La pedata di Grillo a Conte potrebbe paradossalmente aiutare Draghi

Dal blog di Beppe Grillo

Il caso, anzi l’ironia colta perfettamente da Stefano Rolli nella sua vignetta di giornata sul Secolo XIX, ha voluto che Beppe Grillo licenziasse con una pedata nel sedere Giuseppe Conte dal cantiere di rifondazione del MoVimento 5 Stelle nelle stesse ore in cui a Palazzo Chigi Mario Draghi cercava faticosamente un’intesa con i sindacati sui licenziamenti. E non si può neppure definire “giusta causa” quella indicata da Grillo – perché, ha scritto il comico, garante e quant’altro, Conte “non ha né visione politica, né capacità manageriali, non ha esperienza di organizzazioni, né capacità di innovazione”- non potendosi certo dire che ne abbia il fondatore, viste le condizioni in cui si trova la sua comunità. Che sembra di “tossicodipendenti” per ammissione dello stesso capo.

Dall’editoriale di Marco Travaglio
Titolo del Fatto Quotidiano

            Impietosamente Marco Travaglio, che non si rassegna a dare per chiusa la partita avendo titolato sul Fatto Quotidiano che dei due “ne resterà uno solo” e che “la base molla” con le sue reazioni internettiane quello che il manifesto ha definito “il padre affondatore”, ha raccontato di Grillo: “Fino a qualche tempo fa ci inviava delle lettere firmate “Beppe Grillo e il suo neurologo”. Poi tragicamente il suo neurologo morì. E se ne sente la mancanza. Barricato nel suo bunker, in piena sindrome di Ceausescu, l’Elevato si rimira allo specchio e si dice quanto è bravo. E’ come l’automobilista  che imbocca l’autostrada contromano e pensa che a sbagliare siano tutti gli altri”. Meno male che al direttore del giornale contemplatore delle stelle non è tornato in mente, dell’”automobilista” Grillo, l’incidente su una strada di montagna, tanti anni fa, in cui il comico si buttò dalla vettura che guidava salvandosi ma lasciando precipitare nel burrone e morire gli incolpevoli ospiti. Questa volta, tuttavia, il comico potrebbe difendersi dicendo di avere preferito buttare via il passeggero affiancato al posto di guida rimanendo nella vettura con gli altri nella discesa suicida.

            Molti discutono adesso non tanto della votazione digitale che Grillo ha commissionato al riassunto Davide Casaleggio non sullo statuto “seicentesco” proposto da Conte ma su un comitato direttivo di presunta rianimazione della comunità, quanto degli effetti che il marasma pentastellato potrà avere sul governo Draghi. Se ne mostrano preoccupati, nella maggioranza, un po’ tutti, a cominciare dal segretario del Pd Enrico Letta, che pensa anche, se non soprattutto, alle trattative complicatesi sull’elezione del successore di Sergio Mattarella al Quirinale, a febbraio.

            Paradossalmente si potrebbe dire che Draghi e il capo dello Stato che lo ha così fortemente voluto a Palazzo Chigi avrebbero da temere sorprese più dal licenziato che dal licenziatore, più da Conte, e da quanti sembrano tentati di preferirlo a Grillo, che dal comico rimasto padrone del movimento col comitato direttivo che conosceremo a suo tempo. A darcene conferma è proprio Travaglio nel suo editoriale quando scrive dell’ex presidente del Consiglio come dell’unico in grado di fare partecipare i pentastellati al governo “a schiena dritta”, mettendosi cioè di traverso, dissentendo dalla presunta “trazione” leghista e persino meloniana della maggioranza, creando insomma problemi. Ciò significa appunto, o dovrebbe significare, che su Grillo invece Draghi e Mattarella potrebbero continuare a contare, come all’avvio dell’operazione emergenza. Così è se vi pare, come dice una celebre opera di Luigi Pirandello.

Ripreso da http://www.statmag.it e http://www.policymakermag.it

Clamorosa confessione di Grillo di sentirsi in una comunità di tossicodipendenti

Dal blog del garante del MoVimento 5 Stelle

Fra le varie accuse rivoltegli da Beppe Grillo credo che a Giuseppe Conte sia dispiaciuta, per l’alta considerazione che egli ha maturato di sé anche in politica dopo tanto tempo trascorso alla guida del governo, soprattutto quella di non avere “studiato” il MoVimento 5 Stelle, pur avendone predisposto lo statuto per rifondarlo. E ciò secondo il mandato ricevuto dal “garante” e fondatore in persona in una cornice solenne come quella dei fori imperiali, a Roma, ammirabili dall’albergo abituale di Grillo.

Quello di non avere “studiato” deve essere costato a Conte più ancora- penso- del rimprovero,  in un impeto di rabbia personale davanti ai parlamentari pentastellati, di avere scambiato Grillo per un “coglione”, testuale. Di questo l’ex presidente del Consiglio ha forse sorriso, abituato al linguaggio del comico e provvisto, come ha detto ai giornalisti nella conferenza stampa di risposta, di avere il senso dell’umorismo. Non essersi applicato invece allo studio per un professore di diritto e un avvocato come lui deve essergli sembrata davvero un’offesa, per quanto non tale -ha detto anche questo Conte- da indurlo alla richiesta, attribuitagli da alcuni giornali, di “scuse pubbliche”.

Conte alla conferenza stampa di sfida

            Il professore ha assicurato di avere non solo “studiato” diligentemente il movimento ma di averne anche frequentato ambienti ed esponenti un po’ in tutta Italia nei quattro mesi trascorsi dal conferimento dell’incarico di rifondarlo, e non solo di “imbiancarlo”, come si faceva di Pasqua con le case dalle sue parti, in terra pugliese. Ma egli ha tratto alla fine la convinzione di trovarsi di fronte più che a un movimento, ad una “comunità”. E per giunta “sfibrata” per come evidentemente era stata gestita, o non gestita, sino ad allora in quella che in altre occasioni, quando era ancora presidente del Consiglio, Conte aveva definito con comprensione psicologica “crisi d’identità”. E come tale spiegato ogni tanto ai suoi autorevoli interlocutori internazionali, a cominciare dalla cancelliera tedesca Angela Merkel. Con la quale egli fu sorpreso una volta al bancone di un bar parlare dei problemi, appunto, dei grillini alle prese con gli allora alleati di governo leghisti, che avevano già  cominciato a guadagnare voti a spese delle cinque stelle. La cancelliera, pur abituata a problemi di convivenza tra forze politiche diverse, anzi elettoralmente contrapposte, sembrava guardarlo come un marziano, tanto erano ancora più problematici i rapporti all’interno della maggioranza italiana allora gialloverde, peraltro destinati ad essere uguagliati e persino superati poi nella maggioranza giallorossa.

            Una comunità, anche se non ne mancano in buona salute, per niente sfibrate come quella avvertita da Conte tra incontri, telefonate, viaggi e quant’altro, di solito portano a pensare a problemi, malesseri, disagi. La più famosa che mi viene in mente- chiedo scusa sia a Conte sia a Grillo, che tuttavia ha scritto di sentirsi un po’ circondato da “tossicodipendenti” – è quella fondata nel 1978 a San Patrignano dal compianto Vincenzo Muccioli, e sostenuta finanziariamente dai Moratti. Era una comunità di recupero guidata da Muccioli come un “padre padrone” quale l’ex presidente del Consiglio ha mostrato di credere che sia stato o sia tuttora Grillo esortandolo a diventare finalmente un “genitore generoso”. Muccioli rimediò come capo di quella comunità guai giudiziari peggiori di quelli con i quali ha avuto a che fare Grillo nella sua vita, già prima che gli capitasse sulla testa la tegola del figlio accusato di stupro, si spera senza fondamento, fra le proteste audiovisive del padre, persino a rischio di effetti controproducenti.

            Le dipendenze curate nella comunità di San Patrignano erano notoriamente quelle da droga. Le dipendenze della “comunità” 5 Stelle capitata sotto l’esame di Conte sono fortunatamente, per carità, tutte politiche. Ma fortunatamente sino ad un certo punto se a questa comunità tocca il privilegio, l’occasione, la sventura, chiamatela come volete, secondo gusti e preferenze, di diventare ad un certo punto la forza centrale, in quanto la più votata, di un sistema. O, quanto meno, di una legislatura come quella uscita dalle urne del 2018 e in scadenza nel 2023.

            Le dipendenze di questa comunita finite sotto l’esame di Conte ma avvertite al suo interno prima di lui anche da persone non certo di secondo piano, come l’ex capo e ora “solo” ministro degli Esteri Luigi Di Maio, sono quelle -direi- dell’antipolitica, del Parlamento scambiato per una “scatola di tonno” da tagliare e svuotare, non necessariamente mangiandone o assimilandone il contenuto, ma buttandolo via come nocivo alla salute. Sono le dipendenze -scusatemi anche qui la sincerità- dalle gogne mediatiche e giudiziarie come quella di cui si è recentemente scusato il già citato Di Maio di fronte all’assoluzione in appello di un sindaco del Pd arrestato fra le sollecitazioni e gli applausi della piazza tribunalizia. O le dipendenze dai diritti scambiati per privilegi, furti e via penalizzando. O le dipendenze da una visione spesso utopistica del mondo e dei problemi, con l’inevitabile produzione dei danni che procurano spesso utopia e incompetenza mescolate fra di loro.

            Sono cose dure da pensare e da scrivere, come da confessare cercando di rimediarvi. Ma sono cose- ahimè- vere che non possono essere esorcizzate negandole. Gli struzzi non sono fatti per governare.

Pubblicato sul Dubbio

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Tra sfida e scippo la richiesta di Conte di far votare su di lui sotto le cinque stelle

Titolo del Fatto Quotidiano

            Chi ha simpatie per Conte, o solo lo considera il male minore in uno scenario politico contrassegnato ancora non dico dalla centralità ma dalla presenza del MoVimento 5 Stelle, ha visto e indicato una “sfida” nella conferenza stampa dell’ex presidente del Consiglio. Che ha chiuso il capitolo del confronto, delle mediazioni e quant’altro e ha sfidato, appunto, Grillo a far votare gli iscritti sullo statuto da lui predisposto non per “imbiancare” ma per rifondare davvero il MoVimento.  I contiani vanno dal fanatismo del Fatto Quotidiano alla ragionevolezza, o persino paura dei cosiddetti giornaloni per il rischio di convivere con quella cosa indistinta che è oggi un MoVimento declassato realisticamente da Conte a “comunità”, per giunta “sfibrata” da una crisi di cosiddetta “identita”.

            La “comunità”, al cui voto Conte ha pur affidato la sua partita reclamando anche una vittoria larga, non ai punti, cui egli rinuncerebbe restituendo la creatura al creatore, ricorda un po’ quell’altra di recupero dei drogati resa celebre dal compianto Vincenzo Muccioli a San Patrignano, fondata nel 1978: l’anno politicamente più tragico della Repubblica.  Le brigate rosse sfidarono -anche loro- lo Stato sequestrando e infine uccidendo Aldo Moro. Che della Repubblica era diventato il regista in attesa di arrivare al Quirinale, il palazzo che in un certo senso egli aveva prenotato col ruolo ormai assunto di tessitore degli equilibri politici.

Titolo de La Verità

            Chi invece ha simpatie per Grillo, magari solo scambiandolo per l’avversario più comodo da battere o neutralizzare, ha preferito vedere e indicare nella conferenza stampa di Conte uno “scippo” o un tentativo di scippo, che è notoriamente un reato, di cui c’è ben poco da vantarsi in una società di onesti e ordinati. Ha gridato allo scippo da destra, con la solita franchezza, Maurizio Belpietro sparando il titolo su tutta la prima pagina della sua Verità. Che non è evoluta, diciamo così, come Il Fatto Quotidiano, col quale ha condiviso per un certo tempo attacchi e umori, quando il giornale di Marco Travaglio pendeva dagli umori di Grillo come dalle sue labbra, prima di scoprire e proteggere Conte, magari esagerando.

            Di chi sarà la vittoria in questa partita non so francamente prevedere. Neppure io vado oltre la previsione di Vauro Senesi, che nella vignetta del Fatto ha immaginato e rappresentato “gli strilli di Grillo”. Essi possono essere tutto o niente: tutto se lo statuto predisposto da Conte, che pure affida al garante, cioè al comico, la prerogativa di poter proporre in qualsiasi momento agli iscritti la sfiducia al presidente del MoVimento, non sarà neppure messo ai voti o sarà bocciato, o approvato troppo stentatamente. E niente se, passata l’arrabbiatura, ed esuarita la quantità pur industriale dei suoi abituali insulti, il comico si fingerà quel “genitore generoso” che Conte gli ha suggerito di diventare, magari per tentare poi di tornare ad essere “il padre padrone” che lo stesso Conte ha mostrato di avere avvertito sia quando era presidente del Consiglio, subendo o prestandosi a tutte le sue svolte, sia nei quattro mesi in cui ha assicurato di avere “studiato” il MoVimento, e non solo predisposto lo statuto.

            Pemettetemi un’ultima malizia. Da padre padrone Grillo si è comportato anche nei riguardi del figlio Ciro con quell’improvviso video in cui, pur volendolo difendere dai sospetti di stupro coltivati dai magistrati inquirenti di Tempio Pausania, in realtà lo spingeva verso il rinvio a giudizio. I padri padroni sono specialisti nelle autoreti.  

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L’ascesa di Luigi Di Maio fra le cinque stelle cadenti di Grillo e di Conte

            Smascherati nel senso di liberi dalle loro maschere sanitarie e politiche in quest’Italia d’altronde bianca nella valutazione degli epidemiologi, Beppe Grillo e Giuseppe Conte devono esserle dette e metaforicamente date di tutti i colori, e di tutte le ragioni, in una telefonata che è stata definita “di fuoco” e “burrascosa” da quelli del Fatto Quotidiano. Che onestamente -va loro riconosciuto- hanno precisato di averlo saputo da fonti contiane, registrando per dovere diciamo così d’ufficio anche voci evidentemente diffuse da fonti grilline di successivi “segnali di pace”.

Giuseppe Conte e Rocco Casalino
Nina Monti

            Sotto le stelle ormai cadenti dell’omonimo MoVimento anche i comunicatori sono divisi. O fanno i giochi ordinati dai loro referenti. Non a caso è anche sulla scelta dei comunicatori che fondatore e rifondatore si sono scontrati, l’uno diffidando delle scelte e frequentazioni dell’altro. Grillo, per esempio, si fida della cantautrice Nina Monti, in linea con lui anche con quello che canta, come “Indignati ancora”. Conte invece preferisce ormai il suo Rocco Casalino, che lo sovrasta anche di stazza fisica. E al quale si attribuisce, a torto o a ragione, la convinzione che ormai da solo Conte valga molto più di Grillo e possa stracciarlo, o quasi, alle elezioni con liste personali.

            Di quello che fondatore e rifondatore si sono detti, e persino gridati, qualcuno avrebbe persino ascoltato per strada, sotto l’abitazione romana dell’ex presidente del Consiglio, l’accusa di Conte a Grillo di avere ormai “distrutto il progetto”, almeno il suo. Che una volta egli stesso definì di “umanesimo”, naturalmente “sostenibile”, come lo sviluppo e tutto ciò che l’ex capo del governo avverte, propone, contempla.

            Mancano ormai, mentre scrivo, poche ore alla conferenza stampa preannunciata da Conte per la chiusura fallimentare o la prosecuzione della missione rifondatrice del MoVimento affidatagli in febbraio da Grillo davanti ai resti dei Fori Imperiali, a Roma. Ma non è azzardato prevedere che anche nella ipotesi di una prosecuzione, consigliata all’esterno delle 5 Stelle ai due contendenti pure dalla sondatrice e consigliera di fiducia di Silvio Berlusconi, Alessandra Ghisleri, sulle colonne del Fatto Quotidiano, si tratterà sempre di un percorso accidentato. Non avremo insomma un abbraccio alla maniera di Roberto Mancini e di Gianluca Vialli, che ha commosso gli italiani dopo la vittoria sugli austriaci e la promozione degli azzurri ai quarti di finale dei campionati europei di calcio.

Titolo di Domani

            Dalla crisi intervenuta o aggravatasi nei rapporti tra Grillo e Conte, o viceversa per chi preferisce l’ordine alfabetico, l’unico che sembra averci guadagnato davvero nel MoVimento è l’ex capo e ora ministro degli Esteri Luigi Di Maio, indicato ad esempio per il suo lavoro alla Farnesina da Grillo come in una finzione, voglia, previsione di reinvestitura. Non ha forse torto Stefano Feltri, anche nella valutazione negativa che ne consegue, a scrivere sul Domani di Carlo De Benedetti che “se i Cinque stelle vogliono capitalizzare quel che resta della loro esperienza politica, il modello Di Maio si delinea come l’unico rimasto: un partito spregiudicato, senza identità definite, capace di passare dalla richiesta di impeachment per il capo dello Stato a difensore delle istituzioni, da rivale delle lobby a loro strumento prediletto, contemporaneamente anti-evasione e propenso a piccoli condoni, fustigatore dei malcostumi e sempre attivo nel piazzare amici, famigli, portaborse”.

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Agisce fra Conte e Grillo sotto le cinque stelle un pontiere di nome Di Maio

            Chissà se la bella vittoria degli azzurri sugli austriaci e l’arrivo dell’Italia nei quarti di finale dei campionati europei di calcio contribuirà a fare sbollire sconcerto, rabbia, paura e quant’altro sotto le cinque stelle fra i due Giuseppi, alla Trump, cioè Conte e Grillo, in ordine per ora solo alfabetico. E ad aprirli a quell’accordo per il quale sono impegnati in tanti nel MoVimento, a cominciare dall’ex capo e ora “solo” ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Il quale, in verità, è spesso apparso nei rapporti con Conte più un competitore che un sostenitore. E così mi sembra che sia stato avvertito anche da Grillo, che non a caso- al termine dell’incontro con i parlamentari in cui aveva accusato Conte di averlo scambiato per un “coglione” ridimensionandone la figura come garante nel nuovo statuto- ha generosamente definito Di Maio “uno dei migliori ministri degli Esteri” italiani, quasi stimolandolo a nuove imprese o ritorni. Altro che la funzione di “pontiere” attribuito dai giornali, per esempio dal manifesto, all’ex capo del MoVimento.

Paolo Emilio Taviani

            “Pontiere” nella storia della Dc volle essere chiamato con una corrente appena costituita il ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani a metà degli anni Sessanta, quando Aldo Moro a Palazzo Chigi, alla guida dei primi governi “organici” di centro-sinistra, con la partecipazione cioè diretta dei socialisti, cominciò ad avere problemi con la sinistra del suo partito. Dove c’era chi voleva già scommettere sull’evoluzione del Pci ritenendolo più affidabile del Psi. Taviani si propose come pontiere, appunto, fra Moro e quella parte del partito rappresentata dai “basisti” guidati da Giovanni Marcora al Nord e Ciriaco De Mita al Sud.

Aldo Moro nel 1968

            Dopo le elezioni politiche ordinarie del 1968 la rottura si consumò invece tutta all’interno della corrente dei “dorotei”, fra Moro estromesso da Palazzo Chigi e Mariano Rumor smanioso di succedergli per una edizione “più incisiva e coraggiosa” del centro-sinistra, pur avendo sino al giorno prima accusato l’allora presidente del Consiglio di troppa cedevolezza ai socialisti e chiusura all’opposizione. Moro naturalmente non gradì e si diede un’estate di riflessione, all’ombra di un ombrellone a Terracina e di un governo balneare di Giovanni Leone a Roma. Taviani gli mandò Francesco Cossiga per esplorarne umori e progetti. Quando si convinse della irremovibilità dell’ormai ex presidente del Consiglio nel proposito di staccarsi dai dorotei e scavalcarli a sinistra teorizzando la famosa “strategia dell’attenzione” verso il Pci, e persino il movimento studentesco guardato con sospetto alle Botteghe Oscure, Taviani andò ad offrirsi a Rumor per rimpiazzare nel Consiglio Nazionale della Dc i voti di Moro e amici che sarebbero passati all’opposizione interna.

            Nel successivo congresso Moro si sarebbe vendicato a suo modo di quello che aveva avvertito come un tradimento traducendo l’attività svolta ai suoi danni dal ministro dell’Interno nell’”operoso silenzioso dell’onorevole Taviani”.

Ma torniamo ai nostri giorni, cioè ai guai dei grillini, dati ieri dall’insospettabile Fatto Quotidiano nel titolo di testa di prima pagina a soli “2 giorni dalla morte”, ma orgogliosamente riproposti oggi da Marco Travaglio nel suo editoriale ben vivi col loro 15-18 per cento dei voti ancora raccolti nei sondaggi, forse grazie proprio a Conte. A Grillo pertanto, come gli suggerisce o intima una vignetta di Riccardo Mannelli, non rimarrebbe che “vaffancularsi” da solo. Lo farà?

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Non è Draghi ma il Pd di Letta ad essere minacciato dal caos grillino

            A dispetto delle apparenze tradotte nel titolo in cui Il Foglio si chiede, o cerca di spiegare ai lettori “quanto può far male al governo lo scazzo tra Grillo e Conte”, o nel titolo di Repubblica su “Draghi in equilibrio sulle rovine grilline”, col sottinteso che sia un equilibrio instabile, non è il presidente del Consiglio a rischiare di più nella crisi non esplosa, per cortesia, ma aggravatasi nel MoVimento 5 Stelle. Dove la situazione è ormai tale, dopo il sostanziale vaffanculo di Beppe Grillo e Conte, e viceversa, che persino al Fatto Quotidiano, abituati a mirar le stelle qppunto, hanno titolato che esse hanno solo “2 giorni per non morire”.

Fotomontaggio del Fatto Quotidiano

            Ma due giorni per non morire sono forse anche troppi. O, se preferite, troppo pochi se si pensa all’ipotesi di un’agonia ancora più lunga e dolorosa: se non per il paziente sedato a dovere da qualche medico pietoso, almeno per quelli che gli hanno voluto bene, e magari ancora glene vogliono da incalliti visionari, come Beppe Grillo si è orgogliosamente autodefinito contestando a Conte di non avere voluto imparare ad esserlo anche lui, studiandosi bene la storia ormai più che decennale del movimento che ha sognato da febbraio di potere davvero “rifondare”. Quella infatti fu la missione che da visionario -ripeto- il comico genovese affidò in una domenica mattina di febbraio all’ex presidente del Consiglio nell’albergo romano affacciato sui ruderi dei Fori Imperiali.

            Arrivati come siamo sulla soglia del cosiddetto semestre bianco, quando il presidente della Repubblica in scadenza di mandato non può sciogliere le Camere e restituire la parola agli elettori, sono disarmati anche i grillini che volessero scaricare sul governo gli estremi effetti delle loro liti interne. Una crisi si aprirebbe con la soluzione scontata della sostanziale conferma del governo cosiddetto uscente, con qualche ministro in meno.  La maggioranza sopravviverebbe con quella parte del movimento che, comunque si volesse o dovesse chiamare, dovesse dissentire dal resto. Quella dei pentastellati di sentirsi e dirsi “la maggioranza”, per quanto relativa, nel Parlamento uscito dalle urne del 2018 ormai  è solo una pretesa, non più una realtà dopo tutti i deputati e i senatori che il movimento ha perso per strada,  cacciandoli o non. Ed è diventata una pretesa anche quella di potere svolgere, nelle condizioni in cui si sono messi da soli, chissà quale ruolo nella partita del Quirinale che si dovrà giocare a febbraio dell’anno prossimo.

            Non è a rischio il governo Draghi, d’altronde cresciuto nell’ultimo mese di cinque punti nell’indice di gradimento appena rilevato da Ipsos per il Corriere della Sera, di cui riferisce oggi Nando Pagnoncelli precisando ch’esso è arrivato a 69 punti, 71 per la persona del presidente del Consiglio. A rischio piuttosto è il segretario del Pd Enrico Letta, che fa bene nelle foto a rotolarsi le maniche della camicia perché lo aspetta una bella fatica. Che è quella di fronteggiare i malumori nel suo partito, convinto nei mesi scorsi, dopo le improvvise dimissioni di Nicola Zingaretti, di mettersi nelle sue mani, e non in quelle di un Conte “scontato”, come lo ha sfottuto Stefano Rolli nella vignetta del Secolo XIX: un Conte che aveva ricevuto da Grillo l’incarico non tanto di rifondare il MoVimento 5 Stelle quanto di fargli da prestanome proprio su tutto, a cominciare dalla politica estera filocinese. La sponda di Conte è diventata a questo punto per Letta una trappola politicamente fatale.  

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Grandine su Conte, accusato da Grillo di averlo scambiato per un “coglione”

          Già indebolito di suo dal confronto quotidiano imposto dagli avvenimenti fra ciò che non riusciva a fare a Palazzo Chigi con tutti i sondaggi che pure gli gonfiavano le vele e ciò che sta facendo invece il suo successore fra l’interesse e l’ammirazione degli interlocutori internazionali, compreso il cardinale Pietro Parolin appena compiaciuto della risposta ottenuta nella vertenza aperta dalla Santa Sede sullo scivoloso tema dell’omotransfobia, Giuseppe Conte ha preso la classica tranvata da Beppe Grillo. Che gli ha praticamente tagliato l’erba sotto i piedi di designato a capo di un MoVimento 5 Stelle rifondato, anche se a designarlo fu proprio lui una domenica del mese di febbraio di quest’anno nella suggestiva cornice dei resti dei fori imperiali, visibili dall’albergo dove il comico genovese suole alloggiare nelle sue incursioni romane.

Titolo del Fatto Quotidiano

            Più che pioggia, come sui vetri dell’auto a bordo della quale Grillo è stato sorpreso nella Capitale dai fotografi, sul povero Conte è caduta la grandine, accusato peraltro dallo stesso Grillo di averlo scambiato per “un coglione” -testuale, secondo le parole gridate ai parlamentari pentastellati- prevedendone il sostanziale ridimensionamento come “garante” nello statuto del MoVimento di nuova edizione. “E’ lui -ha detto ancora Grillo di Conte- che ha bisogno di me”, non avendo “studiato bene” la creatura politica che gli era stata affidata o promessa. E non è neppure detto che si riesca ad arrivare ad un esame di riparazione, al quale peraltro il professore è stato un po’ sollecitato dal fedelissimo Marco Travaglio, sul Fatto Quotidiano, a sottrarsi a schiena dritta, prendendo cioè lui, a questo punto, l’iniziativa di rompere.

            Delle due l’una, ha scritto Travaglio nel suo editoriale di commento all’esplosione della rabbia di Grillo: “1) Gli eletti e gli iscritti ai 5Stelle votano sulla nuova piattaforma (“uno vale uno”) per decidere chi fa il capo e chi fa il coglione. 2) Conte si grillizza per un giorno, manda tutti affanculo e se ne torna a fare l’avvocato e il professore, dopo quattro mesi di volontariato senza stipendio, riconsegnando i 5Stelle a Grillo: è lui che li ha fondati, è giusto che sia lui ad affondarli”. O ad affondare quel che n’è rimasto -ha scritto Travaglio in altra parte del suo furente articolo di sostegno a Conte, e di abbandono del comico- dopo avere “mandato il M5S al macello nel governo più restauratore mai visto”. Che sarebbe naturalmente quello di Draghi, dal quale recentemente l’ex presidente del Consiglio –“un affermato avvocato civilista e docente universitario -ha scritto Travaglio- divenuto in tre anni il politico più popolare”- ha preso  vistosamente le distanze, ”disorientato” dalle scelte prevalentemente imposte, secondo lui, dall’odiato Matteo Salvini. E così vistosamente da lasciare immaginare una bella crisi durante il cosiddetto semestre bianco imminente, quando il presidente della Repubblica è disarmato per non potere sciogliere le Camere.

            Il caso -ma solo questo?- ha voluto che un estimatore di Conte come Goffredo Bettini, una specie di consigliere prestatogli dal Pd, avesse ieri confidato al Foglio di non vedere il governo del pur apprezzabilissimo Draghi destinato a durare sino alle elezioni del 2023. E questo -ha precisato- non perché preveda lo stesso Draghi al Quirinale o perché il nuovo capo dello Stato sciolga in anticipo le Camere. Non lo vede e basta, come dice abitualmente anche Travaglio in televisione a chi lo ospita e gli chiede previsioni non meteorologiche.

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Draghi scrutato fra le righe della sua interlocuzione col Vaticano

Il deputato del Pd Alessandro Zan, autore del controverso disegno di legge contro l’omotransfobia

Per quanto all’occorrenza sappia essere spiritoso nella sua abituale severità, dubito che Mario Draghi sia in veste di presidente del Consiglio sia in veste di membro della Pontificia Accademia delle scienze sociali, nominato dal Papa ben prima che Sergio Mattarella lo mandasse a Palazzo Chigi, si sia riconosciuto e divertito nel vigile urbano di Roma proposto ai lettori del Corriere della Sera da Emilio Giannelli. Che in una vignetta lo ha immaginato in via della Conciliazione impegnato a multare l’auto del Pontefice, pizzicato in flagranza, diciamo così, di ingerenza per via della nota verbale della Segreteria di Stato del Vaticano consegnata all’ambasciata italiana presso la Santa Sede. In essa si chiede una diversa modulazione del disegno di legge già approvato dalla Camera e ora all’esame del Senato contro l’omotransfobia, noto col nome del proponente: il deputato del Pd Alessandro Zan.

Il documento della Segreteria di Stato d’oltre Tevere

            Emilio Giannelli ha interpretato, come altri su diversi giornali, le dichiarazioni fatte da Draghi al Senato, in riferimento a quella nota, alla stregua di una mezza porta in faccia sbattuta quanto meno al Segretario di Stato del Vaticano, se non proprio al Papa. Che d’altronde qualcuno, fra gli esperti delle mura leonine, ha immaginato sia stato preso alla sprovvista pure lui dall’iniziativa. Mi sembra francamente difficile che le cose oltre Tevere si siano italianizzate, cioè pasticciate, sino a questo punto. Né mi sembra che il Pontefice abbia tanta pazienza da sopportare in silenzio un evento del genere, senza destituire sul posto, e all’istante, un pur ragguardevole arcivescovo equiparabile al nostro ministro degli Esteri, per quanto si tratti nel nostro caso del giovane e necessariamente, direi anagraficamente poco esperto Luigi Di Maio.

La traduzione delle dichiarazioni di Draghi nel titolo della Verità

            Comunque, anche se l’ordinarietà, per le abitudini in voga nel nostro bel Paese, è scambiata qualche volta per eccezionalità, Draghi ha fatto poco di sconvolgente o di eroico nel ricordare alla Segreteria di Stato del Vaticano che la nostra è una Repubblica “laica, non confessionale”. Nella quale non a caso da anni ormai vigono, regolarmente disciplinati, il divorzio e l’aborto non certo di casa oltre Tevere. E personalmente andrei piano anche a liquidare come ingerenza l’iniziativa della Santa Sede, con o senza copertura del Papa, specie se ad avvertirla così negativamente sono persone e parti politiche – come ha osservato  il buon Mattia Feltri sulla Stampa nel suo “pianto greco”-  che si compiacciono, per esempio, delle posizioni della Chiesa in tema di immigrazione e simili per contrapporle a quelle dell’inviso Matteo Salvini. Il quale, a sentire i nostalgici di Giuseppe Conte, starebbe condizionando il governo nella maggioranza di emergenza ben più del Pd, delle 5 Stelle, o 5 schegge, della sinistra dei liberi e uguali o di tutti costoro messi insieme.

            Piuttosto che la scontata natura laica e non confessionale della nostra Repubblica, mi ha  personalmente colpito delle dichiarazioni di Draghi al Senato la inopportunità da lui avvertita di “entrare nel merito” del controverso disegno di legge, trattenuto tanto a lungo in commissione, dopo l’approvazione alla Camera, proprio per l’azione di contrato condotta dal centrodestra e per i dissensi esistenti anche all’interno di altri gruppi. Che non mi sembrano essere usciti indeboliti dalle critiche o preoccupazioni espresse, bene o male, dalla Chiesa e presumibilmente destinate ad alimentare quelle, diciamo così, domestiche. E che questo non sia “il momento del governo”, come ha detto Draghi nelle sue brevi ma meditatissime osservazioni nell’aula di Palazzo Madama, non mi sembra escludere che esso possa maturare successivamente, quando il confronto fra e nei gruppi, partiti e quant’altri sarà diventato più stringente, si presume dopo l’approdo del provvedimento in aula e la prevedibile rincorsa degli emendamenti.

            Al Senato peraltro gli schieramenti tradizionalmente intesi di centrodestra e di centrosinistra, comprensivo quest’ultimo del MoVimento 5 Stelle in corso di una rifondazione talmente complicata da rischiare il crollo definitivo, sono talmente risicati e incerti che in ogni loro appuntamento con una votazione i numeri ballano come quelli del lotto. Ne sanno qualcosa proprio sotto le 5 Stelle, avendo Conte tentato di resistere alla crisi nei mesi scorsi barricandosi a Palazzo Chigi per ricevervi senatori di varia tendenza provvidenzialmente disposti a soccorrerlo per vanificare il passaggio all’opposizione minacciato o attuato, secondo le ore o i giorni, dai renziani.

            Alla fine, come si ricorderà, sfiancato dalle attese, dalle trattative, dai ripensamenti, e  incalzato dal rischio di vedersi bocciato il guardasigilli grillino Alfonso Bonafede in un dibattito non eludibile sulla situazione della giustizia, l’allora presidente del Consiglio fu costretto praticamente alla resa e al commiato. Mi chiedo a questo punto perché si possano o si debbano escludere sorprese nell’esame ancora in corso della legge Zan, trasformata forse imprudentemente in una barricata dai soliti oltranzisti, che non mancano mai dalle nostre parti: a destra, a sinistra e persino al centro.

Pubblicato sul Dubbio

L’astuzia di Mario Draghi superiore alla faziosità di certi suoi interpreti

            Preceduto a Montecitorio, forse poco elegantemente, dal presidente della Camera Roberto Fico, peraltro fuori dall’aula e pur sapendo che in materia stava per parlare il capo del governo, interlocutore del Vaticano dopo la nota diplomatica giunta da oltre Tevere, il presidente del Consiglio Mario Draghi non ha avuto certo difficoltà a ribadire al Senato la natura “laica” e “non confessionale” della Repubblica. Dove peraltro vigono, regolarmente disciplinati, divorzio e aborto che Draghi si è risparmiato per cortesia di citare.  Pertanto il Parlamento è libero e “sovrano”, come aveva detto appunto Fico, di legiferare contro l’omotransfobia. E’ ciò che si sta  cercando appunto di fare a Palazzo Madama dopo l’approvazione alla Camera di un provvedimento che porta il nome  del proponente Alessandro Zan, deputato del Pd attivista di Lgbt, acronimo dell’area di sostegno a lesbiche, gay, bisessuali e transgender.

            Diversamente però dall’interpretazione datane, per esempio, sul Corriere della Sera da Emilio Giannelli, che nella sua vignetta ha travestito Draghi da vigile urbano che multa -evidentemente per ingerenza- il conducente dell’auto col Papa in via della Conciliazione, il presidente del Consiglio si è dichiaratamente tenuto fuori “dal merito della discussione parlamentare” perché “questo -ha detto- non è il momento del governo”. Il disegno di legge è infatti ancora in commissione e tutto lascia prevedere che quando arriverà in aula ci saranno proposte emendative sulle quali sono in corso se non trattative, contatti fra gruppi e partiti, a cominciare dal Pd. Di cui il segretario Enrico Letta, pur favorevole al provvedimento, ha annunciato la disponibilità al confronto. E sono poi possibili anche altri passaggi, per esempio davanti alla Corte Costituzionale, se la legge nel suo testo definitivo e promulgato dovesse essere contestato secondo le procedure di garanzia esistenti.

            Anche dal Vaticano, d’altronde, non si dispera per niente di vedere una diversa “modulazione” della legge, che esoneri, per esempio, le scuole private dal partecipare all’organizzazione di quella festa annuale che si vorrebbe istituire contro l’omotransfobia, cioè a favore -ripeto- di lesbiche, gay, bisessuali e transgender. “In Vaticano -ha titolato Il Foglio scrivendo “non solo” del disegno di legge Zan- ci si fida di Draghi per aprire una nuova stagione”. Il Fatto, dal canto suo, convinto della presunta ingerenza del Vaticano, ha accusare Draghi di aver “fatto il laico”, scaricando poi tutto sul Parlamento, e su quanto potrà accadervi, affollato com’è di “turiboli”, secondo l’editoriale di Marco Travaglio.

            Non ci vuole del resto una grande intelligenza o esperienza politica per capire o sapere che le già forti resistenze parlamentari contro il testo della legge Zan uscito dalla Camera, fra il centrodestra e parti dello stesso Pd e di altre formazioni, fra cui l’Italia Viva di Matteo Renzi, non sono certo uscite indebolite dalle critiche e richieste di “rimodulazione” formulate dalla Chiesa. Potrebbero pur venire sorprese all’onorevole Zan dalle votazioni a scrutinio segreto in un’aula come quella del Senato, dove i numeri sono sempre un po’ sofferenti o stentati, a dir poco.

            La partita insomma è ancora aperta, o per niente chiusa com’è apparso ad alcuni frettolosi o parziali interpreti delle ponderate dichiarazioni del presidente del Consiglio. Che ha confermato di essere un uomo abbastanza astuto per saper navigare anche nelle acque spesso un po’ torbide della politica.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Il cerino del Vaticano sull’omofobia finisce tra le dita di Mario Draghi

            Con la solita arguzia mista a irriverenza o blasfemia Sergio Staino ha tradotto sulla Stampa l’intervento della Chiesa non contro, come si è largamente titolato con la solita approssimazione politica, ma su una legge in esame al Senato d’iniziativa parlamentare, travestendosi da San Pietro all’ingresso del Paradiso. E bloccando una coppia LGBT- ormai noto acronimo di lesbica, gay, bisessuale e transgender, coi colori dell’arcobaleno- perché, pur sapendoli “bravi e buoni”, ha “problemi con il Vaticano”. Una cui “nota verbale” consegnata all’ambasciata italiana presso la Santa Sede ha squassato il mondo politico avvertendo una violazione del Concordato in una norma del disegno di legge che non esonera le scuole private dall’organizzazione della istituenda festa, o giornata, contro l’omotransfobia.

            Fra tutti, il partito più squassato dall’intervento del Vaticano è apparso il Pd, che si è subito diviso fra la voglia di dialogare con la Chiesa, magari formulando diversamente la norma contestata oltre Tevere, e quella di chiudersi a riccio nella difesa laica, diciamo così, del testo. Il segretario cattolico Enrico Letta, per non sbagliare, si è fatto tentare sia dalla prima sia dalla seconda strada, incorrendo peraltro nella derisione del leader leghista Matteo Salvini. Al quale non è sembrato vero ricambiare il sarcasmo col quale la sera prima, in televisione, lo stesso Letta si era vantato dei voti che la Lega perde nei sondaggi facendo parte, col Pd e gli altri partiti, del governo di emergenza di Mario Draghi.

            Contrario al disegno di legge già approvato dalla Camera e in discussione al Senato, Salvini ha beffardamente proposto al segretario del Pd di parlarne insieme per trovare il nodo di comporre la vertenza aperta in modo imprevisto dalla Chiesa. E Letta, nel frattempo affrettatosi a sentire il ministro grillino degli Esteri, per le cui mani è transitata la nota diplomatica, si è quanto meno “morso la lingua”, come ha sospettato o intuito sulla Stampa Amedeo La Mattina. Ma per fortuna, penso, anche del segretario del Pd la questione alquanto spinosa, al netto -ripeto- di tutte le esagerazioni sparate nei titoli dei giornali, spintisi a parlare di “guerra fra Stato e Chiesa”, come sul Riformista, la questione è stata avocata dal presidente del Consiglio in persona. Al quale in qualche modo la polemica ha guastato la festa a Cinecittà con la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen per l’approvazione comunitaria del piano italiano della ripresa.

            Quella di Draghi sarà sicuramente una gestione dell’affare col Vaticano più avveduta e sicura dei partiti, correnti e sottocorrenti della maggioranza di governo, pur trovandosi il presidente del Consiglio -bisogna ammettere anche questo- in una situazione assai delicata: persino ai limiti di un conflitto d’interessi che -vedrete- qualcuno cercherà di contestargli fra i nostalgici del suo predecessore a Palazzo Chigi Giuseppe Conte, che pure ha notoriamente parecchie relazioni personali oltre Tevere. Ma Draghi fa anche parte dell’Accademia Pontificia delle Scienze Sociali, nominato personalmente dal Papa ben prima ch’egli diventasse presidente del Consiglio.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

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