La guerricciola inutile degli avvocati milanesi a Piercamillo Davigo

            A vent’anni dalla morte di Bettino Craxi, odiato ancora dai suoi vecchi avversari nonostante la pietà animata nelle sale cinematografiche con la rappresentazione dei suoi ultimi anni e giorni di vita lontano dall’Italia,  e a ventotto dal clamoroso lancio di quel missile giudiziario che si sarebbe rivelato l’inchiesta “Mani pulite”, abbattutosi sulla cosiddetta Prima Repubblica incenerendola, può stupire sino ad un certo punto che il Consiglio Superiore della Magistratura abbia delegato la propria rappresentanza all’inaugurazione dell’anno giudiziario ambrosiano a Piercamillo Davigo. Che fu tra i protagonisti -il più “sottile” a attrezzato professionalmente, si dice ancora- di quell’inchiesta, tenutosi poi prudentemente lontano dalla politica, diversamemte dal suo collega Antonio Di Pietro o dal suo superiore Gerardo D’Ambrosio.

            Non può stupire neppure la fretta per niente imbarazzata con la quale sono state liquidate la proteste degli avvocati milanesi, motivate non dal passato ma dal presente. Essi sono rimasti appesi alle loro critiche alle opinioni che Davigo usa esprimere sul lavoro forense come Matteo Salvini a quel disgraziato citofono bolognese che gli è costato probabilmente la “prima” sconfitta elettorale dopo più di un anno di successi.

            La sorpresa maggiore tuttavia è venuta dagli avvocati non milanesi, diciamo così, rimasti sostanzialmente alla finestra nel timore di apparire anch’essi  impegnati a discutere della libertà di Davigo di esprimere le sue pur opinabili opinioni ogni qualvolta gliene capiti l’occasione, davanti ad un microfono o in un salotto televisivo: per esempio, quella di considerare gli innocenti come scampati alla condanna. Che è un’opinione certo, ma un po’ forte, e persino traumatica per uno sfortunato di media cultura che si aspetta francamente altro da un magistrato.

            Forse la scarsa considerazione che Davigo mostra ogni tanto di avere degli avvocati nasce proprio dall’opinione, anch’essa liberissima, che siano troppo bravi a trasformare i colpevoli in innocenti, con tanto di sentenze non di odiata prescrizione ma di assoluzione per non vare commesso il fatto o perché il fatto non sussiste. Non parliamo poi degli avvocati a patrocinio cosiddetto gratuito. Che, già pagati troppo generosamente da uno Stato che si fTitolo su Davigo il 9 gennaio.jpega imbrogliare da falsi non Fatto su Davigo.jpegabbienti, fanno a difesa dell’imputato di turno “più atti possibile per aumentare la parcella”, non perché essi servano sempre, e davvero, ad aiutare o salvare l’imputato. Ma ce n’è -per esempio, in una lunga intervista di Davigo pubblicata il 9 gennaio scorso dal Fatto Quotidiano e raccolta personalmente, con la solita diligenza, dal direttore in persona Marco Travaglio- anche per gli avvocati a patrocinio non gratuito per quella loro mania di appellarsi sempre e comunque ad una sentenza di condanna, tanto per non fare la figura dei “fessi” e per ritardare, male che vada, l’esecuzione della pena detentiva.

            Ebbene, poiché il carcere – sentite questo sillogismo di Davigo- ha per dettato costituzionale, e per fortuna, una natura rieducativa, redentrice o com’altro volete chiamarla, l’avvocato Davigo su rieducazione.jpegche ne procura il rinvio finisce per nuocere al suo stesso cliente, ritardandone la guarigione. E ringrazi Dio, questo avvocato, se a nessun procuratore o sostituto procuratore della Repubblica emulo della sensibilità e della scienza di Davigo non sia ancora venuta l’idea, che si sappia, di indagarlo e farlo processare per il danno ingiusto procurato al suo cliente.

            E meno male -va detto con un certo sollievo- che a suo tempo Davigo, quando lavorava nel pool di “Mani pulite” sentì il bisogno e l’opportunità di smentire il proposito attribuitogli di scambiare i suoi uffici per una sartoria, lavanderia e qualcosa del genere, dove “rivoltare l’Italia come un calzino”. Che fu una leggenda tradotta da molti elettori – non so dire con franchezza, dopo tanti anni, se fortunatamente o sfortunatamente- nella scelta di affidare quel compito non ai magistrati ma a Silvio Berlusconi, facendogli vincere le elezioni politiche del 1994. E pentendosene già dopo qualche settimana, quando i più informati, almeno, appresero che il Cavaliere da presidente del Consiglio malvolentieri incaricato da Oscar Luigi Scalfaro aveva offerto il Ministero della Giustizia ad Antonio Di Pietro, ancora sostituto procuratore a Milano, e acarezzato l’idea di proporre il Ministero dell’Interno a Davigo, o viceversa se i due avessero voluto.

            Ah, come sono andate le cose, prima ancora di come vanno, in questo nostro stupefacente e imprevedibile Paese.

 

 

 

 

 

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Tra le verifiche del governo Conte e del movimento 5 Stelle affidato a Crimi

            In attesa della verifica del governo e della maggioranza affidata alla mediazione del presidente del Consiglio Giuseppe Conte accontentiamoci di quella avviata sotto le cinque stelle, sempre all’interno della maggioranza, da Vito Crimi, reggente del movimento che, per quanto malmesso da qualche tempo a questa parte nelle urne, continua a disporre dei gruppi parlamentari più grandi e svolge quel ruolo centrale, cioè determinante, che fu una volta della Dc. Non dico che essi continui a disporre della chiave della legislatura, perché questa è affidata dalla Costituzione alle mani del presidente della Repubblica, ma quasi.

            Per non cadere in equivoci seguiamo la verifica fra i grillini, allungatasi nei tempi quasi Crimi al Fatto.jpegscaramanticamente da metà marzo, e dalla memoria delle idi che costarono la vita a Cesare, al succesivo mese di giugno, dopo il referendum confermativo sui tagli alle Camere, seguendo Crimi per quello che ha appena detto ad un giornale di fiducia come Il Fatto Quotidiano. Che non a caso vi ha aperto la sua prima pagina, quasi con l’orgoglio di uno scoop.

            Pur deluso dall’andamento del suo primo incontro, dopo le dimissioni di Luigi Di Maio da capo, con i parlamentari del suo movimento per averli sentiti mormorare alla fine che “non c’è dialogo”, Crimi si sente un po’ l’uomo indicato dalla Crimi 1 .jpegProvvidenza per il cammino che attende i grillimi. Già primo capogruppo del movimento al Senato e fra i primi candidati a governatore regionale nella breve storia del quasi partito in cui milita, egli ha immodestamente osservato che “ogni volta che bisogna aprire una strada” tocca a lui.

            Ma qual è la strada che deve imboccare Crimi? Quella della partecipazione al centrosinistra desiderata da Grillo fra le sue apnee notturne, e forse anche diurne, o alla più generica “area vasta dello sviluppo sostenibile”, come l’ha recentemente definita il presidente del Consiglio Conte, corteggiato sempre più insistentemente dal segretario Pd Nicola Zingaretti come l’uomo o il punto di riferimento dei “progressisti” per ora solo italiani?  Non sembra proprio, visto che al reggente Il Fatto Quotidiano fa dire tra virgolette, sin nel sommario del titolo, che “se si colloca in un campo politico il Movimento non esiste più”.

            Mentre continuano a partire dall’interno del Pd, in vista delle elezioni regionali di primavera, richieste, appelli e quant’altro per fare alleanze antisalviniane allo scopo di non dare o confermare al centrodestra non dico la rossissima Toscana ma la Puglia, la Campania, la LiguriaCrimi 4 .jpeg e altro ancora, Crimi ha spiegato che “individueremo i nostri candidati consiglieri e presidenti in Rete, come sempre”. “Il regolamento -ha spiegato o ricordato il reggente- consente comunque al capo politico di proporre un candidato esterno, ma in questo caso deve essere sottoposto agli iscritti”, secondo un percorso quidi che sembra francamente più di guerra che di pace, per come si sono messe le cose nel movimento grillino, spaccato in almeno tre tronconi, secondo l’immagine offerta al pubblico sempre dal giornale che di ciò che vi accade è il più informato, a prova anche delle smentite di turno destinate a rivelarsi farlocche in pochi giorni.

            Un’ultima postilla va segnalata dell’intervista a cuore aperto di Crimi al Fatto Quotidiano sulle prospettive della verifica di governo, alla quale progetti, non accordi.jpegegli parteciperà con tutti i poteri della sua carica. Quelli che dovessero essere raggiunti tra le forze della maggioranza giallorossa non potrebbero essere chiamati “accordi” ma “progetti, in modo cioè più generico e meno vincolante.       

L’antisalvinismo ormai esistenziale di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi

A Giuseppe Conte, nonostante l’ermetismo facciale impostosi nello studio televisivo di Lilli Gruber per proteggersi dalle allusioni, curiosità, malizie professionali e quant’altro della conduttrice sui suoi progetti politici dopo avere festeggiato in piazza, davanti a Palazzo Chigi in una specie di conferenza stampa improvvisata, la sconfitta di Matteo Salvini in Emilia-Romagna, non è sfuggito un sorriso imbarazzato quando, collegato dall’esterno, Massimo Cacciari gli ha ricordato che i leghisti governano le regioni di tutto il resto del Nord produttivo del Paese. E ciò senza parlare di quelle conquistate nel Centro e nel Sud d’Italia, ultima la Calabria, nelle elezioni successive a quelle politiche del 4 marzo 2018.

L’antisalvinismo, cominciato il 20 agosto dell’anno scorso nell’aula del Senato con l’attacco mosso al suo ancòra ministro dell’Interno e vice presidente del Consiglio tenendogli una mano sulla spalla, è ormai diventato una corazza per il presidente del Consiglio. Che pensa probabilmente di essere così al sicuro un po’ dall’oggettivo marasma interno al movimento grillino -che lo ha portato a Palazzo Chigi, adesso in caduta libera di voti e diviso in tre tronconi, come ha raccontato all’insospettabile Fatto Quotidiano l’altrettanto insospettabile senatore pentastellato Massimo Bugani- e un po’,  ma forse ancor di più, dal cambiamento di passo, dalla svolta e persino dalla “modifica dell’asse politico del governo” chiestogli dal Pd, per ripetere l’espressione del vice segretario Andrea Orlando.

“Grande” sarà stata, come dice Conte, la sconfitta di Salvini ma altrettanto grande, se non ancora di più, è stata la paura della sinistra di perdere la partita, per cui non ha avuto torto il già citatoMassimo Cacciari.jpeg e insospettabile Cacciari a ricordare al presidente del Consiglio anche l’inedita contendibilità della regione più rossa del Paese, o la seconda dopo la Toscana: una cosa inimmaginabile sino a qualche anno fa, a prova addirittura di una disaffezione dalle urne come quella verificatasi nelle precedenti elezioni regionali, cui partecipò soltanto poco più di un terzo dell’elettorato, senza che il Pd si sentisse minimamente in pericolo.

Questa volta “i rossi” hanno dovuto mobilitarsi davvero, portando con le buone o le cattive, come si dice di solito, tra salsicce e sardine, il loro elettorato alle urne e salvandosi non dico per il rotto della cuffia -visti gli otto punti finali di distacco fra il governatore vincente e l’antagonista diretta-  ma quasi. Penso agli errori di Salvini, il più clamoroso dei quali resta quell’incredibile ricorso al citofono del tunisino sospettato di spaccio di droga, il cui video  hanno dovuto rimuovere anche quelli di Facebook, e al cosiddetto voto disgiunto di quel che è rimasto dell’elettorato grillino, in parte accorso in aiuto del governatore piddino uscente e rientrato.

            Un altro momento della prestazione politica di Conte nel salotto televisivo della Gruber che non mi ha francamente convinto -e credo non abbia convinto neppure la conduttrice, pur notoriamente critica verso Salvini- è quello in cui il presidente del Consiglio ha cercato di liquidare il problema delle distanze ormai assunte fra la geografia politica del Parlamento e quella del Paese dopo i rovesci grillini, l’espansione del centrodestra e la ripresa del Pd, nonostante la scissione subìta di recente ad opera di Matteo Renzi. “Non si può votare per le Camere ogni mese, come si fa con i sondaggi”, ha detto pressappoco, e pradossalmente, il presidente del Consiglio. Che avrà dalla sua, per carità, la Costituzione con la durata quinquennale della legislatura, durante la quale sono teoricamente possibili tutti i cambiamenti di maggioranza, persino a guida del governo invariata, com’è accaduto appunto con lui qualche mese fa, ma converrà pure che la stessa Costituzione contempla il ricorso anticipato alle urne.

            Si dice, a sostegno della durata quasi ad ogni costo della legislatura cominciata nel 2018, che queste Camere hanno il diritto di eleggere fra due anni il presidente della Repubblica, alla scadenza del mandato di Sergio Mattarella, e che sarebbe improprio, pericoloso e quant’altro lasciarne il compito a nuove Camere a maggioranza prevedibilmente di centrodestra, per giunta a trazione leghista.

Ebbene, è improprio anche il tentativo di buttare nella polvere o nel polverone della lotta politica l’elezione del presidente della Repubblica, mettendo peraltro a disagio quello in carica perché lo si espone addirittura al sospetto che possa ambire alla rielezione e si tenga perciò stretto il Parlamento in carica. Inoltre, sinora da Salvini è uscita per il Quirinale solo la disponibilità a votare per un’eccellenza come Mario Draghi, fra le proteste peraltro della sua alleata Giorgia Meloni. Ma, a parte tutto questo, mi chiedo se sono proprio sicuri i custodi ad oltranza di questa legislatura che con la forte riduzione dei seggi parlamentari, in via di ratifica col referendum appena indetto per il 29 marzo, le Camere attuali non siano state a tal punto superate, se non delegittimate, da mettere in imbarazzo qualsiasi presidente della Repubblica dovessero eleggere nel 2022, e destinato a rimanere in carica sino al lontano 2029. Sarebbe più logico e virtuoso farlo eleggere dal Parlamento nelle sue nuove dimensioni, e non solo dimensioni.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

La quasi rimozione di Di Maio da capo della delegazione grillina al governo

             L’ascesa del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede a capo della delegazione del suo movimento al governo è avvenuta in circostanze e modalità più importanti o significative dello stesso fatto in sé. Esse aiutano a capirne le ragioni, o a intravvederne gli effetti.

            Innanzitutto il reggente delle 5 Stelle Vito Crimi, dopo le dimissioni di Luigi Di Maio da “capo politico”, ha voluto incontrarsi prima a Milano con Davide Casaleggio e poi a Roma con i ministri e i sottosegretari del movimento per la soluzione del problema posto, in verità, più da lui stesso che dal suo predecessore alla testa dellla formazione grillina. Basta rileggersi bene e risentire la registrazione dell’intervento di Di Maio al tempio di Adriano, con l’annuncio Di Maio.jpegdella sua rinuncia, per rendersi conto ch’essa riguardava solo la carica di capo politico, appunto, del movimento e non di capo della delegazione al governo. Dove peraltro come ministro degli Esteri ha la funzione più alta fra tutti i colleghi, anche se il suo arrivo alla Farnesina sembrò, in verità, più un premio di consolazione che una promozione, non essendo egli riuscito ad ottenere né la conferma a vice presidente del Consiglio né la nomina a ministro dell’Interno, al posto dell’autodefenestrato ed ex alleato Matteo Salvini.

            Alla riunione dei ministri e dei sottosegretari convocata dal reggente Crimi, peraltro vice ministro dell’Interno, non ha partecipato Di Maio, formalmente preso dai suoi impegni internazionali e dall’emergenza della polmonite cinese che ha coinvolto anche la Farnesina per le competenze delle misure di prevenzione e di assistenza, protezione e quant’altro degli italiani presenti nel paese dove è scoppiata l’epidemia.

            L’elezione del nuovo capo della delegazione è infine avvenuta per acclamazione, con tutti gli inconvenienti interpretativi cui una simile modalità si presta, a cominciare da quella dose così troppo grande di trasparenza da nascondere l’opposto, cioè il massimo della nebbia. Credo che sia una novità assoluta una sostanziale rimozione, sia pure indiretta, avvenuta per acclamazione.

            Tra le circostanze, diciamo così, curiose dell’ascesa di Bonafede a capo della delegazione grillina al governo va messa anche l’ufficializzazione, in qualche modo, della divisione in tre filoni del Movimento delle 5 Stelle sul giornale che ne riflette maggiormente gli umori, ne fotografa più da vicino gli aspetti e spesso ne anticipa anche gli indirizzi, o indirizza direttamente gli interessati, com’è avvenuto nelle elezioni regionali in Emilia-Romagna. In occasione delle quali il direttore in persona del giornale ha promosso il cosiddetto voto disgiunto a favore della conferma del governatore piddino uscente.  Si era spinto, poveretto, a raccomandare il voto disgiunto anche in Calabria prima di essere avvertito che lì non si poteva fare per legge e di scusarsi con franchezza per l’errore. Sto scrivendo naturalmente del Fatto Quotidiano, che ha appena intestato su tutta la sua prima pagina i tre “tronconi” grillini anticipati genericamente il giorno prima sullo stesso giornale con una intervista dal senatore pentastellato Massimo Bugani.

            “Parte la corsa tra Contiani, Dibba e Dimaiani”, ha titolato il giornale diretto da Marco Travaglio. Per contiani debbono essere ovviamente considerati i fans del presidente del Consiglio Il Fatto.jpegGiuseppe Conte, per Dibba l’apparentemente turista, per ora, Alessandro Di Battista e per Dimaiani i tifosi del giovane e adesso semplice ministro degli Esteri, cui molti attribuiscono, a torto o a ragione, progetti di ritorno alla guida del movimento su posizioni né di destra né di sinistra, e quindi contrarie all’appartenenza organica ad uno dei due poli comunque definibili -progressisti e conservatori, centrosinistra e centrodestra- immaginati, perseguiti e quant’altro da Conte e dal segretario del Pd Nicola Zingaretti.

            Bonafede ha sempre non dichiarato ma ostentato la sua amicizia con Di Maio, ma ancora prima di lui egli aveva conosciuto, frequentato, apprezzato e introdotto nel movimento grillino l’allora suo professore di diritto Giuseppe Conte. Alla cui mediazione il guardasigilli si è appena rimesso nella partita delicatissima della prescrizione, in cui potrebbe inciampare il governo giallorosso, dove cresce giustamente la paura che la riforma sostanzialmente soppressiva della  prescrizione introdotta proprio da Bonafede come una supposta , a suo tempo con la guardia abbassata degli allora alleati leghisti, nella legge nota come “spazzacorrotti”, si traduca nei processi a vita, una volta emessa la sentenza di primo grado.

            Ebbene, Bonafede è l’unico al quale Conte potrebbe fare ingoiare come guardasigilli e capo della delegazione grillina al governo il rospo di una sostanziale riscrittura della sua riforma sventolata come una bandiera rivoluzionaria indovinate da chi? Dal Fatto Quotidiano, naturalmente.              

Primi e immediati avvisi a Conte dal Pd, ma un pò anche dal Quirinale

            A smentire o contraddire la sicurezza ostentata dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte godendosi “la grande sconfitta” dell’ex alleato e ora rivale assoluto Matteo Salvini nelle elezioni Andrea Orlando.jpegin Emilia-Romagna ha provveduto il vice segretario del Pd Andrea Orlando. Il quale -più esplicitamente del segretario Nicola Zingaretti, secondo cui “non cambiano gli equilibri” ma occorre “una nuova fase” nell’azione dell’esecutivo- ha detto che il risultato elettorale nella regione più rossa d’Italia, analogo a quello di colore pur opposto della Calabria nella parte riguardante il crollo dei grillini, “modifica l’asse politico del governo su molte questioni”. Fra cui primeggiano nelle competenze dell’ex guardasigilli Orlando quelle naturalmente della giustizia, a cominciare dalla durata dei processi da definire con rigore ora che la prescrizione scompare con la sentenza di primo grado.

            All’uscita del vice di Nicola Zingaretti il reggente del Movimento 5 Stelle Vito Crimi ha reagito seccamente Vito Crimi.jpegsostenendo che “i rapporti di forza” fra le componenti del governo “non cambiano”, non essendosi votato per il rinnovo del Parlamento, dove pertanto i grillini continuano a disporre della maggioranza relativa. Sarebbe pertanto il Fatto.jpegirrilevante anche la spaccatura ormai del Movimento in tre parti, come ha appena raccontato all’insospettabile  Fatto Quotidiano un personaggio non certo di secondo piano come Massimo Bugani, Max per gli amici,  eletto senatore nelle liste pentastellate.

            Più loquace di Crimi è stato per i grillini il sottosegretario dell’ex capo del movimento Luigi Di Maio al Ministero degli Esteri Manlio Di Stefano.jpegManlio Di Stefano. Che ha definito quelle di Andrea Orlando “bislacche fughe in avanti”, inaccettabili pur considerando “la giusta esultanza” del Pd per la scampata sconfitta in una regione così profondamente legata alla storia della sinistra come l’Emilia-Romagna.

            Oltre che ad Orlando e al Pd, o ancor più che all’uno e all’altro, i messaggi di Crimi e Di Stefano sono ovviamente rivolti a Conte in persona perché, magari distratto dalla sardina messagli nel taschino della giacca dal vignettista Stefano Rolli, non dimentichi di essere a Palazzo Chigi su designazione e per volontà dei grillini. Che si aspettano da lui non dico riconoscenza, perché questo è un sentimento non molto Rolli.jpegorganico alla politica, ma il rispetto degli impegni evidentemente presi nel momento della risoluzione della crisi di governo provocata nella scorsa estate da Salvini. Allora il Movimento 5 Stelle alleandosi col Pd ne rifiutò la richiesta di “discontinuità” a Palazzo Chigi e impose la conferma del premier uscente a tutela della posizione del partito ancòra di maggioranza.

            Dietro la disputa aperta dal vice di Zingaretti sulla conferma o modifica dell’”asse politico” s’intravvede Guido Alpa.jpegl’arrivo al pettine di un nodo indicato di recente dall’amico e maestro di Conte, l’avvocato Guido Alpa, sulla scelta che prima o poi aspetta il suo allievo: fra il Pd e il movimento che lo ha portato politicamente così in alto.

            Alla realtà delle cose, come all’invito rivolto dal capo dello Stato Sergio Mattarella tramite  il quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda a “non galleggiare”, non si riesce a scampare a lungo limitandosi a cavalcare l’antisalvinismo.  

 

 

 

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Matteo Salvini ha perduto in Emilia-Romagna, ma l’Italia si è sgrillinizzata

            Le cronache riferiscono di un presidente del Consiglio in festa incontenibile per i risultati elettorali in Emilia-Romagna, che lo avrebbero ripagato delle brutte notizie, ma largamente previste, anzi scontate, giunte dalla Calabria. Dove il centrodestra con una candidata forzista alla presidenza non ha vinto ma stravinto con ben più di venti punti di distacco dal candidato del centrosinistra, nel contesto tuttavia di una modesta affluenza alle urne.

            In Emilia-Romagna invece l’uomo che dall’estate scorsa ha tolto il sonno, diciamo così, al capo del governo e ne è  diventato il più accanito avversario, Matteo Salvini, ha dovuto subire quella Repubblica.jpegche il quotidiano La Repubblica, anch’esso con grande sollievo, ha chiamato su tutta la sua prima pagina “la prima sconfitta”. Che non equivale però  alla prima, tonda vittoria del Pd, salvatosi sì dall’assalto leghista alla regione storicamente più di sinistra in Italia, ma non il manifesto.jpegcol “soccorso rosso” vantato sulla prima pagina del manifesto, quotidiano dichiaratamente, orgogliosamente, irriducibilmente comunista, bensì col soccorso giallo. E’  quello naturalmente dei grillini, precipitati ormai elettoralmente a una sola cifra, tanto in Emilia-Romagna quanto in Calabria, ma nella prima regione molto più che nella seconda. “Un colpo mortale” ha definito questo crollo il sindaco di Parma ex grillino Federico Pizzarotti, convinto che i suoi ex compagni di movimento non abbiano “più nulla da dire”, ridotti ad essere una ruota di scorta, più che alleati, del Pd.

            A questa musica funeraria di Pizzarotti si è aggiunta quella del senatore Gianluigi Paragone, recentemente espulso dal movimento e convinto che ormai i pentastellati siano politicamente “morti, soffocati in una scatoletta di tonno”, per ripetere l’immagine da essi usata a proposito del Parlamento prima che vi arrivassero in forza, forniti delle più taglienti apriscatole disponibili sul mercato.

            Al Fatto Quotidiano, giornale da vedere sempre per capire gli umori sotto le cinque stelle, hanno parlato del soccorso giallo con soddisfazione, e attesa gratitudine da parte del Pd, accostandolo tuttavia Il Fatto.jpegall’aiuto fornito dalle cosiddette sardine al partito guidato da Nicola Zingaretti. Che in effetti se n’è mostrato tanto consapevolmente compiaciuto da ringraziarle sin dalle prime dichiarazioni rilasciate a commento dei risultati elettorali nella regione strappata all’assalto di un Salvini comunque soddisfatto -c’è da dire- di averlo tentato, obbligando il Pd-ex Pci in quelle terre a giocare la prima vera partita “dopo 70 anni” di passeggiate.  L’affluenza alle urne, quasi raddoppiata rispetto alle elezioni regionali precedenti, è oggettivamente motivo di orgoglio sia per  chi ha vinto sia per chi ha perduto.

            Per tornare al Fatto Quotidiano e al suo titolo di grande sollievo e orgoglio – “Sardine e 5S spingono Bonaccini”- c’è da osservare che il confermato e apprezzato, per carità, governatore dell’Emilia-Romagna avrà pure vinto con quasi sei punti di vantaggio sulla concorrente leghista, almeno sino al momento in cui scrivo, ma ora il conto ai grillini, che vi hanno quanto meno contribuito, dovrà pagarlo a Roma il suo partito, dove peraltro pare che lo vogliano premiare affidandogli la carica di presidente lasciata dal nuovo commissario europeo Paolo Gentiloni. E lì, o qui, a Roma, saranno dolori non solo e non tanto per Zingaretti quanto per Conte. Che dovrà difendere il suo governo dagli effetti del marasma già da tempo esistenti e ora aggravato fra i grillini in marcia verso i cosiddetti Stati Generali, o idi, di marzo.

            Ho la sensazione, con una esperienza di cronaca politica un po’ più consolidata -immodestamente- di quella accumulata come presidente del Consiglio dal pur professore e avvocato in carica a Palazzo Chigi, che ne vedremo e sentiremo di belle nei prossimi giorni, settimane e mesi. Abbiamo peraltro un Parlamento in cui, nonostante le apnee dello stesso Grillo, i pentastellati conservano bene o male i numeri delle elezioni ormai preistoriche del 4 marzo 2018: un Parlamento in via di ulteriore delegittimazione col referendum in arrivo, confermativo della non piccola riduzione dei seggi sia della Camera sia del Senato. Ci sarà da divertirsi, o da mettersi le mani fra i capelli, per chi li ha, e secondo i gusti.

 

 

 

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Le apnee che affliggono Beppe Grillo e il suo movimento pentastellato

            Sembra una barzelletta ma non lo è. E’ un annuncio vero quello che ha fatto sul suo blog personale e ufficiale Beppe Grillo di essere affetto da apnee notturne. Che gli impediscono blog Grillo .jpegdi riposare e di lavorare bene, per cui il comico ha deciso di farsi operare e di rinviare i suoi nuovi spettacoli “terrapiattisti” programmati per febbraio. Ne conseguirà una pausa, un rallentamento e quant’altro anche come garante elevato del suo movimento politico, anch’esso afflitto peraltro da apnee, di natura stavolta elettorale già prima del voto europeo di fine maggio dell’anno scorso ma da allora aggravatesi in ogni tipo di appuntamento con le urne, per esempio in Umbria.

            Come l’annuncio delle dimissioni di Luigi Di Maio da “capo politico”, anche quello del malanno respiratorio di Grillo è arrivato alla immediata vigilia di un turno elettorale delicatissimo per le cinque stelle: in Emilia-Romagna, ma anche in Calabria. Dove i grillini si sono ritagliati, con tanto di referendum digitale gestito dal solito Davide Casaleggio, lo spazio delle comparse, più che degli attori: in Emilia-Romagna delle comparse addirittura in negativo, nel senso che la loro recita potrebbe risultare decisiva per la sconfitta dei loro nuovi alleati di governo a Roma – Pd e altre sinistre- o ininfluente per la loro vittoria.

              Fra le due alternative è francamente difficile dire quale sia la peggiore per le sorti del partito, o quasi partito, che meno di due anni fa uscì dalle urne, a sorpresa, nelle dimensioni e nel ruolo cosiddetto centrale che era stato per tanti anni della Democrazia Cristiana, all’epoca della cosiddetta prima Repubblica. Per cui ci è toccato assistere dal 4 marzo 2018 ai più rocamboleschi tentativi di paragonare il già citato Di Maio a Giulio Andreotti, con la penna addirittura del direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana, e l’improvvisato -in senso tecnico della parola- presidente del Consiglio Giuseppe Conte, prima designato e poi imposto dai grillini, ad Aldo Moro con la penna di un veterano del giornalismo politico come Eugenio Scalfari, tra una telefonata e l’altra, o incontro-udienza,  con Papa Francesco. Ma nelle ultime ore, in verità, il fondatore della Repubblica di carta è apparso Scalfari di Conte.jpegpiù prudente attribuendo Scalfari su Di Maio.jpega Conte “un passato da burattino”, che Moro non fu mai, “un futuro da burattinaio e un presente senza personaggi in teatro salvo Arlecchino”. A Di Maio invece, non so se lasciandogli apposta la carica di ministro degli Esteri o immaginandolo dimissionario anche da quella, Scalfari ha consigliato di “girare il mondo per un paio d’anni per capirne la qualità”.

            Queste sembrano a prima vista cronache stellari, dal nome stesso del movimento nato da una risata in piazza di Grillo a Bologna una decina d’ anni fa, ma sono state e sono cronache politiche vere, in apnee non notturne ma alla luce e al calore del sole. Dio mio, verrebbe da dire, come siamo messi male.      

 

 

 

 

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In silenzio e col fiato sospeso aspettando il voto dell’Emilia-Romagna

                 E’ finalmente sceso il silenzio sulla campagna elettorale per il voto regionale di domani, a vantaggio -direi- più dei competitori, al riparo adesso da altri errori, visti quelli abbondantemente commessi su tutti i fronti, che degli elettori. Fra i quali dubito che siano ancora molti gli indecisi fra chi votare, una volta stabilito se votare o no, specie in Emilia-Romagna. Dove la posta politica è diventata più alta che nella pur popolosa Calabria per il semplice fatto che i suoi effetti sono destinati a ripercuotersi di più, nel bene e nel male, sul governo e sulla sua maggioranza giallorossa.

              E’ in Emilia-Romagna che Nicola Zingaretti rischia l’osso del collo per il carattere identitario dei rapporti storici fra la sinistra e quella terra. Dove qualcosa si era già rotto una volta, persino Nicola Zongaretti.jpega Bologna con la vittoria del compianto Giorgio Guazzaloca  al Comune nel 1999, per non parlare dell’infortunio più recente a Ferrara. Ma adesso, specie dopo la sconfitta già subita in Umbria, la perdita anche di questa regione sarebbe un colpo troppo grande per essere assorbito con una generica e scenica rifondazione del Pd, già programmata dal suo segretario forse proprio per non farsi trovare alla sprovvista dagli avvenimenti.

             Zingaretti è apparso non a toro imprudente a molti non tanto ad allearsi al governo nella scorsa estate col movimento grillino prima del pur promesso passaggio elettorale – in cui le cinque stelle avrebbero pagato il pedaggio della sconfitta già subita nelle elezioni europee di fine maggio dopo la collaborazione con i leghisti- quanto a scommettere sul carattere strategico, cioè permanente e diffuso, dell’intesa spaccando su questo la formazione capeggiata sino a qualche giorno fa da Luigi Di Maio, e contribuendo infine alla sua caduta. Che da sola ha fatto ulteriormente salire, anziché ridurre, la temperatura fra i grillini con l’intreccio di altri veleni e lo scatenamento di altre ambizioni.

           Adesso la gara fra piddini e pentastellati, col centrodestra in costante espansione elettorale da più di un anno, e con Matteo Renzi minacciosamente alla finestra nel centrosinistra, è a chi paga di più il prezzo della convivenza al governo. Pertanto, al limite, anche se al Pd dovesse riuscire il miracolo di conservare l’Emilia-Romagna, ciò che resterebbe delle cinque stelle sarebbe per Zingaretti non un affare ma un fardello. Il rischio insomma è che il morto afferri il vivo.

            Degli errori commessi da tutti i competitori nella partita emiliano-romagnola, il più celebre è diventato, per l’eco che ha prodotto, quello della citofonata di Salvini a casa del tunisino Salvini.jpegsospettato di spaccio di droga. E’ una citofonata il manifesto.jpegche ancora gli ha rinfacciato la prima pagina del manifesto. E che ha suggerito al vignettista Stefano Rolli sul Secolo XIX l’imperdibile domanda della signora al marito se ha staccato il citofono per mettere al sicuro il silenzio elettorale prescritto dalla legge.

            Sbagliata è stata anche l’intromissione di Giuseppe Conte nella partita, a dispetto della presunta estraneità del governo da lui guidato, con quel decreto sul cosiddetto cuneo fiscale varato a tamburo battente, e in via sperimentale per sei mesi, pur essendo destinato ad entrare in vigore a luglio con i conseguenti benefici per previsti sedici milioni di lavoratori dipendenti.

            Sbagliata infine potrebbe rivelarsi tutta la propaganda orchestrata a sinistra per le cosiddette Prodi.jpegsardine trasferitesi dal mare alle piazze in funzione antisalviniana. Sul loro uso o abuso è caduta come una mannaia una battuta dell’insospettabile Romano Prodi, pur dopo la partecipazione della moglie Flavia a qualche loro adunata: “Sono quattro ragazzi che non possono muovere un Paese”.

 

 

 

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Il mistero buffo, per ora, del reggente del movimento grillino Vito Crimi

            Il vice ministro dell’Interno Vito Crimi, già infelicemente famoso per una foto che lo riprese in sonno al Senato e per la definizione di “gerarca minore” che ne diede il compianto Crimi in sonno.jpegMassimo Bordin durante la “guerra”  a Radio Radicale, da lui dichiarata e condotta quando era sottosegretario a Palazzo Chigi con la delega della comunicazione e dell’editoria, ha avuto un problematico impatto, diciamo così, con la funzione di “reggente” del Movimento 5 Stelle.

            A rivelarlo o rilevarlo, come preferite, è stato un giornale insospettabile come Il Fatto Quotidiano: lo stesso peraltro che anticipò fra le imprudenti smentite dell’interessato la rinuncia di Di Maio, poi definita nella titolazione voluta dal direttore Marco Travaglio a evento compiuto, come “la mossa del cavallo” sulla scacchiera grillina. Ciò ha lasciato intravvedere uno spostamento di lato del ministro degli Esteri sulla scacchiera grillina in una partita tutta ancora da giocare, in vista dei cosiddetti Stati Generali, o idi, di marzo e della “rifondazione” del movimento.

            Proprio l’autore di quello scoop, Luca De Carolis, depositario evidentemente di notizie di prima mano nel campo pentastellato, ha precisato nelle sue cronache equine, diciamo così, su Di Maio che la notizia data da Crimi della cessazione anche del suo incarico di capo della delegazione grillina al governo  è tutta ancora da verificare.

            “Non è così, almeno non ancora”, ha precisato il giornalista del Fatto, effettivamente confermato dalla lettura Testo Di Maio.jpegdel testo del discorso di Maio nel tempio di Adriano, pubblicato dal blog ufficiale delle 5 Stelle, in cui effettivamente ci sono solo le dimissioni da capo del movimento. Ma oltre al testo del discorso gioca contro l’annuncio di Crimi quel “ne parleremo” detto da Di Maio prima del suo intervento pubblico a chi gli chiedeva notizie a questo riguardo, dopo l’incontro propedeutico al discorso pubblico da lui avuto con i ministri e i sottosegretari del secondo governo Conte, o almeno quelli reperibili o disponibili al momento.

            Questa del capo o no della delegazione al governo – non necessariamente dipendente dai gradi ministeriali perché a guidare, per esempio, la delegazione del Pd è il ministro dei beni culturali Dario Franceschini anziché  quello dell’Economia Roberto Gualtieri, di grado istituzionalmente maggiore all’altro- non è una questione di lana caprina. E’ una questione dannatamente seria sul piano politico perché sottintende i rapporti, sempre politici e per niente personali, tra Di Maio e il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Che già erano diventati difficili, al di là e contro gli apprezzamenti pubblici espressi dallo stesso Di Maio verso il titolare di Palazzo Chigi  anche nel discorso di rinuncia alla guida del suo movimento, e potrebbero diventare addirittura irrilevanti se l’annuncio o il proposito, non credo casuale o capriccioso, di Crimi dovesse rivelarsi fondato.

            Si potrebbe ben intravvedere, sia pure con la malizia non certamente inusuale nelle cronache e rappresentazioni politiche, un mezzo desiderio del pur sempre “garante”, “elevato” e quant’altro del movimento, cioè Beppe Grillo, di potenziare ulteriormente il ruolo e la rappresentatività stellare, diciamo così, del presidente del Consiglio. Dal quale Di Maio, pur -ripeto- fra i tanti elogi riservatigli, ha tenuto a precisare di avere avuto occasioni di contrasto, disparità di vedute e cose del genere sulla soluzione dei problemi controversi, compresa la disputa sulla visione strategica o temporanea, di lunga durata o momentanea, dell’alleanza col Pd subentrata nella scorsa estate a quella con la Lega di Matteo Salvini.

            Se il primo interlocutore grillino di Conte nel governo diventasse davvero, come attribuito a Crimi, l’attuale Patuanelli.jpegministro dell’augurabile Sviluppo Economico Stefano Patuanelli, ex capogruppo del movimento al Senato, il presidente del Consiglio avrebbe sicuramente meno problemi o più spazio, o entrambi. Lo stesso avverrebbe affidando il ruolo di capo della delegazione al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che introdusse Conte nel movimento grillino, Il ministro degli Esteri, pur con funzioni istituzionali superiori, brillerebbe ancora di meno, come una stella in crisi irreversibile.

          Non è quindi -ripeto- una questione minore quella Mannelli  Riccardo sul Fatto.jpegche col suo annuncio ha posto Crimi, peraltro nella presunzione appena ribadita con orgogliose interviste al Corriere della Sera e al Messaggero di avere “tutti i poteri del capo politico”, ma anche promettendo che “non farò alcuno strappo”. O, quanto meno, non lo farà rispetto ai progetti, agli umori e quant’altro di Grillo, proposto dal vignettista del Fatto Quotidiano Riccardo Mannelli nelle vesti di un mezzo profeta pentito di quello che ha detto e ha fatto creando un partito, o quasi partito, come quello che Crimi ha appena ereditato formalmente da Di Maio.

 

 

 

 

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Di Maio si arrende agli avversari interni rinunciando alla guida delle 5 Stelle

             Oltre alla cravatta dal collo, in una immagine che spopola giustamente sui giornali, Luigi Di Maio si è tolto sassi e sassolini dalle scarpe e dalla bocca lasciando la guida del Movimento 5 Stelle con un discorso rivolto più agli avversari interni che a quelli esterni, vittima insomma Corriere.jpegdel cosiddetto fuoco amico, come ha sottolineato in uno dei titoli di prima pagina il Corriere della Sera. E come hanno sperimentato in un passato remoto e recente leader ai quali non so francamenteRepubblica.jpeg se al giovane e ambizioso Di Maio piacerà del tutto essere paragonato: magari sì ad Alcide De Gasperi e ad Amintore Fanfani, nella Dc della cosiddetta prima Repubblica, forse sì anche a Walter Veltroni nel Pd da pochi anni fondato da lui stesso nella cosiddetta seconda Repubblica, credo proprio di no a Matteo Renzi nel Pd della cosiddetta terza e incipiente Repubblica, costretto ad uscirne pochi mesi fa allestendo un partito tutto suo. Che vorrebbe rappresentare l’Italia viva pur con le modestissime dimensioni che gli attribuiscono i sondaggi.

            Nel denunciare i tradimenti, le pugnalate, gli sgambetti e quant’altro cui ha deciso alla fine di sottrarsi dopo avere smentito i giornali amici e nemici che ne avevano preannunciato la Di Maio 2 .jpegrinuncia alla guida del partito, Di Maio non ha fatto un solo nome. Pertanto tutti sono obiettivamente sospettabili leggendo le cronache vecchie e nuove della politica pentastellata, a cominciare dal fondatore, garante e quant’altro del Movimento, cioè Beppe Grillo. Cui non a caso, del resto, è stato attribuito un certo stupore di fronte agli avvenimenti,  non foss’altro per il momento scelto da Di Maio per lasciare: alla immediata vigilia del difficilissimo voto di domenica nelle regioni Calabria e soprattutto Emilia-Romagna. Dove lo sconcerto già forte dei militanti e simpatizzanti delle 5 Stelle potrebbe far peggiorare i risultati del Movimento.

            Al limite, potrebbe essere sospettato di fuoco amico persino l’unico uomo di cui Di Maio ha fatto il nome per sottolinearne la “straordinarietà”, cioè il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. La cui crescita politica e mediatica, in particolare dopo la conferma a Palazzo Chigi guidando una maggioranza opposta a quella Conte e Di Maio.jpegprecedente, cioè sostituendo la Lega con la sinistra, è coincisa con l’esplosione dei contrasti nei gruppi parlamentari grillini. Ne stanno uscendo diversi, a cominciare dall’ex ministro della Pubblica Istruzione  Lorenzo Fioramonti, col proposito di costituire gruppi nuovi e autonomi per fornire maggiore appoggio proprio a Conte e al suo governo, sentendolo evidentemente minacciato anche o soprattutto da Di Maio, quanto meno scettico del carattere strategico dell’alleanza col Pd considerato dal presidente del Consiglio. Che proprio per questo si è guadagnato dal segretario di quel partito, Nicola Zingaretti, la qualifica di leader di riferimento di tutti i “progressisti” d’Italia, se bastano i confini nazionali.

            Quello pronunciato da Di Maio nel tempio di Adriano a Roma per guastare in fondo la festa ai cosiddetti facilitatori, appena selezionati per aiutarlo nella guida del suo movimento, può ben essere considerato il discorso dell’ossimoro, cioè delle contraddizioni. Egli ha rinunciato alla caricail Fatto.jpeg di capo del partito, o come altro si deve chiamare, annunciando al tempo stesso di non voler “mollare” sulla strada della “rifondazione” del movimento. Che il giornale ad esso più vicino, o ispiratore, cioè Il Fatto Quotidiano, ha messo in camera di rianimazione titolando in prima pagina che “o cambia o muore”.

            Di Maio ha chiesto per il governo di cui continua a fare parte nella postazione della Farnesina  tutto il tempo rimanente e ordinario della legislatura, sino al 2023, per fargli esprimere per intero le sue potenzialità, ma ha teorizzato una conflittualità permanente con gli alleati non certamente compatibile con quella durata. In particolare, egli ha detto che i grillini, per quanto malmessi, hanno l’obiettivo irrinunciabile di rimettere ordine nel disordine -scusate il bisticcio delle parole- procurato al Paese dai partiti precedentemente al governo. Dai quali non si può certamente escludere il principale degli attuali alleati delle 5 Stelle, cioè il Pd, così come non si poteva escludere  nella maggioranza precedente la Lega, più volte al governo con Silvio Berlusconi dal 1994 in poi. O no?

            Per chiudere, è quanto meno curiosa la condizione di un ministro degli Esteri impegnato Rolli Stefano.jpeginternazionalmente in un’azione difficile Pillinini. Nicojpeg.jpegdi difesa della pace, o di contenimento della guerra, in aree vicine all’Italia, e per essa decisive, ma al tempo stesso costretto dal fuoco amico a ridimensionarsi come leader politico. E’ una condizione più da satira che da analisi. Non a caso sono in festa i vignettisti, il più crudele dei quali -Nico Pillinini sulla Gazzetta del Mezzogiorno- lo ha riportato nello stadio di Napoli a vendere patatine. 

 

 

 

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