essenziale, del gradimento del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. I cui ultimi umori nei riguardi di una simile soluzione politica della crisi di governo, apertasi formalmente con le dimissioni di Paolo Gentiloni, non risultavano molto incoraggianti dalle ultime informazioni fornite sul Corriere della Sera dall’assai qualificato quirinalista Marzio Breda. Che ci ha recentemente riferito, in particolare, della diffidenza del capo dello Stato per un governo non solo dai numeri parlamentari certi, ma anche dal programma chiaro e compatibile con gli impegni internazionali e dalla durata non a termine, proiettato perciò sulla durata dell’intera legislatura: tutte cose francamente da verificare, a dir poco, nelle non brevi né imminenti consultazioni che Mattarella condurrà prima di conferire l’incarico e poi di nominare davvero il presidente del Consiglio.

            Direi, quindi, di andare ancora piano, molto piano con le previsioni, non foss’altro per valutare gli sviluppi della situazione all’interno dei due partiti più problematici per la formazione di un governo o di una maggioranza del genere come sono quelli di Grillo e di Berlusconi, che soffrono pur sempre di orticaria l’uno per l’altro, a parte la pomata usata per alleviare le scelte dei vertici parlamentari.

          Ma  va anche seguìto il Pd, dove non è per niente detto che continui a prevalere, specie di fronte ad eventuali appelli alla responsabilità o solidarietà nazionale da parte del capo dello Stato, la linea di opposizione lasciata in eredità dall’ex segretario dimettendosi. E’ un’opposizione peraltro alla quale il presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano, inaugurando al Senato la diciottesima legislatura, e pur dopo valutazioni critiche sull’innominato Renzi, ha detto che il Pd è stato “respinto all’opposizione dagli elettori” direttamente. Deve pertanto apparire difficile all’ex capo dello Stato fargli ambiare posizione.

Quel soccorso di Matteo Renzi mancato a Silvio Berlusconi

            Se è vero, come lo è, che ad uscire sconfitto dalle elezioni del 4 marzo fu Renzusconi, cioè il progetto di un nuovo patto del Nazareno fra Renzi e Berlusconi, da tutti intravisto o avvertito dietro le smentite degli interessati dettate da ragioni di opportunità durante la campagna elettorale, va riconosciuto che la nuova legislatura si è aperta, a dispetto delle apparenze, peggio per Berlusconi che per Renzi.

            Berlusconi è riuscito a portare la fedelissima Maria Elisabetta Alberti Casellati alla presidenza del Senato, come si è appena vantato in una intervista al Corriere della Sera, ma al prezzo salatissimo, sul piano politico e umano, di un ulteriore rafforzamento, all’interno del centrodestra, del segretario leghista Matteo Salvini. Che gli ha praticamente imposto la rinuncia alla candidatura di Paolo Romani, coltivata e posta dallo stesso Berlusconi nella prospettiva neppure tanto nascosta di farla passare, nonostante i veti grillini, grazie al soccorso di Renzi, con la riesumazione quindi del già ricordato Renzusconi.

            Oltre che per le pur forti resistenze di Salvini, interessato a tessere un rapporto privilegiato con i grillini, piuttosto che con un Pd peraltro in lutto, il piano di Berlusconi è stato disatteso da Renzi. Il quale, ulteriormente indebolito dalle dimissioni da segretario del partito, non ha voluto rischiare il soccorso ad un perdente, e le conseguenze che ne sarebbero derivate per lui nella formazione politica dove ha deciso di rimanere. E potrebbe prima o dopo tornare a giocare le sue carte.

            Emissari di Renzi, dietro le quinte, ma neppure tanto, sono stati autorizzati a farsi contattare da emissari di Berlusconi, se non addirittura dallo stesso Romani, ma non ad assumere impegni. Anche questo, ripeto, ha giocato sulla decisione del presidente di Forza Italia di fare alla fine buon visto allo scomodo gioco di Salvini, denunciato imprudentemente con un comunicato ufficiale contro “l’atto di ostilità a freddo” compiuto dalla Lega tentando autonomamente la carta della pur forzista Anna Maria Bernini e tradendo la voglia, secondo Berlusconi, di un governo grilloleghista.

            Con la sua decisione di restare alla finestra, obbligando di fatto alla stessa posizione tutto il Pd nella partita delle presidenze parlamentari, anche quando alcuni grillini hanno strizzato l’occhio, davvero o per finta, al franceschiniano Luigi Zanda per la presidenza del Senato o allo stesso Dario Franceschini per la presidenza della Camera, che è una vecchia ambizione del ministro uscente dei beni culturali, Renzi ha tenuto la barra dritta. Berlusconi invece ha sbandato e ha terremotato la sua Forza Italia, dove uomini abituati a ubbidir tacendo, come i Carabinieri nella loro Arma, stavolta non sono riusciti a trattenere la protesta. Anzi, la rabbia.

            E’ tuttavia curioso che nel partito di Berlusconi abbiano scoperto i rischi o la insostenibilità di un centrodestra a trazione leghista personaggi come Renato Brunetta. Che si sono spesi negli ultimi anni prima a contestare, se non addirittura a sabotare politicamente, il patto del Nazareno con Renzi, quando c’era e suppliva al difetto di agibilità politica di Berlusconi, e poi a rendere sempre più limitrofi gli elettorati di Forza Italia e della Lega. Eppure si sa che cosa accade quando gli elettorati si confondono in una coalizione: il partito maggiore inghiottisce quello minore nei momenti di difficoltà.

            Meno di due anni fa, quando nelle elezioni amministrative di Roma la battaglia per il Campidoglio si ridusse al ballottaggio fra il candidato del Pd renziano Roberto Giachetti e la candidata grillina Virginia Raggi, non solo la destra di Giorgia Meloni -che poteva avere ragioni di risentimento per essere stata contrastata da Forza Italia- ma lo stesso Brunetta, capogruppo forzista alla Camera, si abbandonò a dichiarazioni per la Raggi piuttosto che per Giachetti. Non è che si possono seminare cetrioli e poi raccogliere melanzane.

  

Le strade tutte in salita del nuovo governo e di Silvio Berlusconi

            “Primo giro di valzer” ha titolato la sua vignetta sul Corriere della Sera Emilio Giannelli facendo festeggiare alla berlusconiana Elisabetta Casellati e al grillino Roberto Fico la loro elezione a presidenti, rispettivamente, del Senato e della Camera.

            Ma potrebbe essere anche l’unico giro di valzer se Silvio Berlusconi – uscito alquanto malconcio dalla partita, pur avendo ottenuto la seconda carica dello Stato per una sua “fedelissima”, come ha fatto sapere intristendo il mancato presidente Paolo Romani- riuscirà almeno a fare rispettare dall’alleato e aspirante premier Matteo Salvini la sua ultima richiesta. Che è quella  di considerare “non propedeutica ad un patto di governo” la maggioranza realizzatasi fra centrodestra e grillini per i vertici parlamentari.

            Oltre alla richiesta ufficializzata da Berlusconi dopo essersi riconciliato con Salvini sacrificando Romani, e anche la povera Anna Maria Bernini, forzista pure lei proposta però dal segretario leghista, gravano contro l’ipotesi di una maggioranza di governo analoga a quella realizzatasi attorno ai nuovi presidenti delle Camere i dubbi del capo dello Stato. Che si intravedono nell’articolo del quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda, al solito informatissimo delle opinioni, degli umori e persino dei sospiri al Quirinale.

            Il presidente della Repubblica ha fatto praticamente sapere di non avere alcuna intenzione di avallare soluzioni pasticciate per il governo, programmi non sufficientemente chiari e comunque compatibili con le risorse disponibili e con gli impegni europei, nonché “un profilo” non adeguato alla funzione e al ruolo del nuovo presidente del Consiglio da mandare a Palazzo Chigi. Dove Mattarella ha appena invitato scontatamente il dimissionario Paolo Gentiloni a restare per gli affari correnti, che potrebbero includere anche la gestione delle elezioni anticipate se non dovesse rivelarsi possibile la formazione di un governo dalle prospettive solide, non limitate all’approvazione di una nuova legge elettorale con la quale rimandare gli italiani alle urne, al più tardi in coincidenza con le elezioni europee nella primavera dell’anno prossimo.

            Quella del nuovo governo resta quindi una strada molto in salita, a percorrere la quale Mattarella non sembra proprio avere fretta. Tanto è vero che le consultazioni di rito al Quirinale cominceranno dopo Pasqua.

            E’ ancora più in salita, tuttavia, la strada che attende nella gestione del centrodestra e del suo stesso partito un Berlusconi “ferito e acciaccato”, come lo ha definito l’insospettabile Alessandro Sallusti, direttore del Giornale di famiglia, o “reso ridicolo, come ormai gli succede spesso”, ha scritto Vittorio Feltri su Libero.

          Chi ha potuto ascoltarne alla televisione le parole pronunciate nel cortile della sua residenza romana, a Palazzo Grazioli, dopo avere personalmente accompagnato all’auto Matteo Salvini, con cui aveva festeggiato l’elezione dei nuovi presidenti delle Camere, avrà sicuramente colto la voce alla fine incrinata di Berlusconi. Che non so, francamente, se fosse più commosso o imbarazzato: commosso per avere potuto comunque mettere una bandierina su quel Palazzo Madama da cui era stato espulso cinque anni fa, e imbarazzato per il prezzo politico che ha dovuto pagare alla ricomposizione del centrodestra, dopo avere dato pubblicamente del traditore a un Salvini del quale ora dice, o deve dire di “fidarsi”.

            Il declino politico di Berlusconi è nelle cose: tanto più evidente quanto più lui cerca di contrastarlo, o nasconderlo. Cresce nel suo partito l’imbarazzo di quanti sono da lui lasciati e addirittura spinti, di volta in volta, in prima linea e si trovano alla fine spiazzati dai suoi ripensamenti. Non a caso il capogruppo uscente della Camera Renato Brunetta ha buttato la spugna per una conferma. E l’omologo di Palazzo Madama, Paolo Romani, ferito nell’orgoglio personale e politico nella corsa alla presidenza del Senato, ha lamentato che Berlusconi, “non più leader” del centrodestra, non abbia ottenuto “neppure il minimo sindacale” nella trattativa con l’emergente Salvini.

        Voci di palazzo proiettate sulla settimana di Passione attribuiscono a due donne le nuove presidenze dei gruppi parlamentari di Foza Italia: alla Camera Mariastella Gelmini e al Senato Anna Maria Bernini, che potrebbe in questo caso dire -almeno lei- di avere ottenuto il minimo sindacale non visto da Romani.  

 

 

 

Ripreso da www.startmag.it   

Scenata di gelosia di Berlusconi a Salvini per la presidenza del Senato, e altro…..

            Quel bacio murale, e in bocca, fra Matteo Salvini e Luigi Di Maio, a pochi passi dalla Camera e dal Senato, è stato cancellato con insolita rapidità dalla nettezza urbana capitolina, agli ordini della sindaca grillina Virginia Raggi, ma  riproposto sul palcoscenico della politica da un furente Silvio Berlusconi. Del quale il meno che si possa dire è che ha fatto una scenata di gelosia all’alleato leghista accusandolo di tradimento dell’alleanza di centrodestra, premiata dagli elettori meno di venti giorni prima.

            In particolare, Berlusconi fra gli stucchi della sua residenza romana ha bollato come “un atto di ostilità a freddo”, indicativo di un rapporto politicamente adulterino col capo del movimento delle 5 stelle, il voto annunciato e concesso da Salvini e amici leghisti alla pur berlusconiana Anna Maria Bernini nel secondo scrutinio per l’elezione del presidente del Senato. Un voto che Salvini aveva invece pubblicamente motivato come “atto di amore” per le istituzioni in genere, e per la stessa alleanza di centrodestra arroccata da Berlusconi con una candidatura -quella del capogruppo uscente forzista Paolo Romani- che è contestata irriducibilmente dai grillini con un’aggravante, chiamiamola così: il rifiuto di parlarne in un incontro fra tutti i partiti con la partecipazione dell’ex presidente del Consiglio. Al quale Di Maio preferisce, come interlocutori diretti, i capigruppo parlamentari a causa dei notissimi problemi giudiziari che limitano da qualche anno l’agibilità politica di Berlusconi con l’incandidabilità.

            La povera Anna Maria Bernini, ripresa dalle telecamere durante lo scrutinio mentre il suo vicino di banco Adriano Galliani registrava diligentemente i voti che le venivano assegnati con la voce di Giorgio Napolitano, presidente temporaneo dell’assemblea, e poi anche mentre scherzava nell’emiciclo con alcuni senatori grillini avendo il foglietto di Galliani fra le  mani, ha dovuto ricomporsi rapidamente.

              Richiamata a “ corte” da Berlusconi, prima ancora che Di Maio facesse sapere la disponibilità del suo movimento a sostenerne l’elezione in cambio di quella del grillino Riccardo Fraccaro alla presidenza della Camera, la signora 52.enne Bernini, da sette anni vedova Borricelli, approdata a Forza Italia da Alleanza Nazionale, già ministra, eletta a Bologna, ha annunciato la sua “indisponibilità” alla candidatura offertale da Salvini, e non dal suo capo. E si è messa disciplinatamente in riga, spianando la strada al solito compromesso notturno per portare al vertice del Senato la collega di gruppo  Maria Elisabetta Alberti Casellati e al vertice di Montecitorio il grillino Roberto Fico.

             Pur tradotta subito dai giornali, telegiornali e altro ancora in una rottura del centrodestra, fra invocazioni alla calma, alla mediazione e a tutte le cose invocate in simili circostanze più o meno sinceramente dagli interessati alla sopravvivenza dell’unione di turno, la scenata di gelosia di Berlusconi contro Salvini si presta alla lettura delle solite due scuole di pensiero: colpevolista e innocentista.

            Più in particolare, c’è stata più malizia nell’iniziativa di Salvini o nella reazione di Berlusconi ? In Salvini per la smania attribuitagli dall’alleato di accordarsi con Di Maio, anche a costo di subire, o addirittura avallare gli affronti all’ex presidente del Consiglio. In Berlusconi per l’ossessione che ha, specie dopo il sorpasso elettorale fattogli da Salvini il 4 marzo, di perdere la leadership -o “regìa”, come lui stesso l’ha recentemente definita- della coalizione di centrodestra. Che peraltro l’ex presidente del Consiglio, data la insufficienza numerica per la formazione di una maggioranza in Parlamento, vorrebbe fare interloquire col Pd, per quanto malmesso  e considerato invece da Salvini sostanzialmente incompatibile.

            Quella del presidente di Forza Italia è un’ossessione alimentata da qualche consigliere ancora meno rassegnato di lui al sorpasso leghista delle ultime elezioni e aggravata dalle sue non comuni condizioni di politico ad agibilità per ora ridotta. Su cui un movimento come quello delle 5 stelle, cresciuto a pane e manette, specula con la solita disinvoltura, dimentico peraltro dei precedenti giudiziari del suo “garante”, “elevato” e quant’altro Beppe Grillo. Che però da comico professionista sa ridere delle sue difficoltà, pur essendoci stati dei morti nel reato stradale che gli costò a suo tempo una condanna definitiva. Berlusconi invece non riesce né a ridere, pur prodigo com’è di barzellette, né a nascondere il disappunto per le sue traversie.

La pantomima del caso Romani, candidato alla presidenza del Senato

            La pantomima viene tradotta in senso figurato dal dizionario della lingua italiana di Giacomo Devoto e Giancarlo Oli in “messinscena, cosa e situazione fittizia”: adattissima -credo- a quella creatasi, in apertura della diciottesima legislatura repubblicana, con la candidatura dell’ex ministro Paolo Romani a presidente del Senato, posta da Silvio Berlusconi e contestata dal capo del Movimento 5 stelle Luigi Di Maio. Il quale ha rifiutato anche solo di parlare di questo e di altro ancora col presidente di Forza Italia, accomunato al pur candidabile ed eleggibile Romani dalla qualifica di pregiudicato, inteso come condannato in via definitiva.

            Quella di Berlusconi è una condanna arcinota, per frode fiscale, rimediata dall’ex presidente del Consiglio nell’estate del 2013 e costatagli pure il seggio al Senato conquistato pochi mesi prima. Quella di Romani è una condanna meno nota per peculato, definitiva come tale ma con una pena ancora indefinita perché quella comminatagli in appello dovrà essere ridotta su richiesta della Cassazione per l’entità del danno procurato, e peraltro interamente già rimborsato dall’interessato al Comune di Monza. Di un cui telefonino di servizio, assegnatoli come assessore, nel tempo libero lasciatogli dalle funzioni di ministro,  aveva fatto uso in Italia e all’estero una figlia minorenne. All’insaputa del padre, ha sempre sostenuto lo stesso Romani, che tuttavia ne denunciò ad un certo punto lo smarrimento ottenendo il duplicato della sim, che la figlia avrebbe continuato ad usare.

            La vicenda è obiettivamente modesta sul piano penale, ed anche lontana. Ma quella politica sollevata contro Romani dai grillini, indisponibili a votarlo al vertice di Palazzo Madama in cambio dell’elezione di un loro esponente con i voti del centrodestra alla presidenza della Camera, non è una vicenda altrettanto modesta. E ad aumentarne lo spessore è stato, volente o nolente, lo stesso Berlusconi prima impuntandosi sulla candidatura del suo fedele amico, poi ponendo la questione di un incontro fra tutti i partiti con la sua personale e irrinunciabile partecipazione, ben conoscendo il disagio in cui mediaticamente e politicamente metteva Di Maio all’interno e all’esterno del suo movimento cresciuto a pane e giustizialismo, poi ancora finendo -sempre volente o nolente- per contestare il diritto di Matteo Salvini di rappresentare l’intero centrodestra nella trattativa sulle presidenze parlamentari, infine creando -in questo caso più volente che nolente, di sicuro- le condizioni politicamente utili al Partito Democratico dell’ex segretario Matteo Renzi per entrare nella partita dalla quale si era estraneato, o quasi, anche a causa della sua forte crisi interna dopo la batosta elettorale del 4 marzo.

            E’ evidente, da questo elenco di fatti e circostanze difficilmente contestabili, la pantomima -come dicevo- del caso Romani. Che è anche una scatola cinese, nella quale cioè se ne trovano altre non tutte limitate alla partita delle presidenze parlamentari, cui dovrà immediatamente seguire quella della formazione del governo, che ne fa già ora da sfondo.

            La natura complessa di questa pantomima spiega anche la posizione scomodissima nella quale ha accettato di rimanere lo stesso Romani, prigioniero pure lui della matassa del suo caso, come lo si vede in tante foto in mezzo al cancello d’ingresso della residenza romana, privata e politica, di Berlusconi. Una sua rinuncia, peraltro all’interno di un partito in cui non mancherebbero certo altri aspiranti al vertice del Senato, di ambo i sessi, anche quindi a vantaggio di una soluzione per la prima volta femminile per la seconda carica dello Stato nella storia della Repubblica, avrebbe già sbloccato la situazione. Che invece Berlusconi ha preferito evidentemente complicare ad avversari e amici, ad alleati e ad avversari, forse anche per ricordare che, per quanto incandidabile, pregiudicato e com’altro preferiscono definirlo nemici e concorrenti, e sorpassato elettoralmente dal partito di Salvini, lui ancora c’è.    

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