Quando la politica si fa tragedia nelle mani e fra i piedi dei comici

L’editoriale del Corriere della Sera
Da Kiev

In pendenza di negoziati ma anche di ogni sorta di preparativi di resistenza degli ucraini ai russi decisi a divorarseli secondo le peggiori tradizioni sovietiche, quel furbacchione del mio carissimo amico Paolo Mieli con finta ingenuità o scetticismo si è chiesto sul Corriere della Sera, un pò da giornalista e un pò da storico, “quando è stato che Zelensky ha incautamente lanciato il guanto di sfida all’autocrate di Mosca”. “Che giorno, che mese, che anno?” ha insistito l’editorialista ed ex direttore del più diffuso giornale italiano. 

Il racconto di Paolo Mieli

    Non più tardi del 2009, appena eletto presidente degli Stati Uniti, “Obama -ha raccontato Mieli con la sua solita precisione- volle verificare con l’allora segretario generale della Nato, l’olandese Jaap de Hoop Scheffer, lo stato della “pratica Ucraina e Georgia” (25 marzo)”, praticamente aspiranti all’adesione all’Alleanza Atlantica, dove sono confluite ben 15 Repubbliche ex sovietiche. “Pur senza citarle esplicitamente, Obama disse che le cose -ha raccontato ancora Mieli- sarebbero andate avanti stando attenti a non urtare la suscettibilità russa. Nel luglio di quello stesso anno (2009) Obama si recò a Mosca, incontrò Putin e furono rose e fiori. Poi venne il 2014 con piazza Maldan”, la più centrale di Kiev, “la “rivoluzione arancione” a cui si accompagnò l’annessione russa della Crimea. Le cose si complicarono. Da quel momento la questione Ucraina-Nato è rimasta lì, sospesa. Niente è accaduto che possa giustificare l’apertura di una crisi di queste proporzioni”. 

Zelensky vince le elezioni in Ucraina
Zelensky presidente

  Eh no, caro il mio Paolo. Il 20 maggio di cinque anni dopo, 2019, il comico ucraino Volodymir Oleksamdroviyc Zalens’kyi, col quale mi scuso se gli ho involontariamente storpiato  i nomi, replicò in qualche modo nel suo paese, superandolo alla grande, il più anziano o meno giovane collega italiano Beppe Grillo, diventato l’anno prima da noi il leader del partito più rappresentato in Parlamento. Zelensky fu addirittura eletto presidente dell’Ucraina con più del 70 per cento dei voti e maneggiò con la solita irruenza dei comici quella specie di bomba atomica che, nella situazione geopolitica dove si muoveva, diversa -per fortuna di Grillo- da quella italiana, era il progetto di adesione alla Nato. I grillini invece volevano uscirne. 

  Ecco, caro il mio Paolo, che cosa può accadere quando la politica finisce nelle mani o fra i piedi, e non so cos’altro, di un comico. E si preferisce prendersela, come ha fatto appunto Mieli, col politico di professione Enrico Letta, segretario del Pd, che si è lasciato recentemente scappare in una intervista alla Stampa che l’Ucraina avrebbe dovuto già entrare da tempo nella Nato, all’ombra della quale si sarebbe probabilmente risparmiata ciò che le sta accadendo perché Putin sarebbe morto d’indigestione sanguigna, come un Dracula imperiale, 

Titolo di Repubblica
Grillo e Conte insieme

      A proposito del segretario del Pd, tuttavia, diversamente da mio amico Mieli, ripeto, io non gli rimpvererei tanto il pur incauto ranmarico per il troppo tempo perduto per sbrigare la “pratica” dell’Ucraina nella Nato. Gli rimprovererei piuttosto il troppo tempo che sta continuando a perdere  inseguendo come alleati di governo, in una “compagnia larga”, i grillini. Dei quali diffido molto che si possa dire, in caso di difficoltà, quello che Repubblica ha scritto oggi di Zelensky, sinora rifiutatosi di fuggire dal suo paese su qualche aereo o elicottero di fortuna: “un guerriero per caso”. Guerriero chi? Uno come Grillo che si lanciò fuori da un’auto per non morire con gli ospiti che aveva a bordo nella sua spericolata gita in montagna? O Giuseppe Conte? Che da “avvocato del popolo” -ricordate?- avrebbe ben potuto fare il vice presidente del partito di Zelensky chiamato “Servitore del Popolo”. Ci sarebbe da ridere se non ci fosse invece da piangere. 

Fermi, per favore, non scendete in piazza dopo gli abusi contro Draghitler

Titolo della Nazione
Manifestazione a Roma a luglio scorso

    Più che gridare “Fermatelo” a Putin, come fa a Firenze La Nazione, credo imitata dagli altri quotidiani del gruppo Monti Riffeser, oggi griderei “fermateli” a tutti quegli italiani, uomini e donne, vecchi e giovani, persino adolescenti, che si sentissero invogliati a scendere per strada con cartelli, striscioni, manifesti, vignette e quant’altro tradotti nella nostra lingua, o magari lasciati integri nella loro versione originaria, tanto sono chiari, contro Putin equiparato ai peggiori mostri, neri e rossi, del secolo scorso in Europa. 

Draghi nell’immaginazione dei no vax

          Questo diritto di dimostrare nel nostro bel Paese lo abbiamo perduto dopo che abbiamo sparato, o lasciato sparare indisturbati, tutte le pallottole di carta e di voce sino a non più tardi di qualche mese fa contro Mario Draghi, il redivivo Hitler a guardia dei campi di concentramento in cui chiudere a doppia mandata, e spingere poi nei forni e simili, i dissidenti -chiamiamoli così- delle campagne di vaccinazione anti-Covid affidate non a caso a un generale degli alpini, pur pacificamente chiamato Figliuolo, neppure Figlio, che suonerebbe più virile, più attrezzato a rastrellamenti del tipo di quelli attribuiti alla fantasia perversa del presidente del Consiglio. Che, già portato di suo a simpatie per la cultura tedesca, come il suo predecessore alla Banca d’Italia e a Palazzo Chigi Carlo Azeglio Ciampi, era peggiorato negli anni scorsi a Francoforte alla guida della Banca Centrale Europea, salvandone la moneta nel momento più pericoloso con una sola frase pronunciata tuttavia  in inglese. 

La fantasia al telefono
Fotomontaggio di Draghi

          Dopo aver dato nelle strade e nelle piazze dimostrazioni di tanta e tale idiozia, con la comprensione sotto sotto anche di qualche partito o parte di una maggioranza di addirittura unità nazionale, provvidenzialmente imposto dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella interrompendo finalmente il gioco della “centralità” grillina di questa legislatura impersonata da Giuseppe Conte, noi italiani dovremmo sentirci quanto meno a disagio nell’imitare gli ucraini e quanti altri prenderebbero molto volentieri a calci in culo Putin, come la buonanima di Palmiro Togliatti si propose di fare, per fortuna inutilmente, con Alcide De Gasperi che nel 1948 si giocava da par suo la partita della democrazia in Italia. E se si sbagliò Togliatti, a sentire il quale nell’Assemblea Costituente persino uno come Benedetto Croce sentiva “aleggiare lo spirito della cultura”, figuratevi come e sino a quanto possono sbagliare i suoi emuli, pronipoti e simili di quel che rimane della sinistra italiana, 

Putin e l’Ucraina
Vignetta del Corriere

Non più tardi di ieri, intervistato dalla Stampa, Massimo D’Alema -e chi senno?- non ha preso per fortuna le difese di Putin, ma in qualche modo ha cercato di dare torto anche a chi lo attacca per la sua dissennata gestione della crisi ucraina. Ah, se ci fosse stato lui alla Farnesina, al posto dell’ex bibitaro grillino Luigi Di Maio, come ancora lo sfotte un altro predecessore, il liberale Antonio Martino, chissà come e quanto sarebbe cambiata la musica in Europa, in America e in Cina. E quanto avrebbero potuto starsene tranquilli gli ucraini a casa loro ad attendere le rimesse delle tante badanti che custodiscono anche in Italia gli anziani di cui non abbiamo più voglia o tempo di occuparci direttamente. 

Dal Corriere della Sera
Dal Corriere della Sera

        Chiudo insistendo nella raccomandazione di trattenervi dallo scendere, anzi dal ritornare in piazza dopo le imprese dei mesi scorsi contro Draghitler, chiamiamolo così. E Che Iddio ce lo conservi a lungo, il nostro Draghi, magari anche dopo le elezioni ordinarie del 2023, salvo rinvii per ragioni stavolta di guerra. Accettiamo quella richiesta di avvertire “un pò di vergogna” lanciataci oggi sulla prima pagina del Corriere della Sera dal buon Aldo Grasso  “per le parole a vanvera” di cui abbiamo o avete abusato prima che la crisi ucraina sommergesse quella pandemica. 

L’Ucraina ci è molto più vicina di quanto non si possa credere…

Dal Corriere della Sera
Sempre dal Corriere della Sera

Grazie al caffè offertomi questa mattina sul Corriere della Sera da Massimo Gramellini, stavolta ben zuccherato, non amaro come in altre occasioni, ho intravisto un pò di luce dietro o attraverso quella facciata del “palazzo d’inferno” scelta dai colleghi del manifesto per rappresentare in prima pagina il dramma dell’Ucraina in preda all’ira di Vladimyr Putin. Che pur di sbarazzarsi dei “drogati e nazisti”, secondo lui, al potere a Kiev si è messo a sprecare i suoi missili e a sproloquiare come un ubriaco: altro che l’insolitamente “sobrio” che tanto colpì favorevolmente negli anni scorsi il liberalissimo ministro della difesa italiano Antonio Martino,  parole sue recentissime, da indurlo a condividere giudizio, amicizia e quant’altro già concessi al capo del Cremlino dall’allora presidente del Consiglio in persona, Silvio Berlusconi. Che, se fosse dipeso da lui, gli avrebbe già affidato le redini della Nato dopo la buona prova di ospite data, standogli accanto, in un raduno a Pratica di Mare. 

L’elezione di Zelensky a presidente dell’Ucraina

    Forse non a torto Gramellini, con l’abitudine che ha di ispezionare in tutti i sensi i personaggi che gli capitano a tiro, ha un pò visto nel presidente ucraino Volodymir Zelensky una versione giovanile e più riuscita del nostro Beppe Grillo. Che dopo avere recitato da attore comico come presidente “onesto e astuto” del suo paese riuscì nel 2019 a farsi eleggere davvero a quel posto, festeggiando l’evento -a vedere bene le foto- con uno stile vagamente simile a quello usato in Italia qualche anno prima da Matteo Renzi, nel frattempo però caduto dai vari piedistalli sui quali era salito e costretto, pur di sentirsi ancora leader, a crearsi un partitino tutto suo,  fatto -dicono gli avversari- più di eletti portati via al Pd che di elettori. I sondaggi si ostinano infatti a farlo oscillare attorno al 2 per cento dei voti intenzionali.

            Capisco, a mio modo naturalmente, più per ridere che per piangere, più immaginandomi a teatro, magari sotto una tenda, che davanti alle immagini provenienti in questi giorni dall’Ucraina e dalla stessa Russia, con tutti quei carri armati ammassati lungo le frontiere  pronti a travolgerle sputando fuoco e quant’altro, l’incredulità di un militare e di una spia professionale come Putin alle prese con un comico che si considera un parigrado, si imbottisce di giubbotti corazzati, lo sfida ad attaccarlo, telefona a destra e a manca in ogni parte del mando, dimenticandosi magari anche di qualche appuntamento -sempre al telefono- dato ad uno con la mosca sopra al naso come il presidente del Consiglio di turno in Italia da un anno, addirittura di nome Mario e cognome Draghi. Ma mi chiedo che bisogna ci sia di fare tanto casino, di rimediarsi sanzioni e ricambiarle danneggiandosi, di ammazzare gente per caso  non essendovi armi del tutto intelligenti, come fanno credere invece quelli che le costruiscono, se c’è in fondo non tanto lontano da casa un originale di Zelensky al quale ispirarsi e chiedere magari qualche consiglio per risolvere più pacificamente e rapidamente il problema di liberarsene. 

Zelensky e Giuseppe Conte

               Quel furbacchione di Grillo -non so se Berlusconi ha avuto il modo e il tempo di raccontarlo a Putin in qualcuna delle telefonate d’auguri che si scambiano per compleanni e feste del genere- non solo si è prudentemente tenuto lontano dai palazzi della politica, facendovi ogni tanto qualche puntata da ospite e comico, ma all’occorrenza, quando ha visto che le cose cominciavano a mettersi male per lui e per la sua formazione, ha cercato di proteggersi con qualche controfigura, senza offesa per questa preziosa funzione teatrale. Quella di Grillo -avvocato, professore, due volte presidente del Consiglio, ora presidente per quanto sospeso giudiziariamente del MoVimento di cui Grillo è rimasto fondatore e garante elevatissimo- è conosciuta anche da Zelensky, di cui sono riuscito a trovare una foto appunto con  lui: Giuseppe Conte.

Ripreso da http://www.policymakermag.it

Ma che cosa aspetta ancora Berlusconi a chiamare l’amico Putin?

Anche a costo di sembrarvi un Travaglio qualsiasi, anzi peggiore perché neppure lui è oggi arrivato a tanto sul suo Fatto Quotidiano, vi dirò che non sono state tanto le immagini della guerra in Ucraina a colpirmi sulle prime pagine dei giornali, fra i soliti cannoni, le solite fiamme, i soliti volti tumefatti, le solite case diroccate, i soliti alberi inceneriti, quanto quelle che ci sono state risparmiate da tutti, ma proprio tutti i quotidiani, in un sorprendente assalto di complicità con il tanto odiato Silvio Berlusconi. Al quale nessuno ha rinfacciato i notissimi rapporti di amicizia con Putin, immortalati in un’infinità di fotografie all’aperto e al chiuso, d’estate e d’inverno, d’autunno e di primavera, anche se le mezze stagioni ormai sono morte, come ci lamentiamo ogni anno ancor più dei sarti che ne hanno subiti i danni maggiori. 

Ma, diavolo di un uomo, specie ora che i familiari lo hanno distratto, diciamo così, dalla tentazione delle terze nozze costringendolo a ripiegare su una festa di fidanzamento con la deputata dal cognome quasi fascinoso, come si è permesso di scherzare il solito Vittorio Feltri, che cosa ha trattenuto Berlusconi, almeno fino al momento in cui scrivo, dal chiamare l’amico direttamente al Cremlino e scongiurarlo di salvarci dalla guerra, visto che bene o male forse stiamo uscendo dalla pandemia? Eppure pensavo che l’ex presidente del Consiglio non avesse bisogno neppure della “batteria” nazionale o internazionale, come noi giornalisti la chiamiamo abitualmente, per mettersi in contatto  con cotanto amico, disponendo del numero diretto o del cellulare, magari scambiatosi a tavola o giocando col cane nei lunghi corridoi del palazzo romano in cui lui abitava e teneva i suoi uffici prima di trasferirsi in villa sull’Appia Antica: l’unica dimora del Cavaliere, credo, che Putin non conosce ancora. 

Salvini con Putin sula maglietta

Ora vedrete che Berlusconi darà la colpa degli sconquassi ai quali sta dedicandosi l’amico a Mosca agli elettori italiani e ai vari complottisti del  globo che, allontanandolo da Palazzo Chigi nel 2011 e non facendovelo più tornare negli anni successivi, non gli hanno permesso di tenere a bada Putin, di consigliarlo nel migliore dei modi, di prevenirne istinti e quant’altro. Anzi, di avere consentito che nel frattempo aumentassero i contatti di Putin con gli italiani sbagliati, magari anche suoi alleati di centrodestra, e non solo grillini e altri ancora, col risultato di complicare le cose e fare arrivare il nuovo o presunto zar al punto in cui si trova, togliendoci anche il gas per cucinare o scaldarci e riducendo a coriandoli i risparmi necessariamente investiti nelle borse in calo, visto che a tenere i soldi semplicemente in banca non rende ma costa. 

Da Repubblica

Ah, benedetto Cavaliere, ma cosa aspetta a intervenire? Cosa aspetta a smentire il malizioso Emanuele Lauria che su Repubblica lo ha sì descritto “preoccupato per l’uso della violenza”, e desideroso di “arrestare la distruzione dell’Ucraina e difendere l’Europa dalle possibili conseguenze economiche della crisi”, ma deciso a “non esporsi in prima  persona”, per cui “resterà” chissà sino a quando “l’unico leader politico a non commentare il divampare della guerra”? Almeno fino a quando qualche missile non finirà per sbaglio nel suo giardino o parco di Arcore.

Meno male, infine, che la recente corsa al Quirinale si è chiusa con la conferma di Sergio Mattarella. Pensate un pò l’imbarazzo di un capo dello Stato come Berlusconi costretto ad astenersi dal presiedere i vari comitati di difesa e simili trovandosi in conflitto di interessi, pardon di amicizia, con Putin. 

Ripreso da www,startmag.it e http://www.policymakermag.it

La presunzione d’innocenza non è un reato, e neppure un peccato

 Fra i vari conti che mi sono perso nella mia lunga attività giornalistica vi è anche quello delle volte in cui singolarmente o cumulativamente abbiamo gridato contro il bavaglio che il prepotente di turno cercava di metterci. E ciò interpretando male qualche legge in vigore o creandone di nuove con la cosiddetta prassi, o intimidendoci con denunce, querele e simili, spesso affrontate da noi pennivendoli -come qualche volte ci chiamava persino quel galantuomo di Ugo La Malfa- a mani nude per le inadempienze sopravvenute dei giornali dove lavoravamo.

Titolo del Dubbio

  Non dubito, per carità, che in qualche Procura si stia applicando troppo, o troppo male, come preferite, la direttiva europea tradotta in legge in Italia per rafforzare la presunzione d’innocenza. Che -vorrei ricordare anche a qualche collega, a questo punto- non è un reato e neppure un peccato, per i fedeli, ma un valore tutelato nella prima parte della Costituzione, con l’articolo 27, ben prima quindi della parte seconda dedicata all’Ordinamento della Repubblica e al quarto titolo di essa dedicato alla Magistratura: tutto al maiuscolo, naturalmente.                          

Ammaestrato anche dall’esperienza di “Mani pulite”, di cui si stanno celebrando in questi giorni i 30 anni tra non pochi pentimenti anche di celebrità dell’accusa, a cominciare dalla buonanima del capo della Procura di Milano  Francesco Saverio Borrelli, scusatosi in pubblico  degli effetti procurati, assai diversi evidentemente da quelli che si aspettava, tendo ad eccedere -lo confesso- nella difesa della presunzione d’innocenza.

Di bavagli, poi, siamo stati costretti a subirne già tanti in questi tempi di pandemia che non mi fanno paura neppure quelli che dovessero sopraggiungere ad una mancata fine dell’emergenza annunciata per fine marzo. Penso piuttosto a un bavaglino che occorrerebbe a una pur fortunata trasmissione pomeridiana della Rai che più della Vita in diretta meriterebbe il nome dello Spioncino in diretta, o del Processo intuitivo. 

Pubblicato sul Dubbio

Salvate, per cortesia, il soldato Travaglio dalle sue missioni di guerra

Mario Draghi al Cosiglio di Stato

     Non è per ossessione, credetemi, che d’altronde non sarebbe mai pari a quella che lui , super in tutto, ha per gli avversari o gli antipatici di turno, ma sentite che cosa non più tardi di ieri Marco Travaglio riusciva a scrivere sul suo Fatto Quotidiano di Mario Draghi alle prese, come tanti suoi pari grado in Europa e oltre, con la crisi ucraina. E per quanto il presidente del Consiglio italiano ne avesse appena parlato alla prima occasione avuta a portata di microfono, presente il capo dello Stato, in occasione del sostanziale insediamento di Franco Frattini alla presidenza del Consiglio di Stato. Dove certo l’ex ministro degli Esteri di Silvio Berlusconi non potrà dichiarare guerra a nessuno, né poterla bocciare con una sentenza, ordinanza o simili. 

Marco Travaglio sul Fatto di ieri

    “Grande -scriveva Travaglio un pò per celia e un pò sul serio- la nostra delusione nel vedere esternare tutti i leader e sottoleader del mondo tranne uno: il Fenomeno”. Che sarebbe naturalmente quel mezzo assassino di Draghi, insediatosi un anno fa a Palazzo Chigi grazie al “Conticidio” compiuto con la complicità del presidente della Repubblica nello svolgimento del suo primo mandato. 

    “Forse deluso -continuava lo spiritoso direttore del Fatto- dell’esito della sua annunciata missione a Mosca, che in patria gli è valsa candidature al Nobel per la Pace, ma al Cremlino non ha suscitato neppure un plissé, manco un appuntamento nell’anticamera di Putin, o sotto il tavolone”. “E Biden -continuava sempre spiritosamente l’informatissimo, reduce da un pranzo nel quale era stato visto in un ristorante romano con Giuseppe Conte e un altro esponente delle 5 Stelle- chiama tutti, da Macron a Scholz, e si scorda proprio il Capo dell’Ue appena incoronato sul trono del Sacro Draghiano Impero. Perché non se lo fila nessuno? La risposta non può essere che una: hanno tutti troppa paura di Lui”, con la maiuscola da ironia sopraffina naturalmente. 

Travaglio sul Fatto di oggi

  Il giorno dopo, cioè oggi, preso da altre spiritosaggini, questa volta contro il Senato trasformato in un preservatificio per avere in qualche modo difeso l’odiato Matteo Renzi dall’assalto dei suoi inquirenti a Firenze, e indicato ai lettori come l’ideale contro cui rovesciare un bel pò di monetine come contro Bettino Craxi nel 1993; preso, dicevo, da queste altre e più urgenti necessità polemiche, Travaglio ha affidato a fotografi, vignettisti e simili il compito di continuare ad occuparsi del “Sacro Draghiano Impero”. 

Il tavolone di Putin al Cremlino

  Così i lettori del Fatto Quotidiano hanno potuto apprendere che quello sprovveduto o svanito di Biden, il presidente degli Stati Uniti, aveva avuto modo di occuparsi anche di Draghi, e non solo di Macron, Scholtz e altri, concordando con lui, pur con la solita spiritosaggine dell’interlocutore sull’attenti, la linea da seguire di fronte alla crisi ucraina, compresa la sospensione, il rinvio e non so cos’altro della bistrattata missione a Mosca senza avere concordato neppure l’anticamera o l’angolo giusto sotto il “grande tavolo” al Cremlino. Che peraltro è di fabbricazione orgogliosamente italiana, sicuramente bonificato sotto tutti gli aspetti dal personale specializzato prima di montarlo e metterlo a disposizione di Putin e degli interlocutori di turno. 

    Mi viene voglia a questo punto di chiedermi perché il direttore del giornale così attentamente seguito -non oso pensare persino ispirato- dal Conte sopravvissuto al suo omicidio non si dia un pò una calmata, come si dice a Roma, e non si decida a seguire con minore ansia di prestazione i fatti, al plurale diversamente dalla sua testata: fatti che accadono in Italia e fuori non sempre o raramente come li vorrebbe il direttorissimo, tanto per rubare una volta la qualifica che Berlusconi attribuisce simpaticamente al comune amico Auguro Minzolini. Che ne fa -debbo dire- un uso molto parco rispetto a Travaglio. 

Ripreso da http://www.startmag.it

La conclusione, finalmente, della “centralità” parlamentare dei grillini

Il titolo indignato del Fatto Quotidiano

Scusate la pedanteria di un vecchio giornalista alle prese con la notizia politica del giorno. Che non sta tanto nella ormai scontata decisione del Senato, per niente “vergognosa”, come l’hanno definita al solito Fatto Quotidiano, di impugnare davanti alla Corte Costituzionale i metodi d’indagine adottati a Firenze contro Matteo Renzi e amici per i presunti finanziamenti illegali ad una fondazione equiparata ad un partito. Per come le cose si erano messe nella competente giunta di Palazzo Madama, l’esito della discussione e del voto in aula non poteva essere diverso. La notizia, anzi notiziona, che da sola mi ripaga di tutte le occasioni perdute dal pur buon Sergio Mattarella per rimandare gli italiani alle urne ben prima che glielo impedisse, l’anno scorso, l’andamento della pandemia; la notiziona, dicevo, sta nella fine ora ben certificata della presunta, decantata “centralità” dei grillini in questa disgraziatissima legislatura ormai e finalmente agli sgoccioli anch’essa, mancando un anno alla scadenza ordinaria. 

Sempre dal Fatto Quotidiano

I grillini sono stati letteralmente sommersi dai 167 voti su 244 senatori presenti, nessuno dei quali astenutosi, con i quali i pubblici ministeri di Firenze sono stati praticamente contestati, o “assaltati”, secondo il linguaggio del già citato Fatto Quotidiano, per non avere rispettato neppure quel poco che è rimasto dell’immunità parlamentare dopo l’amputazione subita dall’articolo 68 della Costituzione negli anni di “Mani pulite”, quando fu praticamente deciso il ribaltamento dei rapporti di forza fra la politica e la giustizia concepiti alla nascita della Repubblica. 

L’intervento di Pietro Grasso al Senato

      Non solo sono stati battuti a  dispetto della  vantata “centralità”, che ha loro permesso di cambiare disinvoltamente alleati al governo dal 2018 in poi, prima assumendo, poi scaricando e infine riassumendo i leghisti in compagnia anche dell’ex “psiconano” Silvio Berlusconi, ma i grillini si sono lasciati guidare nella loro ultima campagna giustizialista da una pattuglietta di senatori -quelli dei cosiddetti liberi e uguali- guidati a loro volta in aula, con tanto di intervento di dottrina e di politica, da Pietro Grasso. Che -senza offesa, ma solo in ordine rigorosamente cronologico della sua vita- prima di essere un ex presidente del Senato, seconda carica dello Stato, deve essere considerato un ex magistrato, prevalentemente d’accusa avendo concluso non a caso la propria carriera giudiziaria come procuratore nazionale antimafia. 

Nella loro ebbrezza metaforica di forza politica “centrale” di questa curiosa diciottesima legislatura, ai grillini è capitato, fra l’altro, di guidare con Giuseppe Conte ben due governi e con Alfonso Bonafede anche il Ministero della Giustizia. Per fortuna non sono riusciti a scalare pure il Quirinale, limitandosi ad impedire che lo facesse Mario Draghi e ripiegando alla fine sulla conferma di Mattarella, dopo avere tentato di portarvi la regina degli 007, in una concezione molto particolare, diciamo così, delle istituzioni di consolidata democrazia. 

L’intervento di Matteo Renzi al Senato

    Può darsi, per carità. che abbia esagerato Emilio Giannelli nella sua vignetta sul Corriere della Sera a celebrare quanto è appena accaduto al Senato come il passaggio, per quanto assai ritardato, dalle “Mani pulite” di 30 anni fa alle “Mani punite” di questo 2022 ancora agli inizi. Ma certo qualcosa sta finalmente cambiando. E ancor più potrebbe cambiare con i referendum sulla giustizia appena ammessi dalla Corte Costituzionale, pur minacciati di sostanziale boicottaggio da assenteismo col tentativo di fissarne la data nell’ultima domenica utile di giugno. 

Ripreso da www,startmag.it

Per i referendum si deve pur poter votare ovunque ci si trovi

Titolo del Dubbio

A brigante brigante e mezzo, diceva l’indimenticabile Sandro Pertini anche al Quirinale, dove di briganti da inseguire non doveva averne tanti, con tutti i corazzieri che lo proteggevano. Noi invece che abbiamo firmato per i referendum sulla giustizia appena ammessi dalla Corte Costituzionale senza bisogno di togliere peli dall’uovo, qualche brigante col quale fare i conti, per quanto metaforici gli uni e gli altri, li abbiamo. Sono quelli che nei palazzi che contano vorrebbero mandarci a votare nell’ultima domenica utile di giugno. 

Costoro più che dare il maggior tempo possibile alle Camere, come dicono, per risolvere legislativamente i problemi posti dai referendum, vorrebbero fare naufragare il voto nell’assenteismo da vacanza, sole, mare montagna e altro. Ebbene, questi briganti che non immagino possano essere spalleggiati anche da persone serie come Mario Draghi e Marta Cartabia, meriterebbero una leggina, con l’urgenza imposta dai tempi e dai temi, per consentire ai titolari delle tessere elettorali di votare ovunque si trovino, nei seggi obbligatoriamente allestiti in ogni parte del Paese per la circostanza referendaria. 

Gli elettori referendari saranno chiamati ad eleggere niente e nessuno, ma solo a rispondere ai quesiti unici ammessi dalla Corte Costituzionale dappertutto, dalla Sicilia alla Valle d’Aosta, dalla Sardegna all’Alto Adige. Semplice, no? 

La Buonanima di Pertini sarebbe stata ben felice di controfirmare una misura del genere. E sospetto che lo sia anche il presidente della Repubblica appena felicemente rieletto, alla faccia di chi avrebbe voluto liberarsene non perdonandogli il presunto “Conticidio”. Ecco, Giuseppe Conte forse avrebbe da ridire sul brigante e mezzo da me immaginato o proposto. 

Pubblicato sul Dubbio

Il Mattino nasconde di notte l'”eretico” garantista Umberto Ranieri

Umberto Ranieri, storico dirigente napoletano del Pd, cinque volte deputato, una volta senatore, tre volte sottosegretario agli Esteri, un migliorista a 24 carati di quello che fu il Pci, ha scritto per Il Mattino una lunga, onestissima e sotto molti aspetti inedita “riflessione” su Mani pulite da lui vissute non certo come un passante.

Umberto Ranieri su Mattino di domenica

  Riconosciuto ad Enrico Berlinguer il merito di avere sollevato per primo la cosiddetta questione morale denunciando l’esorbitante spazio occupato dai partiti in una situazione bloccata dalla mancanza di alternative agli equilibri politici formatisi a livello sovranazionale dopo la seconda guerra mondiale, Ranieri ha contestato all’allora popolarissimo segretario del Pci di non avere praticamente fatto nulla per andare oltre alla denuncia e rimediarvi. All’alternativa da costruire con gli scomodi cugini o compagni socialisti, specie quando Bettino Craxi ne assunse la guida, pur non citati né gli uni né l’altro stavolta da Ranieri, il segretario comunista in effetti preferì il  compromesso storico con la Dc. Che pure era  la prima beneficiaria del blocco politico in cui l’economia “ampiamente statalistica” la faceva da padrona. E alla cui ombra, tra appalti e simili, si sviluppava la pratica del finanziamento “irregolare” che “in una certa misura riguardava anche il Pci”, per cui “sarebbe una manifestazione di ipocrisia negarlo”, ha scritto Ranieri.

Ranieri su Mattino

Quando esplose il bubbone con Tan gentopoli,  Mani pulite e varianti “il Pci/Pds fornì un acritico sostegno all’azione giudiziaria  persuaso che l’attività repressiva potesse favorire quel rinnovamento che non si era capaci di produrre per via politica. Un appoggio -ha insistito Ranieri- che non venne meno neppure di fronte all’emergere di riserve sulla legittimità o correttezza delle modalità operative della procura di Milano”, specie con l’abuso delle manette. 

Ranieri al Mattino

  “Fu Gerardo Chiaromonte  -ha raccontato Ranieri- a denunciare senza incertezze ed esitazioni lo sconfinamento della giurisdizione penale e la messa in mora dei principi di garantismo. Fu un drammatico errore che Gerardo denunciò assecondare gli umori giustizialisti e non prevedere che “gli effetti di un terremoto giudiziario sulla evoluzione del sistema politico avrebbero potuto essere più dannosi che vantaggiosi”. 

  Infatti “all’orizzonte comparve il cavaliere Berlusconi” vincendo le elezioni del 1994 non solo o non tanto per le capacità manipolatrici e di fuoco mediatico attribuitegli dagli avversari quanto perché “in realtà, una parte considerevole degli elettori non ritenne giusto che a essere spazzata via dalle inchieste fosse solo l’area dei partiti di governo, che non corrispondesse alla realtà quella sorta di “univocità di colpa”. 

Ranieri sul Mattino

  A proposito del tentativo fallito dal governo Amato, col famoso decreto legge del ministro della Giustizia Giovanni Conso, per una uscita cosiddetta politica da Tangentopoli, e non solo giudiziaria o manettara, Ranieri ha scrupolosamente testimoniato, da deputato qual era a quei tempi, che la Commissione degli affari costituzionali della Camera se n’era già occupata convenendo con un complesso di “sanzioni amministrative e pecuniarie per l’illecito finanziamento dei partiti, e clausole che comportavano insieme alla confessione l’uscita dei responsabili del reato dalla vita politica”. “Altro che colpo di spugna”, ha scritto Ranieri aggiungendo che “furono il pool di Mani Pulite e l’Associazione nazionale dei magistrati a impedire che si adottasse il provvedimento” varato da governo “minacciando fuochi e fiamme e intimorendo il presidente Scalfaro, che rifiutò di firmare il decreto”. 

Ranieri sul Mattino

     Di fronte ad “una politica rimasta debole”, che “ha continuato a subire negli anni successivi un forte condizionamento da parte del potere giudiziario”, per cui “non si è riusciti a ripristinare rapporti di maggiore equilibrio istituzionale”, i referendum sulla giustizia appena ammessi dalla Corte Costituzionale “forse aiuteranno il Parlamento a misure di modernizzazione del sistema giudiziari”, ha scritto Ranieri esortando a “impegnarsi perché accada”. 

La pagina 43 del Mattino di domenica
Dalla prima pagina del Mattino di domenica

Ebbene, sapete dove Il Mattino ha pubblicato domenica questa pò pò di riflessione, testimonianza  e quant’altro? A pagina 43, senza un rigo -dico un rigo- di richiamo in prima pagina. Dove invece si è preferito il richiamo che meritava, per carità, ma non meno dell’articolo di Ranieri, il drammatico ricordo del suicidio del padre e parlamentare socialista bresciano Sergio Moroni da parte della figlia Chiara: un dramma che senza la “riflessione” di Ranieri non si potrebbe certo valutare appieno. 

Dalla prima pagina del Mattino di ieri

  Ma ieri, lunedì, non so per caso o per una qualche graduatoria politica, ho trovato sulla prima pagina dello stesso Mattino – il giornale al cui allora direttore Giovanni Ansaldo chiesi e ottenni da studente universitario di scrivere, vedendomi commissionare un bel pò di recensioni di libri politici- il richiamo in prima pagina di un’intervista di Luciano Violante in cui si dà “ragione a Craxi”. Ma allora cosa avrà mai fatto Ranieri al Mattino, mi chiedo cogliendo l’occasione per attribuire anche a noi giornalisti la responsabilità della crisi della politica.  

Pubblicato sul Dubbio           

Cortese disputa su chi ha creato i mostri di “Mani pulite”

A Milano, dove lavoravo ai tempi di “Mani pulite” dirigendo Il Giorno, chiamavo “moschettieri” i sostituiti procuratori della Repubblica che facevano sognare le folle inneggianti alle manette: più ne scattavano e più ancora ne reclamavano, di qualsiasi colore politico fossero i polsi ai cui venivano agganciate, prevalentemente all’alba, ma qualche volta anche di giorno. in tarda serata e di notte. In quest’ultimo caso sempre sotto le luci degli operatori televisivi e i flash dei fotografi puntuali agli appuntamenti che qualcuno aveva dovuto pur dare ai superiori, o a loro direttamente, dagli uffici giudiziari. 

Francesco Cossiga

      L’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che ogni tanto veniva a Milano anche in quel periodo e mi dava il piacere e l’onore di incontrarmi in un salotto della Prefettura, rimase talmente divertito da quell’immagine dei moschettieri che una volta mi chiese il permesso di rubarmela, visto che che -coi tempi che correvano- mi ero ben guardato dall’usarla nei miei editoriali, a rischio di qualche sciopero di una redazione il cui comitato sindacale già contava ogni giorno il numero delle pagine e dei titoli che dedicavo a “Mani pulite”, sospettato com’ero di simpatia e amicizia per Bettino Craxi. Che Vittorio Feltri, dopo una cena con Antonio Di Pietro, aveva cominciato sul suo Indipendente a chiamare “il cinghialone”, alla cui caccia si stavano impegnando nella Procura guidata da Francesco Saverio Borrelli. 

    Neppure Cossiga, che con i magistrati andava spesso giù pesante, avendo già minacciato una volta di presidiare con i Carabinieri un Consiglio Superiore della Magistratura intenzionato a discutere proprio contro Craxi nonostante la sua diffida ufficiale, essendo il presidente del Consiglio sottoposto solo alla fiducia o sfiducia del Parlamento; neppure Cossiga, dicevo, se la sentì poi di rubarmi davvero quell’immagine dei moschettieri. Con uno dei quali d’altronde capii poi che aveva stretto rapporti tali da risultare a volte informato del loro lavoro più dello stesso Borrelli, che se ne sorprese pubblicamente in una biografia autorizzata scritta da Marcella Andreoli. 

Foto d’archivio degli inquirenti di Tangentopoli

      Fra i moschettieri vi confesso anche che ce n’era uno -non quello di Cossiga- che mi sembrava più simpatico o meno antipatico degli altri, come preferite. Era Gherardo Colombo, con quei capelli d’artista e quel silenzio quasi assordante che opponeva alla loquacità dei suoi colleghi. Mi sembrava insomma il più serio di tutti, non a caso sfilatosi poi dalla magistratura senza fare tante storie, senza candidarsi con alcun partito al Parlamento, lasciandosi proporre dal Pd solo ad un posto onorevolmente occupato in uno dei Consigli di Amministrazione della Rai, peraltro in compagnia della figlia del mio carissimo e indimenticabile collega Walter Tobagi, assassinato sotto casa da aspiranti brigatisti rossi, e infine -mi dicono- assistendo in qualche modo il sindaco di Milano in carica. 

Titolo dell’intervista di Gherardo Colombo al Giornale di ieri

    Di Gherardo Colombo ho abitualmente apprezzato la discrezione con la quale negli anniversari di “Mani pulite” ha sempre parlato della sua esperienza, non escludendo di avere potuto sbagliare con i suoi colleghi, pur senza arrivare alle scuse una volta chieste dal capo in persona Borrelli. Ma mi è saltata un po’ la mosca al naso, sia pure fuori stagione, sentendogli dire  ora al Giornale che ai tempi dei miei moschettieri non furono i pubblici ministeri ma “i media a creare i mostri”. Eh no, caro il mio stimato e preferito Colombo. Anche i mostri hanno un papà e una mamma. Se il papà è stato il giornale di turno, la mamma è stata la Procura anch’essa di turno, con rispetto almeno della natura tradizionale o comune. 

Ripreso da http://www.startmag.it il 26 febbraio 2022

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