Tornano i dorotei della vecchia Dc, se mai se ne sono andati

            Il Partito Democratico, uscito certamente malconcio dalle urne del 4 marzo, ma non meno del Partito Popolare-ex Dc dalle elezioni del 1994 o del Pds-ex Pci da quelle del 1992, le prime dopo la caduta del muro di Berlino e di tutto ciò ch’esso avevo significato per tanto tempo, è ora a un bivio. Che il pur perdente e uscente segretario Matteo Renzi ha avuto il merito di segnalare per primo: un merito che i suoi vecchi e nuovi avversari, prolifici come conigli, naturalmente gli negheranno ma che per onestà gli va riconosciuto da chi, non militando nel suo partito, né in altri concorrenti, ha quanto meno la possibilità di vedere le cose con maggiore distacco.

            Il bivio del Pd è fra il rimanere compatto all’opposizione ad un governo che i vincitori delle elezioni –leghisti da una parte e grillini dall’altra- hanno a questo punto il diritto e il dovere quanto meno di tentare, se non avranno la faccia tosta di ammettere di avere preso in giro con le loro promesse di cambiamento tutto il Paese, e il farsi dividere dagli altri. Che poi sono soprattutto  i grillini. I quali, avendo più numeri dei leghisti in Parlamento, dopo averne preso di più nelle urne, sono quelli che più hanno da offrire. O più possibilità di giocare la partita.

            Infatti il candidato delle 5 stelle a Palazzo Chigi, Luigi Di Maio, si è già rivolto più o meno esplicitamente ad un Pd “derenzizzato”. Che significherebbe per Di Maio un Pd a sinistra, o più a sinistra, perché di sinistra si sentono pure i grillini, anche se ogni tanto essi  contestano la possibilità di continuare a parlare ancora di destra e di sinistra. E non mancano nel Pd persone come il governatore pugliese Michele Emiliano, per non parlare di quelli che ne sono usciti e contano nel nuovo Parlamento ancora meno che nel vecchio, pronte a rispondere sì a Di Maio. Ce ne sono, come lo stesso Emiliano, che hanno persino preceduto Di Maio offrendosi: un Di Maio peraltro appena  messo alla prova di sinistra in televisione da Eugenio Scalfari, forse più scettico che fiducioso.

            I fiancheggiatori dei grillini, come quelli del Fatto Quotidiano, destinati ora ad affollare i salotti televisivi ancora più di prima, hanno deriso un Pd contrario ai grillini come un partito destinato a scendere nelle prossime elezioni al 10 per cento. Che è la stessa quota elettorale attribuita a Renzi da Beppe Grillo in persona in vista di nuove elezioni. Ma quanto varrebbe un Pd caduto in tentazione grillina, diciamo così? Quanto di più o di meno del 10 per cento?

            Il bivio attuale del Pd è lo stesso nel quale si trovò nel 1994, alla nascita della cosiddetta seconda Repubblica, la ex Dc di Mino Martinazzoli, e poi di Rocco Buttiglione, Gerardo Bianco e Franco Marini, prima di dissolversi nella Margherita di Francesco Rutelli e di unificarsi con i post-comunisti di Walter Veltroni. La ex Dc si spaccò nelle scelte fra centrodestra e centrosinistra e si disperse.

            Durante la cosiddetta prima Repubblica, nella Dc che la rappresentava più compiutamente quelli sempre pronti a resistere alle novità ma poi anche a cedervi quando le vedevano vincenti, cercando di ricavare il massimo trattando, erano chiamati dorotei, dal nome di un istituto religioso in cui nacquero come corrente separandosi dai fanfaniani. Dorotei divenne un sinonimo di opportunisti.

            Ecco, i piddini pronti a sostenere i grillini sono, consapevoli o a loro insaputa, secondo i casi, i  nuovi dorotei della terza, nascente Repubblica. E’ gente semplicemente terrorizzata all’idea di passare all’opposizione. E Dio solo sa quanto mi dispiaccia vedere tra costoro Sergio Staino. Che, in una vignetta comparsa sul Dubbio, dove però un post-comunista dal nome storico di Luigi Berlinguer ha preferito schierarsi per il passaggio all’opposizione, ha contestato il no già gridato da Renzi ai grillini rivendicando il diritto di parola della direzione del partito. Che tuttavia è stata già regolarmente convocata dal segretario sfidando i suoi critici a contestarlo, se ne hanno gli argomenti e i numeri. Ma Renzi –ha argomentato Staino- è un’anatra zoppa, anzi un’anitra, come preferiscono dire in Toscana: zoppa per i voti che ha perduto nelle elezioni e per le dimissioni che ha prenotato, destinate a diventare operative e a ad avviare la successione congressuale dopo i tanti adempimenti istituzionali e politici della nuova legislatura, compresa la formazione del nuovo governo. Come se un reggente o una commissione di reggenza, reclamata dagli avversari di Renzi, non fosse un’altra anatra zoppa. Via, Staino, questa tua vignetta purtroppo non mi ha fatto né ridere né sorridere.  

La ricetta Renzi per un governo grillo-leghista è curiosamente morotea

Nella storia ormai più che settantennale  della Repubblica c’è un solo precedente di risultato elettorale neutro come quello di domenica scorsa. Esso risale al 1976, quando nel Parlamento eletto con un sistema integralmente proporzionale nessuno dei due partiti più votati -la Dc di Benigno Zaccagnini e Aldo Moro e il Pci di Enrico Berlinguer, dichiaratamente alternativi nella campagna elettorale- aveva i numeri per governare l’uno contro l’altro insieme con alleati disponibili e/o sufficienti all’avventura.

Che si trattasse di un’avventura era dimostrato da una situazione economica gravissima e da un ordine pubblico minacciato da un terrorismo di matrice non più soltanto nera ma anche rossa, affacciatosi sulla scena nel 1974 col sequestro del giudice Mario Sossi.

La soluzione della crisi fu trovata da quel mago della mediazione che era Moro adottando, ma in una forma ridotta e contingente, il famoso “compromesso storico” proposto in una prospettiva più ampia alla Dc da Berlinguer. Il quale aveva temuto che anche in Italia una svolta marcatamente di sinistra finisse come in Cile. Dove i militari sostenuti dagli americani avevano soppresso  nel sangue la democrazia.

Ai colleghi di partito insofferenti e desiderosi di altre elezioni, anticipate come quelle appena svoltesi, Moro espose la parabola, diciamo così, dei due vincitori usciti dalle urne: la Dc e il Pci. Troppi per governare con i vecchi schemi di maggioranza e opposizione, capaci solo di paralizzarsi a vicenda. Occorreva quindi una stagione di decantazione o tregua, chiamata poi di “solidarietà nazionale” , in cui entrambi i vincitori dovevano aiutarsi a vicenda a passare la nuttata, dicono a Napoli. E nacque il governo monocolore democristiano di Giulio Andreotti sostenuto in modo determinante dai comunisti: prima con l’astensione, poi con la vera e propria fiducia negoziata nella lunga crisi che precedette il tragico sequestro di Moro. Sta per ricorrerne il quarantesimo anniversario.

Diversamente dal 1976, questa volta si è votato con un sistema elettorale misto: prevalentemente proporzionale, con una quota maggioritaria modesta ma sufficiente a produrre un effetto opposto a quello perseguito dai cultori del metodo maggioritario. Si è prodotta non più governabilità- parola quasi magica dei costituzionalisti anti-proporzionalisti, ma meno governabilità.

I due vincitori di domenica scorsa, destinati nella parabola morotea a garantire una tregua obbligata dopo un risultato neutro, sono il candidato grillino a Palazzo Chigi, che ha preso tanti voti da farne indigestione, e la coalizione di centrodestra, anch’essa molto votata ma non tanto da disporre della maggioranza assoluta dei seggi parlamentari, al pari del movimento delle 5 stelle.

All’interno del centrodestra si è tuttavia verificato il sorpasso della Lega di Matteo Salvini sulla Forza Italia di Silvio Berlusconi, o del proconsole potenziale a Palazzo Chigi indicato dallo stesso Berlusconi alla vigilia del voto in Antonio Tajani, suo ex portavoce e attuale presidente del Parlamento Europeo.

I due vincitori del 4 marzo si chiamano pertanto Di Maio e Salvini, col partito o la coalizione che hanno, rispettivamente, alle spalle. Coalizione, quella di cui Salvini ha conquistato la guida, che proprio per questa novità potrebbe però  trovare ancora più difficilmente in Parlamento i voti che le sono mancati nelle urne per conquistare la maggioranza assoluta dei seggi. E ciò anche se il forzista Renato Brunetta, capogruppo uscente alla Camera, ha immaginato davanti ai microfoni nella notte dello spoglio elettorale “una lunga fila” di aspiranti al ruolo di “responsabili”, pronti cioè a saltare sul carro di un governo Salvini.

Se il segretario della Lega dovesse pertanto rassegnarsi alla rinuncia ad un incarico presidenziale conferitogli dal presidente della Repubblica, come ha già reclamato, per mancanza dei numeri necessari alla fiducia, egli si ritroverebbe a maggior ragione da solo a rivendicare e a condividere con Di Maio la vittoria elettorale. E insieme rientrerebbero nello schema moroteo dei due vincitori costretti dal loro stesso ruolo ad accordarsi. Che è poi la cosa alla quale Renzi li ha praticamente e perfidamente sfidati collocando il suo malmesso Pd all’opposizione per rimanere fedele all’impegno elettorale di non accordarsi con gli “estremisti” dei campi avversi.

Sembrerà un paradosso al simpatico  Sergio Staino, espostosi sul Dubbio a favore di un’intesa fra i grillini e il Pd, forse preferito da Di Maio per le condizioni di debolezza in cui lo stesso Pd si trova dopo le elezioni, ma la posizione assunta da Renzi appare più in linea di altre con lo schema moroteo del 1976.

Lo stesso Renzi si sorprenderà a sentirsi dare del moroteo, o quasi. E i suoi avversari di sinistra saranno letteralmente scandalizzati, al pari di Sergio Mattarella e dei suoi collaboratori al Quirinale, per il culto che hanno di Moro, ma così stanno le cose  stando al precedente del 1976.

Così è se vi pare, avrebbe detto Luigi Pirandello.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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