Reduce da una stretta di mano con Sergio Mattarella tanto casuale quanto galeotta, nel corso della cerimonia al Quirinale per la festa della donna, il candidato delle 5 stelle alla guida del nuovo governo ha quanto meno tentato di agganciare meglio il presidente della Repubblica con una intrigante intervista al Corriere della Sera.
Innanzitutto Luigi di Maio ha definito “sacrosanto” l’appello alla “responsabilità” lanciato da Mattarella ai partiti, e condiviso dal predecessore Giorgio Napolitano, perché mettano gli interessi generali del Paese, e le sue vere urgenze, sopra quelli particolari dei vincitori e degli sconfitti nelle elezioni del 4 marzo.
Del nuovo governo non si vedono ancora i lineamenti politici, i confini, i contenuti, ma già se ne conosce quindi la definizione. Sarà un governo appunto di “responsabilità”, magari col solito aggettivo “nazionale”. E così potrà fare quanto meno rima completa col governo di “solidarietà nazionale” formatosi nel 1976, dopo l’elezione anticipata di un Parlamento con troppi vincitori -due, la Dc e il Pci, come disse l’allora presidente dello scudo crociato Aldo Moro- per poter pensare ad un governo tradizionale, che vedesse i due partiti contrapposti come nella campagna elettorale.
Qualcuno si è subito affrettato a tradurre il quadro, come ha tentato il presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky sul solito Fatto Quotidiano di simpatie grilline, in un accordo di governo fra il movimento delle 5 stelle e il Pd o, più in generale, il centrosinistra. Ma il costituzionalista ha scambiato il Pd per il secondo vincitore delle elezioni del 4 marzo. In realtà, esso è il partito principalmente sconfitto, tanto che il suo segretario ha dovuto dimettersi, ed anticipare anche l’effetto di queste dimissioni, che aveva invece tentato di congelare in attesa della formazione del nuovo governo.
A smentire Zagrebelsky, e Il Fatto diretto da Marco Travaglio, prodigo di consigli e moniti amichevoli ai grillini, ha provveduto lo stesso Di Maio. Il quale ha chiarito all’intervistatore del Corriere della Sera, Emanuele Buzzi, che appartiene ai giornali, non a lui, né al suo partito, la rappresentazione di un movimento teso a confrontarsi o a trattare, come preferite, soprattutto col Pd. Per niente, Di Maio vuole confrontarsi, o trattare, con tutti, compresi quindi i leghisti, gli altri vincitori delle elezioni. E li ha invitati a formulare le loro proposte, invertendo del tutto la rappresentazione accreditata dallo stesso Di Maio nelle scorse settimane di un uomo e di un partito provvisti di un programma ed anche di una squadra di governo, poco o per niente disponibili a trattare sul primo e ancor meno sulla seconda.
Questo cambiamento di marcia o di indirizzo, conseguente anche al fatto che a entrambi i vincitori delle elezioni manca una maggioranza autosufficiente in Parlamento, è il frutto dell’appello del capo dello Stato alla responsabilità e del “sacrosanto” datogli da Di Maio? Forse.
Ma l’intervista al Corriere della Sera dell’aspirante delle 5 stelle all’incarico di Mattarella per Palazzo Chigi contiene un’altra e ancora più importante novità: la disponibilità a concorrere alla formulazione e all’approvazione, con la prescritta maggioranza assoluta del Parlamento, del documento di economia e finanza (Def) che il governo deve presentare entro il 10 aprile. E che la Commissione esecutiva dell’Unione Europea naturalmente aspetta con la solita diffidenza, più o meno dissimulata.
Il 10 aprile è una data troppo vicina all’insediamento delle nuove Camere, il 23 marzo, all’elezione dei loro presidenti, al completamento degli organi istituzionali, alle consultazioni di rito al Quirinale e a tutto il resto per immaginare che possa essere il nuovo governo a formulare il Def. Vi deve provvedere il governo uscente di Paolo Gentiloni, che pertanto diventerà di fatto il primo interlocutore di chi aspira a succedergli. E l’esito del confronto -chiamiamolo così- sul documento di economia e finanza potrà risultare, per gli sviluppi della situazione politica, ancora più significativo o decisivo delle prove alle quali le nuove Camere saranno chiamate eleggendo i loro presidenti.
Se quella stretta di mano al Quirinale fra Mattarella e Di Maio è stata la prima rondine, che non fa necessariamente primavera, come dice un vecchio e prudente proverbio, non resta che vedere se altre voleranno sui palazzi romani della politica e delle istituzioni.