La giornata finalmente del silenzio, ma anche degli incubi politici

            La vigilia del voto è chiamata di solito la giornata del silenzio, imposto dalla legge col divieto dei comizi e di tutto ciò che li sostituisce con i moderni sistemi di comunicazione, a cominciare dalle interviste e partecipazioni alle trasmissioni televisive e radiofoniche. Ma per quanti temono di perdere, o di veder perdere i partiti, i candidati e le prospettive politiche che preferiscono è anche  o soprattutto la giornata degli incubi. Come quello costruito sulla prima pagina del Foglio di Giuliano Ferrara, e ora anche di Claudio Cerasa, col fotomontaggio di due volti e rispettivi cervelli insieme: i candidati a Palazzo Chigi Luigi Di Maio e Matteo Salvini. E’ un incubo pari a quello avvertito sui fronti opposti di destra e di sinistra col fotomontaggio dei volti unificati di Matteo Renzi e Silvio Berlusconi.

            Questi ultimi due dispongono pure di un nome che ha un suo suono: Renzusconi. E’ più difficile darne uno scorrevole a Di Maio e a Salvini. Sì, si potrebbe adottare quello di Salvidimaio, ma è già una forzatura mettere Salvini prima di Di Maio, perché i rapporti di forza elettorale fra i due sono impietosamente rovesciati ai danni del segretario leghista. E’ più facile sommare i due fenomeni politici chiamandoli, insieme, grilloleghismo.

            Salvini, poi, viene dopo Di Maio anche sotto il profilo dell’incertezza della stessa natura di candidato, perché lui lo è solo per autoinvestitura all’interno della coalizione politica di cui fa parte: il centrodestra. Dove l’accordo con Silvio Berlusconi è che la designazione del premier da proporre al presidente della Repubblica spetta solo al partito che prenderà più voti tra Forza Italia e Lega. E Berlusconi è talmente convinto che il suo partito non sarà sorpassato da quello di Salvini da avere già proclamato il suo candidato a Palazzo Chigi nella persona di Antonio Tajani: il suo ex portavoce e attuale presidente del Parlamento Europeo. Il quale ha preso così sul serio la designazione da avere sciolto la riserva, facendo forse sussultare qualcuno al Quirinale.

            Sul colle più alto di Roma  si è abituati da 72 anni, quanti sono quelli pur non ancora compiuti della Repubblica, a considerare la riserva da sciogliere solo quella dell’incaricato dal capo dello Stato di formare un governo: dal capo dello Stato, ripeto, non da un capopartito, per giunta neppure in grado ancora di poter tornare a votare, e candidarsi alla carica soltanto di consigliere comunale.

            Gli incubi di Renzusconi e di Salvidimaio, o come altro si vorrà o potrà chiamare il prodotto della fusione fra Di Maio e Salvini nell’ordine della loro prevedibile consistenza elettorale, nascono dalla presunzione di una scomposizione di una o di entrambe le coalizioni che si sono fronteggiate nella campagna elettorale: quelle di centrodestra e di centrosinistra. E ciò per effetto di una loro mancata autosufficienza ai fini della formazione di una maggioranza di governo nel nuovo Parlamento.

            Il centrodestra mancherà l’obiettivo probabilmente di poco, ma di quel tanto che basterà  a far tirare un sospiro di sollievo a Berlusconi. Che da uomo di spettacolo com’è, e non solo imprenditore, ha saputo nascondere benissimo la forte preoccupazione, che in molti gli hanno attribuito non a torto dal primo momento, di dovere davvero governare, sia pure non in prima persona, negoziando ogni giorno le decisioni con un alleato così esigente e imprevedibile come Salvini. E per giunta con lo stesso Salvini a Palazzo Chigi in caso di sorpasso elettorale della Lega su Forza Italia.

            Il centrosinistra costituito dal Pd e dalle liste apparentate di Emma Bonino e Bruno Tabacci, di Beatrice Lorenzin e Pier Ferdinando Casini e di Riccardo Nencini, Angelo Bonelli e Giulio Santagata mancherà l’obiettivo ancora più probabilmente del centrodestra, per cui dovrà industriarsi -con i soliti mal di pancia piddini e qualche altra scissione- a cercare alleati altrove, anche  bussando alla porta di Berlusconi. Che Renzi, ad occhio e croce, preferirà mille volte ai vari Bersani e D’Alema, fuggiti dal Pd l’anno scorso col proposito neppure nascosto di fargli perdere le elezioni e di troncarne finalmente la carriera politica.

           A quel punto, con un Berlusconi costretto dai numeri a considerare quello che ha mostrato di escludere in campagna elettorale, cioè un ritorno ai patti del Nazareno, sarà fortissima la tentazione di Salvini, e forse anche della sua metaforica attendente politica Giorgia Meloni, di allearsi con i grillini se i numeri elettorali e soprattutto parlamentari dovessero mai quadrare per fare maggioranza.

            Le affinità fra le basi, chiamiamole così, dei due movimenti si sono d’altronde già avvertire a livello amministrativo, a cominciare da Roma. Dove nel ballottaggio per il Campidoglio tra la grillina Virginia Graggi e il renziano Roberto Giachetti la prima fu aiutata a prevalere sull’altro nella primavera di due anni fa  proprio dagli elettori leghisti e di destra, sino a lambire quelli di Forza Italia, frustrati dal fiasco del candidato Alfio Marchini  loro imposto nel primo turno elettorale da Berlusconi. Che lo aveva preferito alla sorella dei Fratelli d’Italia Meloni, gravida già allora anche di ambizioni politiche.   

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