Quell’invito di Giorgia Meloni al G7 accettato volentieri da Papa Francesco

Papa Francesco

         E adesso chi lo dice a Stefano Cappellini, Aldo Cazzullo, Massimo Giannini, Marco Travaglio, in ordine alfabetico, e altri di una lunga lista di scandalizzati dal rifiuto di Giorgia Meloni di gridare forte ed esplicito l’antifascismo implicitamente prescritto dalla Costituzione, che il Papa ha accettato il suo invito a partecipare al G7 di giugno in Puglia nonostante questa sua omissione? Accontentandosi evidentemente dell’’’arzigogolo dialettico”, come l’ha definito Cappellini su Repubblica, cui è ricorsa la premier il 25 aprile per dire, riconoscere e quant’altro che “la fine del fascismo pose le basi della democrazia”. E magari condividendo -sempre il Papa-  un’intervista appena letta di Massimo Cacciari, certamente non sospettabile di fascismo, contro le petulanti richieste da sinistra al presidente del Consiglio, rigorosamente al maschile, di dire ciò che essa reclama. Magari per contestarne poi il tono o la pronuncia romanesca, come d’altronde già è stato fatto una volta nell’aula di Montecitorio interrompendo la Meloni e ottenendone mezze scuse, con la testa infilata nella giacca.  

Il titolo del Corriere della Sera

         Il Pontefice parteciperà, in particolare, alla sessione del vertice mondiale dedicata all’intelligenza artificiale. Che si spera potrà riuscire, prima o dopo, a supplire a quella naturale ma scarsa di certa sinistra appena rimproverata anche da Claudio Velardi, di dichiarata e orgogliosa provenienza comunista, di riempire con l’antifascismo il vuoto in cui è caduta guardando solo indietro e non davanti. E finendo per essere spesso guidata, o comunque condizionata, da un indefinibile Giuseppe Conte. Il cui giornale preferito -notoriamente il Fatto Quotidiano- ha escluso dalla prima pagina l’annuncio della “prima volta del Papa al G7”, come hanno titolato il Corriere della Sera e altri quotidiani. Una prima volta -ripeto-  su invito di una premier imputata o imputabile di omesso antifascismo. Che prima o dopo qualcuno a sinistra proporrà di mettere nel codice penale, non bastando tutte le altre aggiunte al corpo originario  e tuttora in vigore, come sadicamente  ricorda spesso il ministro della Giustizia Carlo Nordio, del fascistissimo Alfredo Rocco, il guardasigilli di Benito Mussolini.

Il Draghi macronizzato che disturba Tajani nella corsa a Bruxelles

Dal Dubbio

Mario Draghi ha fatto un altro passo in avanti verso Bruxelles col discorso molto atteso del presidente francese Emmanuel Macron alla Sorbona sull’Europa. Della cui prossima Commissione, o del cui prossimo Consiglio l’ex premier italiano, ma anche ex presidente della Banca Centrale europea, potrebbe essere chiamato alla guida se dopo le elezioni del 9 giugno il capo dello Stato francese riuscirà a trovare le convergenze necessarie, come fece cinque anni fa per la tedesca Ursula von der Leyen. Alla conferma della quale, per quanto ricandidata dal Partito Popolare, Macron non è favorevole. 

Draghi e Macron alla firma del trattato italo-francese

         Per quanto unito nelle citazioni a due altri italiani, l’ex premier -pure lui- Enrico Letta e il compianto Antonio Gramsci per via delle sue tentazioni fra l’ottimismo della volontà e il pessimismo della ragione, il Draghi ricordato e condiviso da Macron per la proposta riforma radicale dell’Unione Europea è di fatto un candidato ancora più incombente ad uno dei vertici comunitari.

Draghi e Tajani

         E’ curioso tuttavia che le maggiori difficoltà per l’ex premier rischino di arrivare proprio dall’Italia. Dove non gli sono mancati un elogio incoraggiante del presidente del Senato Ignazio La Russa e un’attenzione non ostile della premier in carica, pur a livello “filosofico”, ma si è levato quasi perentorio un sostanziale altolà di Antonio Tajani. Che si è pronunciato nella triplice veste di vice presidente del Partito Popolare -di cui ha rivendicato la prenotazione di una postazione di vertice per una sua presumibile primazia elettorale- vice presidente del Consiglio e segretario di Forza Italia. Ma potrebbe nascondersi o delinearsi anche una quarta veste, nonostante esclusa a parole dall’interessato in questo momento prematuro, mancando più di un mese al rinnovo del Parlamento europeo: la veste di candidato pure lui al posto di un Draghi non iscritto ad alcun partito. Sempre che proprio questo non finisca per diventare un vantaggio per l’ex premier italiano nell’ottica dell’Eliseo.

Pubblicato sul Dubbio

In attesa del 25 aprile 2025, a 80 anni tondi dalla liberazione

Il titolo di Libero

         Per quanto vissuto da alcuni nelle piazze come “il giorno dell’odio” gridato da Libero, tra insulti e aggressioni agli ebrei trasformati da vittime addirittura a “nazisti”, il 25 aprile di questo 2024 non mi pare sia stato, in fondo, “il più inviso di sempre” preconizzato alla vigilia da Andrea Scanzi nel salotto televisivo di Lilli Gruber.  Poteva andare peggio, con più di un accoltellato e di 9 denunciati.

Giorgia Meloni, di spalle, ieri a Piazza Venezia

         Non so se andrà così bene, o così poco male, l’anno prossimo, quando ricorreranno non i 79 anni ma gli 80 dalla liberazione dal nazifascismo. E l’anniversario tondo    sarà più avvertito dai malintenzionati che si considerano offesi dal rifiuto della premier Giorgia Meloni -bruciata in foto ieri e prevedibilmente ancora in carica nel 2025 a Palazzo Chigi- di gridare ai quattro venti il suo antifascismo. Una parola magica che la leader della destra rifiuterebbe, anche ora che è alla guida del governo, per non tradire o se stessa, per quanto troppo giovane per avere vissuto gli anni della guerra civile, o gli elettori più vecchi e fanatici della sua fiamma tricolore, ereditata sia pure non direttamente dal Movimento Sociale. Che comunque a suo tempo approdò legittimamente nelle Camere della Repubblica nata dalla Resistenza e fornitasi di una Costituzione ancora considerata “la più bella del mondo” da chi non vuole riformarla, per esempio, con l’elezione diretta del presidente del Consiglio.

Il titolo del Riformista

         Chissà che cosa saranno capaci di inventarsi i celoduristi dell’antifascismo eterno – o “Anpifascismo”, come lo ha chiamato il Riformista richiamandosi all’attivissima associazione dei partigiani -per riproporre le divisioni di un tempo e rappresentare il Paese governato da prolunghe o travestimenti del regime che fu.

Ieri a Roma, a Porta San Paolo

         Chissà quanti cimeli di quel regime e riproduzioni dei suoi attori i celoduristi riusciranno a scoprire in qualche incursione nella pur sorvegliatissima casa milanese o uffici romani del presidente del Senato Ignazio La Russa. Che forse per essere all’altezza della seconda carica dello Stato, conferitagli dal Senato con l’aggravante di un contributo nascosto di Matteo Renzi, avrebbe dovuto bruciare casa e allestirne una completamente nuova, arredata di mobili, oggetti, biancheria e servizi tutti vidimati dall’Anpi.  

Ieri a Milano, in Piazza Duomo

  Chissà di quanto la premier dovrà scusarsi l’anno prossimo per avere vinto le elezioni politiche del 2022, a ridosso per giunta del centenario della marcia dei fascisti d’antan su Roma, essersi generalmente rafforzata nelle più limitate prove successive e avere buoni motivi di sperare nella prosecuzione del suo lavoro a Palazzo Chigi fino alla scadenza ordinaria della legislatura, nel 1927. E fare magari il bis nella successiva.

La torretta del Quirinale

Non oso immaginare il trauma di un approdo della Meloni al Quirinale, come prima domma anche alla Presidenza della Repubblica, dopo che avrà compiuto i 50 anni prescritti dalla Costituzione. Gliene mancano meno di tre. Un brivido di paura starà passando, a pensarci, per la schiena dei suoi avversari.

Ma quanta attenzione di Macron per gli italiani parlando dell’Unione Europea

Da Libero

Il Macron -Emmanuel, presidente dei cugini francesi- atteso per il suo secondo discorso alla Sorbona sull’Europa, dopo quello del 2017 che lo portò in due anni a sponsorizzare l’arrivo della tedesca Ursula von der Leyen al vertice della Commissione di Bruxelles, questa volta è stato pieno di attenzione, riguardo, e quant’altro per noi italiani.

L’amicizia fra Macron e Draghi

         Egli ha citato il suo notoriamente stimato amico personale Mario Draghi per gli studi sulla “competitività” in e dell’Europa, ma anche il predecessore a Palazzo Chigi Enrico Letta, pure lui incaricato a Bruxelles di studi sull’Unione, e persino la buonanima di Antonio Gramsci. Del quale ha condiviso la divisione tra il famoso “ottimismo della volontà”, che lo spinge a volere un’Europa più forte, più solida, più intimamente strategica anche nella difesa, e l’altrettanto famoso “pessimismo della ragione”. Che gli fa prevedere o temere un’Europa “mortale”, che “può morire”, o diventare “più fragile”, se non si decide a darsi una mossa: quella magari impedita anche o soprattutto dalla Francia in altri momenti. Una mossa come la “riforma radicale” proposta di recente da Draghi offrendo un anticipo del suo rapporto estivo sulla già ricordata competitività, di cui è stato considerato uno specialista anche dalla presidente uscente -e non so quanto davvero rientrante- della Commissione.

Ursula von der Leyen

La signora Ursula è stata riproposta dal partito popolare europeo, il suo, in un quadro non proprio solidissimo. Come usava una volta il ramo democristiano di quel partito designando nella corsa di turno a Palazzo Chigi un candidato ma tenendosi nascosto un altro di riserva, che alla fine lo sorpassava con aiuti esterni, spinto cioè da qualcuno degli alleati.

Arnaldo Forlani

Tutto anche in politica si muove, si trasforma diabolicamente e persino si ripete, come disse al congresso della Dc del 1973 Arnaldo Forlani nel discorso di commiato dalla sua prima segreteria, cominciata nel 1969, per lasciare il passo all’ormai ex capocorrente e padre putativo Amintore Fanfani. Che, tornato al vertice del partito dopo l’abbandono del 1958, sostituito da Aldo Moro nel 1959, avrebbe poi portato la Dc a sbattere nel 1974 nel referendum sul divorzio, saltando come un tappo dallo champagne in una celebre vignetta di Giorgio Forattini.

Sergio Mattarella

Oltre che su Macron, se davvero intende scalare Bruxelles come tentò con sfortuna più di due anni fa col Quirinale, Draghi potrebbe contare -ma sempre dietro le quinte, col detto e non detto, con l’allusione e l’illusione di qualche tifoso particolarmente fiducioso- proprio sul Quirinale. Dove siede, e rimarrà ancora per cinque anni, un presidente della Repubblica come Sergio Mattarella. Che più di tre anni fa lo mandò a Palazzo Chigi per rimuovere quasi col carro attrezzi un Giuseppe Conte che vi si era barricato, ritardando l’apertura della crisi scavatagli sotto i piedi da Matteo Renzi nella maggioranza, e non più tardi di qualche giorno fa ha rilanciato pure lui il tema di una riforma dell’Unione necessaria, ineludibile: una riforma -ha detto- “incisiva e coraggiosa”. Due aggettivi, questi, che ad un vecchio e malizioso cronista politico come me hanno ricordato il centrosinistra “più incisivo e coraggioso” escogitato e offerto ai socialisti nel 1968 dal doroteissimo Mariano Rumor per succedere a Palazzo Chigi ad Aldo Moro, l’amico del papà di Mattarella, Bernardo. Che ne fu anche ministro in uno dei primi governi con i socialisti a maggioranza rigorosamente “delimitata” nei confini a sinistra col partito comunista. 

L’aula dell’Europarlamento

Benedetta memoria, che non mi abbandona e mi fa sempre andare indietro negli anni. Ma torniamo all’oggi e al domani. Si, al domani su cui tutti lavorano, chi davanti e chi dietro le quinte. O chi più davanti o più dietro le quinte. Che comunque dovranno sollevarsi dopo le elezioni di giugno, nel Parlamento europeo che ne uscirà, con presumibilmente nuovi rapporti di forza tra partiti e rispettivi gruppi a livello continentale.  E lì la partita sarà tutta da giocare e si vedrà chi avrà o avrà avuto più filo da tessere, come diceva ai suoi tempi in Italia il bon Giuseppe Saragat fra un lamento e l’altro per la scarsa generosità degli elettori verso il suo partito socialdemocratico.

Antonio Tajani

Si vedrà nel nuovo Parlamento europeo se e come il sommerso riuscirà ad emergere, o s’inabisserà ulteriormente. E se il Partito Popolare, conservando eventualmente il suo primato, riuscirà a imporre la prenotazione della presidenza della Commissione di Bruxelles appena rivendicata in una intervista dal vice presidente italiano di quel partito, e vice presidente anche del Consiglio dei Ministri in Italia, Antonio Tajani. Che non si sente candidato -ha precisato sotto i soffitti di Montecitorio- ma potrebbe anche trovarsi ad esserlo a sua insaputa, o quasi. Anche Cristoforo Colombo scoprì l’America a sua insaputa, credendo di essersi spinto già sino alle Indie.

Pubblicato su Libero

Buona festa di liberazione, da chi o da che cosa decidete voi….

La vignetta del Corriere della Sera

Il Corriere della Sera non è la Rai. Nè come programma, pensando a quello regalato ai telespettatori da Gianni Boncompagni fra il 1991 e il 1995, né come azienda, pur essendole affine perché fanno entrambe comunicazione.

Emilio Giannelli

La sede del giornale italiano più diffuso è a Milano e non a Rona, vigilata non da un cavallo di bronzo, possente ma  immaginato morente dall’artista che lo creò, bensì da un umanissimo direttore di mondo che ha sorriso alla vignetta di giornata mandatagli dal vecchio Emilio Giannelli, che ancora ne sforna a 88 anni belli che compiuti. Ed ha deciso di pubblicarla senza lasciarsi tentare da paure, scrupoli e simili che alla Rai invece hanno prodotto lo spettacolo-ossimoro dell’oscuramento di uno Scurati -inteso come lo scrittore Antonio- che in un monologo sulla festa odierna del 25 aprile aveva intravisto, a dir poco, del fascismo nella premier Giorgia Meloni.

Antonio Scurati

Quest’ultima  felinamente  ha tolto lei stessa lo Scurati dall’oscuramento diffondendone il monologo con i suoi modesti e personali mezzi elettronici, un po’ indignata di certo ma un po’ anche divertita all’idea di potere riparare a buon mercato ad un infortunio occorso a chi aveva pensato in viale Mazzini  di  difenderne interessi politici e immagine negando microfono e telecamera al suo detrattore. O critico, come l’interessato preferisce.

Bella ciao…

         Diversamente dal giovane un pò anzianotto Scurati – come avrebbe forse detto la buonanima di Amintore Fanfani  rievocando il commissariamento del movimento giovanile democristiano disposto quando si accorse dei dati anagrafici degli iscritti che vi facevano carriera politica-  il vignettista del Corriere ha piazzato come intrusi la premier Meloni e il presidente del Senato Ignazio La Russa nella camera da letto del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al Quirinale, facendolo sobbalzare al risveglio. E ciò al suono o al canto metaforico della famosissima Bella Ciao in cui si racconta di quella mattina in cui “mi sono alzato e ho trovato l’invasor”

Vignetta di Vauro

         Vauro, SenesI di cognome, invece sul Fatto Quotidiano -e dove sennò- ha riproposto la Meloni indecisa davanti ad uno specchio se farsi notare più andando o più disertando la celebrazione della festa della liberazione. Ma ha optato per la prima soluzione, naturalmente, raggiungendo il capo dello Stato a Piazza Venezia per niente ridotto nelle condizioni immaginate da Giannelli, nè fisiche nè morali, o umorali.

La vignetta di ItaliaOggi

Fuori tema, ma fino ad un certo punto, può apparire la vignetta di  ItaliaOggi sulla povera -si fa per dire-segretaria del Pd Elly Schlein che festeggia il 25 aprile sognando la sua liberazione dalla catena delle cinque stelle di Giuseppe Conte a entrambi i piedi. Ma, quanto a catene di questo tipo, se ne possono immaginare altre ancora, e di altri, di vario colore o schieramento.

         Buona festa comunque a tutti. E buon viaggio a quelli che potranno profittarne per godersi un lungo ponte senza aspettare quello di Matteo Salvini sullo stretto di Messina.

Mattarella e Draghi insieme come tre anni fa, ma stavolta sul percorso europeo

Dal Dubbio

Presi fra la drammatica vicenda giudiziaria delle sevizie nel carcere minorile di Milano, che ha messo e mette a dura prova il mio garantismo, e la sconcertante fuga dalle urne nella Basilicata -pur dopo, o proprio a causa di una campagna elettorale preparata con i fuochi artificiali delle liti e degli sgambetti interni ed esterni alle due coalizioni contrappostesi- sono sfuggite la portata e il significato della convergenza ricreatasi fra il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e Mario Draghi. Ricreatasi, se mai si fosse davvero interrotta.

La sede della Commissione Europea

Questa volta la convergenza è avvenuta non su un passaggio della politica interna- come tre anni fa, quando il primo mandò il secondo a Palazzo Chigi per garantire un governo al Paese ritenendo di non potere sciogliere in quel momento le Camere anticipatamente- ma sulle prospettive europee. Alle quali, volenti o nolenti, chi per spingere e chi per frenare, sono chiamati a lavorare e ancor più lo saranno tutti i paesi dell’Unione, e relative forze politiche, nel Parlamento che sarà eletto a giugno.

         Ormai, nonostante la tormentata vicenda appena conclusa del nuovo patto di stabilità,  non si potrà che andare avanti sulla strada dell’Unione, non tornare indietro. Ce lo impone la cosiddetta geopolitica. Lo impongono le guerre che l’assediano, una delle quali -quella naturalmente in corso da più di due anni in Ucraina- entrata quasi come un’enclave in una Europa alla quale il paese aggredito e invaso dalla Russia di Putin si è proposto ottenendo la disponibilità ad accoglierlo, non certo un rifiuto.

Scsula von der Leyen

         Per andare avanti, al passo impostole -ripeto- dalla geopolitica e dall’istinto, direi, di sopravvivenza, l’Unione Europea ha bisogno di una riforma “radicale”, ha detto Mario Draghi anticipando un rapporto sui problemi della competitività apprezzabilmente chiestogli dalla Commissione uscente presieduta da Ursula von der Leyen. Una riforma “incisiva e coraggiosa”, ha detto Mattarella. Il cui mandato al Quirinale è stato rinnovato poco più di due anni fa, per cui ne ha ancora cinque a disposizione. Che, conoscendo l’uomo del Colle, non trascorreranno certamente inoperosi o passivi, né dentro né oltre i confini nazionali, per quel che ancora essi valgano e continueranno a valere nel percorso comunitario ancora incompleto.

         L’asse istituzionale creatosi fra Mattarella e Draghi nel 2011, scambiato nella casa grillina e dintorni per un “Conticidio” e approdato così nelle librerie con la firma del direttore del Fatto Quotidiano, si tradusse in una maggioranza politica con ripetute fiducie parlamentari. Che si interruppero nell’estate dell’anno dopo con lo sbocco a quel punto inevitabile delle elezioni anticipate. A loro volta sfociate nel governo attuale che, pur presieduto da una ex oppositrice di Draghi, la leader della destra Giorgia Meloni, ne ha ereditato e sviluppato la qualificante politica estera. E’ sembrato e sembra un paradosso, ma è semplicemente la realtà.

         Chissà se quell’asse -ripeto- appena ritrovato con o nelle parole di Draghi e Mattarella, in ordine alfabetico, non riuscirà a tradursi nel nuovo Parlamento europeo, con il concorso di forze politiche capaci di confluire in una nuova maggioranza, come nel Parlamento italiano fra il 2011 e il 2012. Ma questa volta in una prospettiva più lunga. Chissà.

La sede del Parlamento europeo

         Si sono già levate voci preoccupate, anche di miei colleghi e amici carissimi, per il rischio di un vulnus della democrazia rappresentativa, chiamata ad adeguarsi a operazioni di vertice piuttosto che crearne di proprie. Ma è un timore che francamente, e personalmente, non avverto perché convinto che nessuno voglia o possa comunque congiurare, piuttosto che lavorare, confrontarsi e infine decidere nelle sedi proprie. Dalle quali sicuramente non si lascerà escludere l’Europarlamento che tutti saremo chiamati ad eleggere fra poco, accorrendo alle urne -spero, condividendo l’auspicio del capo dello Stato- non con l’affluenza minoritaria delle elezioni regionali appena svoltesi in Basilicata. Dove tutto alla fine è risultato virtuosamente -si fa per dire- dimezzato: sia la vittoria del confermato centrodestra, sia la sconfitta del campo più o meno largo a comune partecipazione del Pd di Elly Schlein e delle 5 Stelle di Giuseppe Conte. Non parliamo poi del terzo incomodo nella corsa al governatorato dal nome – Follia- già sfortunato di suo.

Pubblicato sul Dubbio

Fra le consolazioni e gli incubi della segretaria del Pd al Nazareno

         Nella disgrazia della sconfitta in Basilicata, dove ha notoriamente stravinto il centrodestra con la conferma del governatore uscente Vito Bardi, la segretaria Elly Schlein si è consolata con quel quasi 14 per cento di voti -13,9- conseguito dal suo Pd quasi doppiando l’alleato ma anche concorrente movimento di Giuseppe Conte, sceso dalle due cifre abituali in quella regione al 7.7.

Dalla prima pagina del Corriere della Sera

Tramite il Corriere della Sera la donzella del Nazareno ha mandato all’ex premier un “messaggio” definito “unitario” in un’altra intervista, rilasciata al manifesto: “Basta veti reciproci”. Con i quali infatti si finisce sempre per perdere con un centrodestra per giunta allargato ai pur litiganti, rissosi e quant’altro Carlo Calenda e Matteo Renzi. Un miracolo, quest’ultimo, che solo la Schlein e Conte insieme potevano produrre regalandoli alla coalizione di Giorgia Meloni.

         In questa consolazione della segretaria del Nazareno c’è tuttavia qualcosa che non funziona, non risponde alla realtà. Qualcosa che rende la Schlein più illusa che consolata. E con lei il partito che le è alle spalle e dal quale, a questo punto, lei deve aspettarsi sempre più problemi, sino alla resa dei conti toccata a tutti i suoi predecessori: da Walter Veltroni, il primo segretario, a Pier Luigi Bersani, da Matteo Renzi a Nicola Zingaretti e ad Enrico Letta, saltando i più o meno reggenti Dario Franceschini e Guglielmo Epifani, se non ho dimenticato qualcun altro.

         I veti lamentati dalla Schlein non sono stati “reciproci”. Sono stati tutti o prevalentemente di Conte contro il Pd e i suoi candidati: un Conte che in occasione delle elezioni regionali sarde raccontò di non avere dovuto fare neppure una telefonata al Nazareno per imporre l’aspirante grillina alla presidenza. Che per sua fortuna riuscì a vincere grazie alla debolezza del candidato contrappostole dalla Meloni in persona, nonostante le resistenze di Matteo Salvini a favore del governatore uscente. Cui alla fine diede il colpo di grazia la solita magistratura.

La vignetta di ItaliaOggi

         Illusoria infine mi sembra anche la consolazione del “Movimento 5 Meteore” della vignetta di ItaliaOggi forse piaciuta alla Schlein  pensando alle dimensioni cui si è ridotto il partito di Giuseppe Conte in Basilicata, non dissimili d’altronde da quelle sarde pur così generosamente premiate dal Pd.

Giuseppe Conte

         A livello nazionale -purtroppo per la Schlein, e i suoi amici e amiche di partito, o compagni e compagne, come in molti si chiamano fra loro tenendosi ben stretta fra le mani la tessera stampata con la fotografia degli occhi di Enrico Berlinguer- quel diavolo di Conte riesce ancora a rimanere sulle due cifre. Un sondaggio Swg appena sfornato per il telegiornale de la 7 dà il Pd al 20 per cento, con un guadagno dello 0, 6 in soli sette giorni, fra il 15 e il 22 aprile, ma il movimento dell’ex premier grillino al 15,9, distanziato praticamente di soli quattro punti. Un incubo, direi, più che una consolazione.

Ripreso da http://www.startmag.it

Vittoria e sconfitte dimezzate in Basilicata dall’astensionismo

         Non per guastare la festa a nessuno- né al governatore di centrodestra Vito Bardi confermato, né al Pd di Elly Schlein che nel campo dell’opposizione ha doppiato il concorrente movimento di Giuseppe Conte, sceso ad una cifra, il 7 e mezzo per cento, dalle due che vantava orgogliosamente- ma i risultati elettorali regionali della Basilicata segnano desolatamente il dimezzamento sia della vittoria sia della sconfitta. O le sconfitte, al plurale, se vogliano considerare anche il terzo e misero ingombro di un candidato già debole, diciamo così, nello sfortunato cognome di Follia, e di nome Eustachio.

Il titolo di Avvenire

         La maggioranza in quella regione, non a caso confinante con un’altra -la Puglia- messa alquanto male sul piano politico e mediatico, è stata conquistata in realtà dall’astensionismo, salito dal 46,5 per cento delle precedenti elezioni dello stesso livello, nel 2019, al 50,20 per cento di questa volta. E’ andato cioè a votare meno della metà dell’elettorato. Che ha pertanto risposto con un misto di indifferenza e di disprezzo agli appelli di un po’ tutti i partiti, e le famiglie, anche nel vero senso della parola, scesi in campo più per scannarsi fra di loro che per offrire soluzioni ai problemi della popolazione. E’ desolatamente vero -ripeto-  il titolo di apertura scelto da Avvenire, il quotidiano dei vescovi italiani, per annunciare il risultato delle votazioni: “L’astensione vince”, appunto.

Il titolo del Corriere della Sera

         A rimetterci di più sembra, almeno dai risultati sinora disponibili, il partito dell’ex premier Conte, pur così sicuro di sé nelle sue escursioni, o incursioni, secondo i casi, nel campo che lui vorrebbe “giusto” ma finisce sempre, o quasi, per rivelarsi insufficiente al successo. La recete rondine sarda, peraltro volata con le ali bagnate di una minoranza e non maggioranza di voti e già caduta in Abruzzo, non ha fatto primavera. Ora forse il presidente delle 5 Stelle conta di rifarsi alle elezioni europee di giugno sventolando il nome della pace, stampato nel simbolo come una bandiera, e scommettendo sull’infortunio appena occorso a livello nazionale alla Schlein con quel goffo tentativo di intestarsi come in una targa un partito dove i segretari si succedono con la frequenza dei birilli che cadono al bowling.

La vignetta della Gazzetta del Mezzogiorno

         Nel campo pur vincente del centrodestra, allargato in Basilicata non si sa ancora se in modo determinante sia a Carlo Calenda che a Matteo Renzi, il partito di Giorgia Meloni ha dovuto accontentarsi di un primato al 16,4 per cento dei voti, dieci meno della media nazionale. E la Lega di Matteo Salvini è stata superata di quasi cinque punti da Foza Italia, di cui aveva neppure tanto nascosto il proposito, prima della presentazione delle liste, di contrastare l’ambizione alla conferma del “suo” governatore uscente. Che invece si è guadagnata la vignetta della Gazzetta del Mezzogiorno sull’uscita e sul rientro, come in un albergo con la porta girevole, dell’ex generale della Guardia di Finanza Vito Bardi. Attenti, e riposo.

Le 24 ore della Schlein nipotina della buonanima di Berlusconi

Dal Dubbio

Ma come, Elly, benedetta ragazza, anche se un po’ cresciuta. Perché ti è saltato in mente di mettere il tuo nome nel simbolo del partito -come Silvio Berlusconi a suo tempo e ancora oggi, da morto, col suo- appena dopo avere intestato “la ditta”, come la chiamava Pier Luigi Bersani, alla buonanima di Enrico Berlinguer? Dei cui inconfondibili occhi, paradossalmente misti di tristezza e allegria, gli iscritti al Pd quest’anno trovano la foto sulla tessera, destinata magari a sopravvivere nella collezione con quelle successive e precedenti.

E’ stata una decisione, questa sul ricorso all’immagine berlingueriana nel 40.mo anniversario della morte, che pure è costata alla segretaria piddina parecchie polemiche nell’area post-democristiana, ma non solo, affrettatasi a prenotare per gli anni prossimi un santino compensativo, a scelta fra don Luigi Sturzo, Alcide De Gasperi, Aldo Moro. Ma anche -perché no?- Amintore Fanfani.

Giulio Andreotti

Non mi spingo fino a Giulio Andreotti nel Pantheon del Pd un po’ per non farlo rivoltare nella tomba e un po’ per evitare che nell’occasione riparta contro di lui, pur da morto, una fatwa del suo ex grande accusatore ancora sulla scena con articoli e interviste. E’ naturalmente  Gian Carlo Caselli, convinto che quella dell’ex presidente del Consiglio imputato di mafia non fosse stata un’assoluzione piena ma a metà, mista ad una prescrizione inemendabile. E pazienza se nel frattempo la cosiddetta giurisdizione superiore ha ammonito a non scambiare la prescrizione per condanna, e praticamente diffidato altre Corti dal ripetere l’errore al quale invece l’ex capo della Procura della Repubblica di Palermo è rimasto attaccato come l’edera a un muro. E la lucida lui stesso ogni volta che qualche polemica gliene offre l’occasione, togliendole la polvere del tempo.

Un altro aspetto sorprendente della tentazione avvertita dalla Schlein, magari per reggere il confronto con Giorgia Meloni, l’antagonista con la quale attendiamo ancora tutti il confronto diretto in televisione promesso da entrambe, è la contraddizione fra la personalizzazione insita nel nome stampato nel simbolo e la contrarietà di principio, di carattere quasi costituzionale, al cosiddetto premierato all’esame del Senato, su iniziativa del governo in carica. O, in alternativa e persino in aggiunta, come ha detto di recente la Meloni, il presidenzialismo inteso come elezione diretta del presidente della Repubblica.

Nulla di personale, per carità, a proposito di personalizzazione, ma certe cose andrebbero approfondite e chiarite, prima di infilarsi in polemiche e avventure politiche delle quali si è poi costretti a riconoscere sempre troppo tardi l’errore, quando non è più possibile rimediarvi per gli effetti che ha già prodotto. Questa volta, grazie a Dio, il ripensamento sul simbolo è arrivato presto, ma il passaggio è rimasto infelice.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it

Polvere di partiti, come stelle, sulle elezioni europee di giugno

Voto in Basilicata

         Sulle votazioni regionali in Basilicata -si vedrà se e con quale ulteriore calo dell’affluenza alle urne, ormai cronico un po’ dappertutto negli appuntamenti elettorali- hanno prevalso le notizie tutte romane della presentazione dei simboli dei partecipanti al rinnovo del Parlamento europeo, fra meno di due mesi, e della preparazione delle candidature.

Giuseppe Conte

         Il più furbo pensa forse di essere stato Giuseppe Conte recandosi personalmente al Viminale per vantarsi di avere messo la pace -come parola- nel simbolo del Movimento 5 Stelle da lui presieduto. Come per dare dei guerrafondai, o comunque poco sensibili sul tema, a tutti gli altri. Ma soprattutto al Pd di Elly Schlein, già da lui rimproverata, in uno degli scontri che si inseguono da mesi, di non avere tolto al suo partito “l’elmetto” infilatogli dal predecessore Enrico Letta prima delle elezioni politiche anticipate del 2022: quando partecipò a suo modo alla difesa dell’Ucraina dall’aggressione della Russia di Putin. Conte invece proprio o soprattutto su questo aveva rotto non solo col Pd ma, nel proprio partito, con Luigi Di Maio ancora ministro degli Esteri. Che ne aveva denunciato i contatti con l’ambasciata russa in Italia, attivissima contro l’Ucraina, per attenuare e cercare addirittura di rovesciare la linea atlantista ed europeista del governo di Mario Draghi.

Michele Santoro

         Alla pace, ma anche alla terra e alla dignità, ha intestato le sue liste alle elezioni europee anche l’esordiente capo Michele Santoro, di cui chissà se e in che misura teme la concorrenza l’ex premier grillino, in subordine naturalmente a quella che in questo caso egli non subisce ma alimenta nei rapporti col Pd. Dove tuttavia è esploso il solito, mezzo putiferio apparentemente di metodo, ma in realtà di sostanza e persino di identità.

Romano Prodi

         La decisione della segretaria di candidarsi personalmente, pur col sostegno del presidente del partito ed ex concorrente alla segreteria Stefano Bonaccini, non ha trattenuto quella mezza icona che viene ancora ritenuta Romano Prodi dal rinnovare all’esterno il suo dissenso. Anzi, la sua protesta per lo scarso rispetto che si mostra per la democrazia candidandosi -come tuttavia fanno anche altri leader o leaderini di partito- ad un seggio cui si sa in anticipo di dovere rinunciare, solo nella presunzione di misurare la propria popolarità e di tirare la volata ad altri aspiranti all’euroseggio destinati a subentrare.

Dalla prima pagina del Corriere della Sera

         Ma oltre che sulla propria candidatura è scoppiato un caso al Nazareno per la volontà della Schlein di mettere il proprio nome nel simbolo delle liste del Pd. E anche ciò col consenso di Bonaccini, cui la segretaria ha concesso la postazione di capolista nella circoscrizione di cui fa parte la regione che lui presiede, cioè l’Emilia-Romagna. Dio mio, che vespaio. Impraticabilità di campo, ha raccontato in televisione Alessandro De Angelis, da Fabio Fazio

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