Se persino il Papa scambia la “pagana” Giorgia per una fedele cristiana…

Da Repubblica di ieri

         Ezio Mauro su Repubblica ha scomodato la religione, e non solo il prevedibilissimo, scontato antifascismo più o meno professionale, per bollare il rapporto diretto cercato da Giorgia Meloni a Pescara col suo popolo reclamando di essere chiamata e votata col suo solo nome, cui tiene ben più del cognome. Sarebbe stata un po’ la ricerca di una “comunione pagana”, sottintendendo con quell’aggettivo il carattere, falso, eretico della relazione cercata dalla Meloni con i suoi elettori, reali o potenziali. Non a caso l’eresia, chiamiamola così, è stata denunciata contestando anche il richiamo abituale della premier alla combinazione di Patria, Dio e Famiglia, tutti rigorosamente al maiuscolo e arbitrariamente invocate da una destra pronta a tradirle o distorcerle.

Umberto Bossi alla fonte del Po

         Anche quel “cristiana” rivendicata con le vene gonfie in gola dal palco di un comizio in terra spagnola non piacque a suo tempo agli avversari della leader della destra italiana, che già allora la consideravano evidentemente una pagana travestita. Un po’ come accadde ai leghisti dei primi tempi, quando si sposavano fra di loro con i riti celtici e salivano a venerare il Po alla fonte per raccoglierne le acque in ampolle, o seguirne il corso sino alla foce. E allungare il viaggio a Venezia per proclamare la Repubblica indipendente della Padania, applaudirne il governo neppure in esilio e intimare a chi sventolava il tricolore alla finestra di casa di “buttarlo nel cesso”. Parola di Umberto Bossi in persona, che ora gli avversari di Matteo Renzi rimpiangono e indicano come il fondatore e leader tradito più ancora dai successori che dalla salute.

Dal Corriere della Sera del 28 aprile

         Ma torniamo al presunto paganesimo della Meloni, di cui evidentemente dovrebbero diffidare oltre Tevere. Dove invece la premier ha trovato un interlocutore molto ben disposto  come Papa Francesco, lesto ad accoglierne l’invito alla partecipazione al G7 a presidenza italiana. Sarà una prima volta del Pontefice, commentata sul Corriere della Sera da Walter Veltroni mentre i suoi compagni di partito hanno fatto finta di non vedere e non sentire.

La Meloni a un famoso comizio spagnolo

         Continuino pure lor signori del Nazareno -avrebbe scritto il Fortebraccio della vecchia Unità- a mettere la testa nella sabbia come gli struzzi. E a non accorgersi che non solo vanno via dal partito pezzi importanti della nomenclatura di provenienza democristiana, ma potrebbero seguirli anche pezzi del loro elettorato di una volta, o nuove leve di cattolici che si riconoscono, per esempio, nelle urla della Meloni contro la maternità surrogata.

         Non a caso, del resto, mentre il Pd arranca nei sondaggi, e in alcune elezioni locali, attorno al 20 per cento come se fosse un affare, peraltro insidiato da quel che è rimasto delle 5 Stelle di Beppe Grillo e ora di Giuseppe Conte, i fratelli e le sorelle d’Italia viaggiano attorno alle dimensioni che furono della Democrazia Cristiana. Sveglia, ragazzi. Per ripetere qualcosa già gridato dalla Meloni nell’aula di Montecitorio contro i banchi piddini.

Il popolo corteggiato dalla Meloni e perduto di vista dalla sinistra

Dal Dubbio

Sentivo alla radio radicale domenica il discorso di Giorgia Meloni a Pescara -quello chiusosi con l’annuncio della candidatura alle elezioni europee di giugno a capo di tutte le liste della sua destra e con l’invito a votare semplicemente Giorgia- e pensavo ad una decina d’anni fa.

Enrico Letta lascia Palazzo Chigi a Matteo Renzi nel 2014

         Enrico Letta si leccava le ferite di una butta caduta da Palazzo Chigi procuratagli dal collega di partito e appena segretario Matteo Renzi. Che gli aveva promesso “serenità” e procurato invece inquietudine e infine rabbia. L’ex premier e ancora parlamentare era alla ricerca di una nuova occupazione, o persino rivalsa morale. La trovò l’anno dopo a Parigi, in rue Saint Guillaume, rinunciando al seggio parlamentare in Italia e rimediando un contratto d’insegnamento alla Science Po, un rinomato istituto internazionale di studi politici, Da cui poi si sarebbe dimesso per prendere in Italia, richiamato in particolare dal dimissionario Nicola Zingaretti,  quello che era stato il posto di Renzi al Nazareno, alla guida del Pd. Una storia, se permettete, tutta elitaria, o di palazzo, come direbbero gli antipatizzanti della politica. Che a volte esagerano, ma altre volte no.

Una giovanissima Meloni vice presidente della Camera

         Giorgia Meloni, invece, sempre una decina d’anni fa, si leccava le ferite delle prime elezioni affrontate nel 2013 col nuovo partito di destra fondato l’anno prima. Ne era uscita con un misero 1,9 per cento dei voti. Continuò a percorrere le strade della sua Garbatella, a Roma, e delle periferie delle altre città italiane a scuola di politica, per quanto fosse già stata vice presidente della Camera e ministra dei governi di Silvio Berlusconi su designazione della destra capeggiata allora da Gianfranco Fini. Scrivo “a scuola di politica” non per esaltarne ma solo per ricordarne e riconoscerne  obiettivamente l’umiltà, da lei investita non per intrupparsi in qualche maggioranza più o memo larga ma per starsene all’opposizione ad ogni combinazione o governo.

L’ovazione a Enrico Berlinguer a Pescara

         I risultati di quella scuola di umiltà -bisogna ammetterlo, al di là di tutto il dissenso che possono meritare le sue azioni di partito e ora di governo, addirittura alla guida- non mi sembrano da buttare via. Parlano sia quel 26 per cento di voti conseguito nelle ultime elezioni politiche sia quella pur retorica identificazione col “popolo” che l’ha portata con furbizia da professionista ormai della politica a chiamarsi ieri,  farsi chiamare e farsi votare “solo Giorgia”: in un rapporto con l’elettorato che ricorda un po’ -sul versante opposto- solo la buonanima di Berlinguer. Che gli elettori comunisti chiamavano Enrico e che, non a caso, si è guadagnato ieri un’ovazione alla memoria dal pubblico della Meloni dopo un confronto giornalistico e politico fra Bianca Berlinguer, la figlia, e il presidente destrissimo del Senato Ignazio La Russa.

Ignazio La Russa intervistato a Pescara da Bianca Berlinguer

         Piuttosto che protestare a prescindere, a vedere dappertutto fascismo o qualcosa di analogo o propedeutico, di immaginare reati di omesso antifascismo o di seduzione elettorale da contestare alla Meloni, penso che a sinistra, ma anche al centro che ambisce a condizionarla al posto dei grillini di Giuseppe Conte, sia venuta l’ora di un esame salutare di coscienza. L’ora di scendere dalle stelle del già ricordato Conte alle stalle. E di cercare di recuperare tutto il terreno perduto, prima che sia troppo tardi, se non lo è già diventato.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 1° maggio

La Meloni si riduce, o promuove, a Giorgia nella corsa elettorale

Antonio Scurati da Fabio Fazio

          Antonio Scurati, ospite ieri sera di Fabio Fazio in televisione, ha rinnovato alla premier l’accusa di averne fatto “un bersaglio” reagendo al suo monologo antifascista e antimeloniano mancato, censurato e quant’altro dalla Rai alla vigilia della festa della liberazione del 25 aprile. Poi, come per rafforzare il collegamento finale di quel monologo fra il fascismo che fu e quello incombente, egli ha lamentato la seduzione esercitata da Mussolini sull’Italia con la paura, nel solito, vecchio, patologico rapporto fra l’aguzzino e la vittima.

Dal film “Il portiere di notte”

E’ un po’ la storia proposta nel 1974  da un film di Liliana Cavani di un ex ufficiale nazista che incontra in albergo una ex detenuta nei campi di concentramento da lui abusata  e tornata a subirlo. Non a caso, del resto, Scurati è un po’ storico, un pò giornallista, un po’ romanziere, un po’ psicologo e mescola tutto quando racconta e analizza passati e presenti che gli sembrano in qualche modo assomigliare.

Il manifesto elettorale della premier

         Non so se per distrazione o generosità del conduttore, o per una natura differita dell’intervista, è rimasto fuori dalla chiacchierata il discorso pronunciato a Pescara dalla Meloni per sovraccaricare di significati  le elezioni europee di giugno con la sua personale partecipazione come capolista dappertutto. Un discorso in cui  pure una certa seduzione sul pubblico si potrebbe intravvedere con quella mezza rinuncia al cognome invitando a votarla Giorgia e basta. Giorgia, come se fosse una parente, un’amica di ciascun elettore della sua destra. E come si chiama e fa chiamare nelle biografie, dirette o indiretta.

La Meloni a Pescara

         La giovane premier -prima nella storia unitaria dell’Italia, comprensiva di regime monarchico e repubblicano- non è una dilettante. Ha del professionismo politico, e anche della furbizia, superiore a molti se non a tutti i suoi concorrenti, che magari insegnano politica a università italiane e straniere di un certo prestigio.  La Garbatella d’origine per lei non è un handicap ma una risorsa per sentirsi, proclamarsi e lasciarsi avvertire “donna del popolo

Titolo del Corriere della Sera

         Vedrete se quello rimasto sotto traccia ieri, per caso o per calcolo, nel dialogo tra Fazio e Scurati non emergerà e non si svilupperà nel corso di questa lunga campagna elettorale per cercare di fare della Meloni la portiera di notte dell’albergo Italia affollato di clienti da lei sedotti all’ombra di paure da cui liberarsi paradossalmente subendole. Vedrete se in tanti o pochi che potranno rivelarsi gli spettatori e vittime, e con Meloni virtualmente imputata di seduzione elettorale, non sarà questo il gioco di specchi a manipolare questa corsa alle urne anticipatrice di quella del 2027 per il rinnovo del Parlamento italiano.

Ripreso da http://www.startmag.it

I professionisti dell’antifascismo come quelli dell’antimafia

Da Libero

Alla fine di un “intervento” del presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky su Repubblica di ieri si leggeva questa maliziosa, anzi maliziosissima domanda che porta, come vedremo, ad una clamorosa scoperta: “E’ un caso che chi non vuole dichiararsi antifascista sia lo stesso che, la Costituzione, vuole cambiarla?”.

         L’allusione è naturalmente alla proposta del governo di Giorgia Meloni, in primo esame al Senato, per l’elezione diretta del presidente del Consiglio. Su cui lo stesso Zagrebelsky a botta calda cercò a suo tempo di scherzare -sempre su Repubblica- scrivendo che era stata tanto ben congegnata da poter superare anche un referendum. E incorrendo nella sottolineatura della natura ironica dell’articolo da parte dell’allarmato giornale ospitante.

Da Repubblica di ieri

Poi l’emerito, consapevole di potere scherzare con i fanti ma non i santi, ha via via argomentato e sviluppato la sua scomunica, sino alla domanda finale dell’intervento di ieri, preceduta peraltro da questa apodittica considerazione: “In fondo, antifascismo e democrazia coincidono e questa coincidenza ha la sua tavola fondativa nella Costituzione”. A cambiare la quale, quindi, si praticherebbe nella migliore delle ipotesi una democrazia “illiberale”, cioè un ossimoro, nella peggiore un “fascismo non d’altri tempi”. Che è poi il titolo dell’articolo appena sfornato da Zagrebelsky.

         Ebbene -ecco la clamorosa scoperta….dell’acqua calda- il penultimo articolo della Costituzione, il 138.mo, è quello che prevede, consente, disciplina, testualmente, “revisione della Costituzione e leggi costituzionali”.

Dalla Costituzione della Repubblica

         Ciò significa, nella logica del ragionamento del presidente emerito- ripeto- della Corte Costituzionale, che il diavolo fascista nel 1947, a fascismo già bello che sepolto, a liberazione già avvenuta e festeggiata da più di un anno mezzo, riuscì a infilarsi nella coda della Costituzione con un articolo dedicato proprio alla sua revisione, modifica, riforma, chiamatela come volete nell’italiano corrente. Non in quello manipolato da astuzie dottrinarie secondo le quali per modifiche di un certo peso il Parlamento non basterebbe, neppure col paracadute del referendum cosiddetto confermativo, ma occorrerebbe ricorrere ad una nuova assemblea costituente, come quella eletta nel 1946 con la nascita della Repubblica.

         Ah, il diavolo. Che scherzi è capace di fare muovendosi in camicia nera tra le fiamme dell’Inferno, pur immaginato di recente ottimisticamente vuoto da Papa Francesco. Un diavolo già cavalcato nella cosiddetta seconda Repubblica da Silvio Berlusconi e da Matteo Renzi nei loro passaggi per Palazzo Chigi ma ricacciato nelle fiamme dall’elettorato bocciando referendariamente le loro riforme.

La paura degli antifascisti di professione, come forse li chiamerebbe la buonanima di Leonardo Sciascia parafrasando quello che disse degli antimafiosi, è che questa volta, con la Meloni a Palazzo Chigi e con l’aria che tira nell’elettorato, il diavolo non venga respinto. Sarebbe per loro un bel guaio.

Enrico Berlinguer

         Sarebbe per gli antifascisti di professione -ripeto- un guaio simile a quello che fu per la Dc nel 1974 il referendum ordinario perduto contro la legge sul divorzio e nel 1985 per la sinistra non riformista, allora ancora dichiaratamente comunista, il referendum perduto contro il rallentamento della scala mobile dei salari effettuato dal governo di Bettino Craxi per fermare e fare retrocedere un’inflazione a due cifre che divorava i salari nella sostanziale indifferenza del maggiore sindacato italiano. Al quale Enrico Berlinguer, poco prima di morire, impose un ricorso all’elettorato temuto, senza nasconderlo più di tanto, anche dal disciplinato segretario Luciano Lama. Seguì l’anno dopo la vittoria del governo, sconfitto in poche località, fra le quali quella nativa dell’allora segretario della Dc Ciriaco De Mita: Nusco.  

         Il Berlinguer di cui sto scrivendo è naturalmente lo stesso della cosiddetta questione morale di cui la segretaria del Nazareno Elly Schlein ha appena fatto stampare la foto sulle tessere d’iscrizione di quest’anno al Pd.

Pubblicato su Libero

Ripreso da http://www.startmag.it

Il generale Roberto Vannacci ribalta il Carroccio nella corsa alle elezioni europee

Dalla Stampa

Anche se un’esperta di comunicazione e di sondaggi come Alessandra Ghisleri sostiene sulla Stampa, pur non occupandosi specificatamente di lui, che “la candidatura vip non fa la differenza” nelle elezioni, si ha una certa difficoltà a credere che il generale Roberto Vannacci in corsa alle europee nelle liste della Lega, praticamente imposto da Matteo Salvini, non influirà sui risultati del partito già di Umberto Bossi nel voto dell’8 e 9 giugno. Che riguarderà il rinnovo del Parlamento comunitario di Strasburgo ma avrà ricadute anche di politica interna per i rapporti, in particolare, fra i partiti della maggioranza di centrodestra. Almeno i rapporti d’umore, o di competizione emotiva, con tutti gli effetti collaterali prevedibili anche sull’azione di governo, volente o nolente la pur risoluta premier Giorgia Meloni.

Da Repubblica

         Si ha una certa difficoltà a ritenere che il generale –“forte” ma “con idee deboli”, come ha scritto Concita De Gregorio su Repubblica- possa continuare ad essere per il suo mentore Salvini più una risorsa che un problema, visto il putiferio provocato anche all’interno della Lega con la sua sostanzialmente prima intervista da candidato, sin quasi a fare ribaltare il Carroccio.

Dal Corriere della Sera

         Di fronte alle proteste interne ed esterne per la proposta delle classi separate a scuola per i disabili, o per l’auspicata adozione di un animale come simbolo dell’Europa competitivo con l’aquila degli Stati Uniti o con l’orso della Russia, o per la qualifica di “statista” assegnata a Benito  Mussolini, sia pure non come il più grande del Novecento quale fu definito una trentina d’anni fa da Gianfranco Fini appena adottato come alleato da Silvio Berlusconi; di fronte alle reazioni a tutto questo, dicevo, Salvini ha pubblicamente incoraggiato il suo generale a proseguire. Cioè a continuare a sorprendere, sconcertare e quant’altro.

La vignetta del Fatto Quotidiano

         I giornali chissà che cosa dovranno inventarsi per tenersi al passo o addirittura superare i titoli di oggi: dalla “bufera” del Corriere della Sera alla “rivolta generale” del Secolo XIX, dal “tutti contro Vannacci” del Giorno, Resto del Carlino e Nazione alla “merda rimestata” -scusate la volgarità- del Fatto Quotidiano sotto la vignetta di Riccardo Mannelli. Che magari ne avrà fatte anche di peggiori ma oggi non si è proprio risparmiato nella specialità della sua testata.

Dal Giorno, Resto del Carlino e Nazione

         E pensare che siamo solo al 28 aprile. La campagna elettorale delle europee non è ancora formalmente cominciata, anche se i simboli dei partiti concorrenti sono stati tutti presentati al Viminale, compresi quello del Pd salvatosi dal nome della Schlein e quello delle 5 Stelle con la pace gridata contro la guerra che sarebbe sostenuta dagli altri. Quarantuno giorni, quanti mi sembra che manchino al primo dei due in cui si voterà per il rinnovo del Parlamento europeo, sono lunghi da passare. E pesanti da digerire, visti gli antipasti.  

Ripreso da http://www.startmag.it

Quell’invito di Giorgia Meloni al G7 accettato volentieri da Papa Francesco

Papa Francesco

         E adesso chi lo dice a Stefano Cappellini, Aldo Cazzullo, Massimo Giannini, Marco Travaglio, in ordine alfabetico, e altri di una lunga lista di scandalizzati dal rifiuto di Giorgia Meloni di gridare forte ed esplicito l’antifascismo implicitamente prescritto dalla Costituzione, che il Papa ha accettato il suo invito a partecipare al G7 di giugno in Puglia nonostante questa sua omissione? Accontentandosi evidentemente dell’’’arzigogolo dialettico”, come l’ha definito Cappellini su Repubblica, cui è ricorsa la premier il 25 aprile per dire, riconoscere e quant’altro che “la fine del fascismo pose le basi della democrazia”. E magari condividendo -sempre il Papa-  un’intervista appena letta di Massimo Cacciari, certamente non sospettabile di fascismo, contro le petulanti richieste da sinistra al presidente del Consiglio, rigorosamente al maschile, di dire ciò che essa reclama. Magari per contestarne poi il tono o la pronuncia romanesca, come d’altronde già è stato fatto una volta nell’aula di Montecitorio interrompendo la Meloni e ottenendone mezze scuse, con la testa infilata nella giacca.  

Il titolo del Corriere della Sera

         Il Pontefice parteciperà, in particolare, alla sessione del vertice mondiale dedicata all’intelligenza artificiale. Che si spera potrà riuscire, prima o dopo, a supplire a quella naturale ma scarsa di certa sinistra appena rimproverata anche da Claudio Velardi, di dichiarata e orgogliosa provenienza comunista, di riempire con l’antifascismo il vuoto in cui è caduta guardando solo indietro e non davanti. E finendo per essere spesso guidata, o comunque condizionata, da un indefinibile Giuseppe Conte. Il cui giornale preferito -notoriamente il Fatto Quotidiano- ha escluso dalla prima pagina l’annuncio della “prima volta del Papa al G7”, come hanno titolato il Corriere della Sera e altri quotidiani. Una prima volta -ripeto-  su invito di una premier imputata o imputabile di omesso antifascismo. Che prima o dopo qualcuno a sinistra proporrà di mettere nel codice penale, non bastando tutte le altre aggiunte al corpo originario  e tuttora in vigore, come sadicamente  ricorda spesso il ministro della Giustizia Carlo Nordio, del fascistissimo Alfredo Rocco, il guardasigilli di Benito Mussolini.

Il Draghi macronizzato che disturba Tajani nella corsa a Bruxelles

Dal Dubbio

Mario Draghi ha fatto un altro passo in avanti verso Bruxelles col discorso molto atteso del presidente francese Emmanuel Macron alla Sorbona sull’Europa. Della cui prossima Commissione, o del cui prossimo Consiglio l’ex premier italiano, ma anche ex presidente della Banca Centrale europea, potrebbe essere chiamato alla guida se dopo le elezioni del 9 giugno il capo dello Stato francese riuscirà a trovare le convergenze necessarie, come fece cinque anni fa per la tedesca Ursula von der Leyen. Alla conferma della quale, per quanto ricandidata dal Partito Popolare, Macron non è favorevole. 

Draghi e Macron alla firma del trattato italo-francese

         Per quanto unito nelle citazioni a due altri italiani, l’ex premier -pure lui- Enrico Letta e il compianto Antonio Gramsci per via delle sue tentazioni fra l’ottimismo della volontà e il pessimismo della ragione, il Draghi ricordato e condiviso da Macron per la proposta riforma radicale dell’Unione Europea è di fatto un candidato ancora più incombente ad uno dei vertici comunitari.

Draghi e Tajani

         E’ curioso tuttavia che le maggiori difficoltà per l’ex premier rischino di arrivare proprio dall’Italia. Dove non gli sono mancati un elogio incoraggiante del presidente del Senato Ignazio La Russa e un’attenzione non ostile della premier in carica, pur a livello “filosofico”, ma si è levato quasi perentorio un sostanziale altolà di Antonio Tajani. Che si è pronunciato nella triplice veste di vice presidente del Partito Popolare -di cui ha rivendicato la prenotazione di una postazione di vertice per una sua presumibile primazia elettorale- vice presidente del Consiglio e segretario di Forza Italia. Ma potrebbe nascondersi o delinearsi anche una quarta veste, nonostante esclusa a parole dall’interessato in questo momento prematuro, mancando più di un mese al rinnovo del Parlamento europeo: la veste di candidato pure lui al posto di un Draghi non iscritto ad alcun partito. Sempre che proprio questo non finisca per diventare un vantaggio per l’ex premier italiano nell’ottica dell’Eliseo.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 5 maggio

In attesa del 25 aprile 2025, a 80 anni tondi dalla liberazione

Il titolo di Libero

         Per quanto vissuto da alcuni nelle piazze come “il giorno dell’odio” gridato da Libero, tra insulti e aggressioni agli ebrei trasformati da vittime addirittura a “nazisti”, il 25 aprile di questo 2024 non mi pare sia stato, in fondo, “il più inviso di sempre” preconizzato alla vigilia da Andrea Scanzi nel salotto televisivo di Lilli Gruber.  Poteva andare peggio, con più di un accoltellato e di 9 denunciati.

Giorgia Meloni, di spalle, ieri a Piazza Venezia

         Non so se andrà così bene, o così poco male, l’anno prossimo, quando ricorreranno non i 79 anni ma gli 80 dalla liberazione dal nazifascismo. E l’anniversario tondo    sarà più avvertito dai malintenzionati che si considerano offesi dal rifiuto della premier Giorgia Meloni -bruciata in foto ieri e prevedibilmente ancora in carica nel 2025 a Palazzo Chigi- di gridare ai quattro venti il suo antifascismo. Una parola magica che la leader della destra rifiuterebbe, anche ora che è alla guida del governo, per non tradire o se stessa, per quanto troppo giovane per avere vissuto gli anni della guerra civile, o gli elettori più vecchi e fanatici della sua fiamma tricolore, ereditata sia pure non direttamente dal Movimento Sociale. Che comunque a suo tempo approdò legittimamente nelle Camere della Repubblica nata dalla Resistenza e fornitasi di una Costituzione ancora considerata “la più bella del mondo” da chi non vuole riformarla, per esempio, con l’elezione diretta del presidente del Consiglio.

Il titolo del Riformista

         Chissà che cosa saranno capaci di inventarsi i celoduristi dell’antifascismo eterno – o “Anpifascismo”, come lo ha chiamato il Riformista richiamandosi all’attivissima associazione dei partigiani -per riproporre le divisioni di un tempo e rappresentare il Paese governato da prolunghe o travestimenti del regime che fu.

Ieri a Roma, a Porta San Paolo

         Chissà quanti cimeli di quel regime e riproduzioni dei suoi attori i celoduristi riusciranno a scoprire in qualche incursione nella pur sorvegliatissima casa milanese o uffici romani del presidente del Senato Ignazio La Russa. Che forse per essere all’altezza della seconda carica dello Stato, conferitagli dal Senato con l’aggravante di un contributo nascosto di Matteo Renzi, avrebbe dovuto bruciare casa e allestirne una completamente nuova, arredata di mobili, oggetti, biancheria e servizi tutti vidimati dall’Anpi.  

Ieri a Milano, in Piazza Duomo

  Chissà di quanto la premier dovrà scusarsi l’anno prossimo per avere vinto le elezioni politiche del 2022, a ridosso per giunta del centenario della marcia dei fascisti d’antan su Roma, essersi generalmente rafforzata nelle più limitate prove successive e avere buoni motivi di sperare nella prosecuzione del suo lavoro a Palazzo Chigi fino alla scadenza ordinaria della legislatura, nel 1927. E fare magari il bis nella successiva.

La torretta del Quirinale

Non oso immaginare il trauma di un approdo della Meloni al Quirinale, come prima domma anche alla Presidenza della Repubblica, dopo che avrà compiuto i 50 anni prescritti dalla Costituzione. Gliene mancano meno di tre. Un brivido di paura starà passando, a pensarci, per la schiena dei suoi avversari.

Ma quanta attenzione di Macron per gli italiani parlando dell’Unione Europea

Da Libero

Il Macron -Emmanuel, presidente dei cugini francesi- atteso per il suo secondo discorso alla Sorbona sull’Europa, dopo quello del 2017 che lo portò in due anni a sponsorizzare l’arrivo della tedesca Ursula von der Leyen al vertice della Commissione di Bruxelles, questa volta è stato pieno di attenzione, riguardo, e quant’altro per noi italiani.

L’amicizia fra Macron e Draghi

         Egli ha citato il suo notoriamente stimato amico personale Mario Draghi per gli studi sulla “competitività” in e dell’Europa, ma anche il predecessore a Palazzo Chigi Enrico Letta, pure lui incaricato a Bruxelles di studi sull’Unione, e persino la buonanima di Antonio Gramsci. Del quale ha condiviso la divisione tra il famoso “ottimismo della volontà”, che lo spinge a volere un’Europa più forte, più solida, più intimamente strategica anche nella difesa, e l’altrettanto famoso “pessimismo della ragione”. Che gli fa prevedere o temere un’Europa “mortale”, che “può morire”, o diventare “più fragile”, se non si decide a darsi una mossa: quella magari impedita anche o soprattutto dalla Francia in altri momenti. Una mossa come la “riforma radicale” proposta di recente da Draghi offrendo un anticipo del suo rapporto estivo sulla già ricordata competitività, di cui è stato considerato uno specialista anche dalla presidente uscente -e non so quanto davvero rientrante- della Commissione.

Ursula von der Leyen

La signora Ursula è stata riproposta dal partito popolare europeo, il suo, in un quadro non proprio solidissimo. Come usava una volta il ramo democristiano di quel partito designando nella corsa di turno a Palazzo Chigi un candidato ma tenendosi nascosto un altro di riserva, che alla fine lo sorpassava con aiuti esterni, spinto cioè da qualcuno degli alleati.

Arnaldo Forlani

Tutto anche in politica si muove, si trasforma diabolicamente e persino si ripete, come disse al congresso della Dc del 1973 Arnaldo Forlani nel discorso di commiato dalla sua prima segreteria, cominciata nel 1969, per lasciare il passo all’ormai ex capocorrente e padre putativo Amintore Fanfani. Che, tornato al vertice del partito dopo l’abbandono del 1958, sostituito da Aldo Moro nel 1959, avrebbe poi portato la Dc a sbattere nel 1974 nel referendum sul divorzio, saltando come un tappo dallo champagne in una celebre vignetta di Giorgio Forattini.

Sergio Mattarella

Oltre che su Macron, se davvero intende scalare Bruxelles come tentò con sfortuna più di due anni fa col Quirinale, Draghi potrebbe contare -ma sempre dietro le quinte, col detto e non detto, con l’allusione e l’illusione di qualche tifoso particolarmente fiducioso- proprio sul Quirinale. Dove siede, e rimarrà ancora per cinque anni, un presidente della Repubblica come Sergio Mattarella. Che più di tre anni fa lo mandò a Palazzo Chigi per rimuovere quasi col carro attrezzi un Giuseppe Conte che vi si era barricato, ritardando l’apertura della crisi scavatagli sotto i piedi da Matteo Renzi nella maggioranza, e non più tardi di qualche giorno fa ha rilanciato pure lui il tema di una riforma dell’Unione necessaria, ineludibile: una riforma -ha detto- “incisiva e coraggiosa”. Due aggettivi, questi, che ad un vecchio e malizioso cronista politico come me hanno ricordato il centrosinistra “più incisivo e coraggioso” escogitato e offerto ai socialisti nel 1968 dal doroteissimo Mariano Rumor per succedere a Palazzo Chigi ad Aldo Moro, l’amico del papà di Mattarella, Bernardo. Che ne fu anche ministro in uno dei primi governi con i socialisti a maggioranza rigorosamente “delimitata” nei confini a sinistra col partito comunista. 

L’aula dell’Europarlamento

Benedetta memoria, che non mi abbandona e mi fa sempre andare indietro negli anni. Ma torniamo all’oggi e al domani. Si, al domani su cui tutti lavorano, chi davanti e chi dietro le quinte. O chi più davanti o più dietro le quinte. Che comunque dovranno sollevarsi dopo le elezioni di giugno, nel Parlamento europeo che ne uscirà, con presumibilmente nuovi rapporti di forza tra partiti e rispettivi gruppi a livello continentale.  E lì la partita sarà tutta da giocare e si vedrà chi avrà o avrà avuto più filo da tessere, come diceva ai suoi tempi in Italia il bon Giuseppe Saragat fra un lamento e l’altro per la scarsa generosità degli elettori verso il suo partito socialdemocratico.

Antonio Tajani

Si vedrà nel nuovo Parlamento europeo se e come il sommerso riuscirà ad emergere, o s’inabisserà ulteriormente. E se il Partito Popolare, conservando eventualmente il suo primato, riuscirà a imporre la prenotazione della presidenza della Commissione di Bruxelles appena rivendicata in una intervista dal vice presidente italiano di quel partito, e vice presidente anche del Consiglio dei Ministri in Italia, Antonio Tajani. Che non si sente candidato -ha precisato sotto i soffitti di Montecitorio- ma potrebbe anche trovarsi ad esserlo a sua insaputa, o quasi. Anche Cristoforo Colombo scoprì l’America a sua insaputa, credendo di essersi spinto già sino alle Indie.

Pubblicato su Libero

Buona festa di liberazione, da chi o da che cosa decidete voi….

La vignetta del Corriere della Sera

Il Corriere della Sera non è la Rai. Nè come programma, pensando a quello regalato ai telespettatori da Gianni Boncompagni fra il 1991 e il 1995, né come azienda, pur essendole affine perché fanno entrambe comunicazione.

Emilio Giannelli

La sede del giornale italiano più diffuso è a Milano e non a Rona, vigilata non da un cavallo di bronzo, possente ma  immaginato morente dall’artista che lo creò, bensì da un umanissimo direttore di mondo che ha sorriso alla vignetta di giornata mandatagli dal vecchio Emilio Giannelli, che ancora ne sforna a 88 anni belli che compiuti. Ed ha deciso di pubblicarla senza lasciarsi tentare da paure, scrupoli e simili che alla Rai invece hanno prodotto lo spettacolo-ossimoro dell’oscuramento di uno Scurati -inteso come lo scrittore Antonio- che in un monologo sulla festa odierna del 25 aprile aveva intravisto, a dir poco, del fascismo nella premier Giorgia Meloni.

Antonio Scurati

Quest’ultima  felinamente  ha tolto lei stessa lo Scurati dall’oscuramento diffondendone il monologo con i suoi modesti e personali mezzi elettronici, un po’ indignata di certo ma un po’ anche divertita all’idea di potere riparare a buon mercato ad un infortunio occorso a chi aveva pensato in viale Mazzini  di  difenderne interessi politici e immagine negando microfono e telecamera al suo detrattore. O critico, come l’interessato preferisce.

Bella ciao…

         Diversamente dal giovane un pò anzianotto Scurati – come avrebbe forse detto la buonanima di Amintore Fanfani  rievocando il commissariamento del movimento giovanile democristiano disposto quando si accorse dei dati anagrafici degli iscritti che vi facevano carriera politica-  il vignettista del Corriere ha piazzato come intrusi la premier Meloni e il presidente del Senato Ignazio La Russa nella camera da letto del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al Quirinale, facendolo sobbalzare al risveglio. E ciò al suono o al canto metaforico della famosissima Bella Ciao in cui si racconta di quella mattina in cui “mi sono alzato e ho trovato l’invasor”

Vignetta di Vauro

         Vauro, SenesI di cognome, invece sul Fatto Quotidiano -e dove sennò- ha riproposto la Meloni indecisa davanti ad uno specchio se farsi notare più andando o più disertando la celebrazione della festa della liberazione. Ma ha optato per la prima soluzione, naturalmente, raggiungendo il capo dello Stato a Piazza Venezia per niente ridotto nelle condizioni immaginate da Giannelli, nè fisiche nè morali, o umorali.

La vignetta di ItaliaOggi

Fuori tema, ma fino ad un certo punto, può apparire la vignetta di  ItaliaOggi sulla povera -si fa per dire-segretaria del Pd Elly Schlein che festeggia il 25 aprile sognando la sua liberazione dalla catena delle cinque stelle di Giuseppe Conte a entrambi i piedi. Ma, quanto a catene di questo tipo, se ne possono immaginare altre ancora, e di altri, di vario colore o schieramento.

         Buona festa comunque a tutti. E buon viaggio a quelli che potranno profittarne per godersi un lungo ponte senza aspettare quello di Matteo Salvini sullo stretto di Messina.

Blog su WordPress.com.

Su ↑