Di Maio aggancia Mattarella e interloquisce col governo sul Def del 10 aprile

            Reduce da una stretta di mano con Sergio Mattarella tanto casuale quanto galeotta, nel corso della cerimonia al Quirinale per la festa della donna, il candidato delle 5 stelle alla guida del nuovo governo ha quanto meno tentato di agganciare meglio il presidente della Repubblica con una intrigante intervista al Corriere della Sera.

Innanzitutto Luigi di Maio ha definito “sacrosanto” l’appello alla “responsabilità” lanciato da Mattarella ai partiti, e condiviso dal predecessore Giorgio Napolitano, perché mettano gli interessi generali del Paese, e le sue vere urgenze, sopra quelli particolari dei vincitori e degli sconfitti nelle elezioni del 4 marzo.

            Del nuovo governo non si vedono ancora i lineamenti politici, i confini, i contenuti, ma già se ne conosce quindi la definizione. Sarà un governo appunto di “responsabilità”, magari col solito aggettivo “nazionale”. E così potrà fare quanto meno rima completa col governo di “solidarietà nazionale” formatosi nel 1976, dopo l’elezione anticipata di un Parlamento con troppi vincitori -due, la Dc e il Pci, come disse l’allora presidente dello scudo crociato Aldo Moro- per poter pensare ad un governo tradizionale, che vedesse i due partiti contrapposti come nella campagna elettorale.

            Qualcuno si è subito affrettato a tradurre il quadro, come ha tentato il presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky sul solito Fatto Quotidiano di simpatie grilline, in un accordo di governo fra il movimento delle 5 stelle e il Pd o, più in generale, il centrosinistra. Ma il costituzionalista ha scambiato il Pd per il secondo vincitore delle elezioni del 4 marzo. In realtà, esso è il partito principalmente sconfitto, tanto che il suo segretario ha dovuto dimettersi, ed anticipare anche l’effetto di queste dimissioni, che aveva invece tentato di congelare in attesa della formazione del nuovo governo.

            A smentire Zagrebelsky, e Il Fatto diretto da Marco Travaglio, prodigo di consigli e moniti amichevoli ai grillini, ha provveduto lo stesso Di Maio. Il quale ha chiarito all’intervistatore del Corriere della Sera, Emanuele Buzzi, che appartiene ai giornali, non a lui, né al suo partito, la rappresentazione di un movimento teso a confrontarsi o a trattare, come preferite, soprattutto col Pd. Per niente, Di Maio vuole confrontarsi, o trattare, con tutti, compresi quindi i leghisti, gli altri vincitori delle elezioni. E li ha invitati a formulare le loro proposte, invertendo del tutto la rappresentazione  accreditata dallo stesso Di Maio nelle scorse settimane di un uomo e di un partito provvisti di un programma ed anche di una squadra di governo, poco o per niente disponibili a trattare sul primo e ancor meno sulla seconda.

            Questo cambiamento di marcia o di indirizzo, conseguente anche al fatto che a entrambi i vincitori delle elezioni manca una maggioranza autosufficiente in Parlamento,  è il frutto dell’appello del capo dello Stato alla responsabilità  e del “sacrosanto” datogli da Di Maio? Forse.

            Ma l’intervista al Corriere della Sera dell’aspirante delle 5 stelle all’incarico di Mattarella per Palazzo Chigi contiene un’altra e ancora più importante novità: la disponibilità a concorrere alla formulazione e all’approvazione, con la prescritta maggioranza assoluta del Parlamento, del documento di economia e finanza (Def) che il governo deve presentare entro il 10 aprile. E che la Commissione esecutiva dell’Unione Europea naturalmente aspetta con la solita diffidenza, più o meno dissimulata.

            Il 10 aprile è una data troppo vicina all’insediamento delle nuove Camere, il 23 marzo,  all’elezione dei loro presidenti, al completamento degli organi istituzionali, alle consultazioni di rito al Quirinale e a tutto il resto per immaginare che possa essere il nuovo governo a formulare il Def. Vi deve provvedere il governo uscente di Paolo Gentiloni, che pertanto diventerà di fatto il primo interlocutore di chi aspira a succedergli. E l’esito del confronto -chiamiamolo così- sul documento di economia e finanza potrà risultare, per gli sviluppi della situazione politica, ancora più significativo o decisivo delle prove alle quali le nuove Camere saranno chiamate eleggendo i loro presidenti.

            Se quella stretta di mano al Quirinale fra Mattarella e Di Maio è stata la prima rondine, che non fa necessariamente primavera, come dice un vecchio e prudente proverbio, non resta che vedere se altre voleranno sui palazzi romani della politica e delle istituzioni.

Le tempeste nei bicchieri d’acqua di Eugenio Scalfari

Un’altra tempesta si è scatenata nel bicchiere d’acqua di Eugenio Scalfari, come nello scorso mese di novembre. Quando il fondatore di Repubblica, ospite di Giovanni Floris nel salotto televisivo  di martedì , a La 7, disse di preferire Silvio Berlusconi a Luigi Di Maio, nel caso in cui avesse dovuto scegliere fra i due nelle urne.

L’ipotesi era a dir poco irrealistica. Un ballottaggio fra i due, o i rispettivi partiti, non era contemplata nè dalla legge elettorale nè dagli schieramenti in campo, essendo Berlusconi solo una parte, pur importante, e per giunta incandidabile, della coalizione di centrodestra, peraltro destinato ad essere sorpassato nelle urne dall’alleato leghista. Ma Scalfari accettò ugualmente la sfida paradossale dell’intervistatore e diede la sua risposta, avventurandosi anche in una spiegazione che aumentò la sorpresa e aggravò le polemiche per  il dovere da lui rivendicato di distinguere tra valutazioni morali e politiche.

Il disorientamento investì anche i lettori, la redazione e la proprietà di Repubblica, divisasi fra le proteste pubbliche di Carlo De Benedetti- che, se avesse potuto, avrebbe licenziato Scalfari da fondatore e editorialista del giornale- e il silenzio dei figli, forse messi in imbarazzo più dal loro genitore che dal decano del giornalismo italiano.

Nello stesso salotto televisivo dell’altra volta  quel diavolo di Floris, cui i paradossi debbono piacere più della carriera, dei soldi e delle donne, non so in che ordine, ha indotto Scalfari in tentazione di scelta fra Di Maio e Matteo Salvini dopo il voto del 4 marzo, e nel confuso scenario politico che n’è derivato. Di Maio, ha risposto Scalfari, che ne aveva appena elogiato l'”intelligenza” mostrata in campagna elettorale anche con l’allestimento di una potenziale squadra di governo.

Con quella intelligenza, al netto evidentemente dei problemi che il giovanotto campano ha ogni tanto con i congiuntivi e la geografia, fisica e politica, Scalfari si è messo in attesa di vedere se davvero Di Maio può rivelarsi un uomo di sinistra, e persino il capo della sinistra, come è sembrato di volere o poter essere con tutti quei voti portati a casa. Ma è sembrato, appunto. Il che significa che Scalfari ha in realtà sfidato il vice presidente uscente della Camera a dimostrare di che pasta politica sia davvero.

Bisognerà poi vedere di che sinistra Di Maio vorrà o potrà rivelarsi di essere: se di una sinistra velleitaria, alla quale Scalfari non ha fatto sconti in passato, o di una sinistra riformista e di governo,  europeista davvero, non a giorni o ore alterne, per la quale il fondatore di Repubblica è tornato domenica scorsa a votare mettendo la croce nelle schede al seggio non sul Movimento delle 5 stelle, ma sul candidato uninominale del centro sinistra alla Camera e al Senato, e sulla lista del Pd per la quota proporzionale. Lo aveva già annunciato scrivendo, per esempio, dei suoi preferiti Marco Minniti, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, e lo avrebbe anche ripetuto in televisione prima del voto, ospite di Bianca Berlinguer a Rai 3, se la conduttrice non lo avesse trattenuto nel timore di incorrere in qualche censura dell’autorità di vigilanza.

Le parole di Scalfari sono state così poco comprese da Di Maio che questi ha ricambiato la cortesia, diciamo così, con una lettera a Repubblica di quasi autoinvestitura di uomo o capo di sinistra in cui ha messo nel suo Pantheon, citandolo, un solo uomo: non Enrico Berlinguer, che Scalfari rimpiange sempre, ma Alcide De Gasperi. Il quale non fu certamente un uomo di destra, come ha giustamente ricordato Emanuele Macaluso ricordando il rifiuto dell’alleanza a Roma col Movimento Sociale che   procurò all’allora presidente democristiano del Consiglio il no  a un’udienza nel Vaticano di Pio XII, ma neppure un uomo di sinistra. Fu piuttosto il maestro politico di Giulio Andreotti, suo sottosegretario alla guida dei governi centristi. Al cui “stile” Di Maio è stato piuttosto paragonato generosamente dal direttore del Corriere della Sera, Luciano Fontana, in un libro fresco di stampa.

Fra i sorpresi e critici di Scalfari su Di Maio c’è stato nella famiglia di Repubblica il valentissimo Vittorio Zucconi. Che leggo e ascolto sempre volentieri anche perché è la copia felicissima del padre: il mio compianto amico Guglielmo, che mi onorò del ritorno alla collaborazione col Giorno quando, assumendone la direzione, mi capitò di diventare uno dei suoi successori.

Intervistato dal Dubbio, Vittorio ha ironicamente rivendicato la sua condizione di “laico” rispetto ad uno Scalfari “divino” per autorità ed esperienza. Beh, temo -per lui- che anche Vittorio abbia frainteso “Barpapà'”, come molto meno divinamente, più laicamente e più affettuosamente Scalfari è stato abitualmente chiamato dai suoi collaboratori.

 

 

 

Pubblicato sul Dubbio

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