Le misure che Enrico Letta deve prendere al suo “campo largo”

Titolo di Repubblica

  Reduce dal congresso di Azione di Carlo Calenda, e pur preso anche lui -penso- dalle preoccupazioni per la guerra che potrebbe scoppiare sul fronte orientale dell’Europa coinvolgendo anche gli interessi italiani, il segretario del Pd Enrico Letta ha preso carta e penna, o semplicemente smanettato sul suo computer, per un “intervento” su Repubblica in materia di fine vita, condividendone l’urgenza dopo l’ennesima figuraccia fatta dal Parlamento con la Corte Costituzionale. Che nel 2018, cioè quattro anni fa, aveva chiesto alle Camere di approvare una legge entro il 2019 che le risparmiasse un’altra intromissione in un processo penale come quella compiuta a favore di Marco Cappato per un suicidio assistito, variante umana dell’omicidio del consenziente. Niente. La Corte per non dovere di nuovo pronunciarsi in assenza della legge sollecitata ha dovuto dichiarare inammissibile un referendum chiesto sulla materia da un’infinità di elettori.

L’urgenza c’è tutta ed Enrico Letta ha fatto bene, per carità, a intervenire pur con ritardo anche lui, perché una sveglia ai suoi parlamentari, quanto meno, avrebbe potuto darla ben prima dell’astensione impostasi dai giudici costituzionali per inadempienza parlamentare. 

  Fa bene anche Curzio Maltese nell’editoriale odierno su Domani a chiedere a Letta di “riportare tra la gente”, magari anche con un intervento del tipo di quello su Repubblica, il Pd che avrebbe “salvato” nell’ultimo turno di elezioni amministrative ereditato all’improvviso da un Nicola Zingaretti in fuga dalla segreteria del Nazareno, l’anno scorso. 

Titolo di Domani

      Altrettanto bene però farebbe il segretario piddino a riprendere finalmente le misure di quel “campo largo” preferito al “nuovo Ulivo” o altre formule e propostosi di creare con i grillini, pur non scambiando più per fortuna Giuseppe Conte, diversamente dall’imprudente Zingaretti, per il massimo punto di riferimento dei progressisti in Italia. Che è francamente un pò troppo non solo e non tanto per il percorso anche giudiziariamente accidentato della presidenza contiana del MoVimento 5 Stelle quanto per la crescente confusione, litigiosità e quant’altro di quella forza politica ormai gassosa, Che nelle precedenti elezioni politiche prese addirittura il posto di quella che era stata una volta la Dc non dico di Alcide De Gasperi, ma quanto meno di Amintore Fanfani e di Aldo Moro. Una forza, quella grillina, che ha tenuto in ostaggio la legislatura fino a quando al Quirinale, un anno fa, Sergio Mattarella non perse la pazienza, non rimosse praticamente Conte da Palazzo Chigi, facendo scrivere Marco Travaglio di un presunto “Conticidio”, e non vi mandò Mario Draghi prendendolo dalla Riserva, con la maiuscola, della Repubblica. 

Titolo del Foglio

Andare al congresso di Azione con aria a dir poco fiduciosa e continuare a coltivare il già citato “campo largo” con Conte, al cui solo nome Calenda sbianca, è come volere andare in macchina sulla luna, pur in compagnia del buon Giuliano Ferrara. Che, ripresosi dall’infarto, ha un pò imprudentemente lanciato il cuore oltre l’ostacolo consigliando oggi sul Foglio a un pur “primo della classe” Calenda di “piantarla con l’odio per i grillini” per rendere “un omaggio duttile allo stato di necessità e alle logiche di coalizione”. Come se le cinque stelle brillassero come nel 2018 e non stessero invece facendo la fine che fu di Guglielmo Giannini ai suoi tempi, quando Giuliano era appena nato.  

Ripreso da http://www.policymakerma.it e http://www.startmag.it

Mattarella tra Scilla e Cariddi nella navigazione del governo Draghi

Dalla prima pagina di Repubblica
Titolo interno di Repubblica

    Anticipato già ieri sul Corriere della Sera da Marzio Breda al termine di una corrispondenza dal Quirinale sui problemi vecchi e nuovi con i quali è alle prese Sergio Mattarella, comprese naturalmente le turbolenze del governo di Mario Draghi, oggi Repubblica ha rilanciato con maggiore evidenza un programma di visite che il Capo dello Stato si è proposto di compere in zone e comunità d’Italia particolarmente sofferenti, o comunque a disagio. Un “tour della dignità” lo ha chiamato il giornale fondato da Eugenio Scalfari coniugandolo con la parola più usata dallo stesso Mattarella nel discorso successivo al nuovo giuramento davanti alle Camere riunite in seduta comune: una dignità offesa anche dalle troppe disuguaglianze esistenti nel Paese, che ne ritardano lo sviluppo. 

    Nulla da eccepire, per carità, specie da parte di chi nel suo piccolo -molto piccolo- ha partecipato alla festa, chiamiamola così, per la rielezione di un presidente della Repubblica guadagnatosi giustamente l’apprezzamento e la riconoscenza degli italiani per la misura ma anche per la forza con la quale ha saputo esercitare, nel bisogno, le sue prerogative costituzionali. Il che accadde, per esempio, l’anno scorso, all’incirca di questi tempi, interrompendo una crisi troppo a lungo ritardata da Giuseppe Conte, nell’affannosa ricerca di truppe di rincalzo ai settori della maggioranza che lo avevano abbandonato, e mandando a Palazzo Chigi Mario Draghi a sorpresa dello stesso Conte. Di cui qualcuno celebrò addirittura i funerali politici sostenendo che fosse stato ucciso in una congiura di palazzo permessa, se non ordita, dal capo dello Stato. 

    Non vorrei tuttavia che ora, preso pur nobilmente dal proposito di difendere la dignità dei sofferenti, disagiati, emarginati, Mattarella sottovalutasse in questa lunga, direi anche troppo lunga campagna elettorale in corso per il rinnovo delle Camere l’anno prossimo, salvo incidenti che l’anticipino, tutti i chiodi che partiti, correnti e simili della maggioranza, più ancora dell’opposizione di destra di Giorgia Meloni, stanno spargendo sulla strada del governo per logorarlo nella migliore delle ipotesi, farlo cadere nella peggiore, magari scommettendo sul nervosismo del presidente del Consiglio. Il quale ha giustamente avvertito non solo di potere e sapere trovarsi da solo un altro lavoro, ma anche di non essere disposto a “tirare a campare”, come invece agli inizi degli anni Novanta Giulio Andreotti, sempre da Palazzo Chigi, disse di preferire al “tirare le cuoia” sottinteso alle critiche formulategli dal predecessore e collega di partito Ciriaco De Mita. Che, come Conte oggi con Draghi, non gli perdonava di avergli preso il posto. E, sempre come Conte oggi nel MoVimento 5 Stelle, era diventato presidente della Dc, ma per fortuna con minori poteri rispetto al segretario, che era Arnaldo Forlani.

      Si, lo so, questi richiami al passato possono sembrare stucchevoli ai più giovani, ma aiutano a capire come la politica riesca a replicarsi in peggio. E il peggio -consentitemi pure questo- stavolta sta nel sottile gioco che vedo svilupparsi per seminare zizzania fra il Quirinale e Palazzo Chigi: per esempio, opponendo una presunta sottovalutazione del Parlamento da parte di Draghi al parlamentarismo quasi professionale di un presidente della Repubblica che, oltre ad essere stato a lungo deputato, ha insegnato diritto parlamentare. 

Luigi Zanda a Repubblica

    Difficoltà, guai e quant’altro delle Camere non potevano essere descritti meglio dall’ex capogruppo del Pd Luigi Zanda al Senato dichiarando oggi a Repubblica: “La centralità del Parlamento è in crisi da 40 anni e tutti i governi hanno utilizzato molto decreti legge e voti di fiducia. La responsabilità è però del Parlamento che non ha fatto quelle riforme istituzionali che gli restituirebbero la pienezza della potestà legislativa”. O che, quando le ha fatte, se l’è viste boccate dagli elettori referendari. 

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Chi sta giocando sporco, anzi sporchissimo, contro Mario Draghi

Titolo del Giornale
Titolo copertina del manifesto

 Non ha tutti i torti Altan a chiedersi su Repubblica “contro chi Draghi dice di rigare dritti”, pur avendo sbollito la rabbia del giorno prima, avere ritrovato “bellissimo” il suo governo, o “gasatissimo”, come lo sfottono sulla prima pagina quelli del manifesto, e avere pescato otto miliardi di euro per aiuti a famiglie e imprese.danneggiate dai maggori costi energetici. Che sono stati liquidati come “una pezza” non o non solo dal solito Travaglio sul Fatto Quotidiano, ma anche dal Giornale della famiglia di Berlusconi. Dal quale il presidente del Consiglio potrebbe pur aspettarsi più comprensione, quanto meno, dopo essere stato inchiodato dal Cavaliere mani e piedi a Palazzo Chigi perché sarebbe stato impossibile sostituirlo se lo si fosse lasciato trasferire al Quirinale per succedere a Sergio Mattarella. Misteri della politica, come quelli della fede richiamati dal sacerdote alla messa dopo la consacrazione del pane e del vino. 

Titolo di Domani
Titolo della Stampa

I partiti, quelli della maggioranza, sembrano davvero avere voluto “tenere Draghi a palazzo Chigi per sabotarlo”, come ha titolato Domani pensando ai fatti del giorno prima e a quelli probabilmente di dopodomani, nel clima della “tregua armata” evocata dalla Stampa pensando non alla Russia, all’Ucraina e dintorni, ma proprio a casa nostra, in particolare ai “rischi” che corre il piano della ripresa per le difficoltà di rispettare le scadenze delle riforme alle quali sono condizionati i cospicui finanziamenti dell’Unione Europea. 

Titolo della Verità

    Quella di Draghi che chiede più disciplina e lealtà ai partiti della maggioranza, avvertendo che è capace di trovarsi da solo un altro lavoro, sarà pure “la pistola scarica” descritta con una convergenza non insolita sia dal già citato Travaglio sia, sul versante che dovrebbe essere politicamente opposto, di Maurizio Belpietro  sulla sua Verità, ma francamente non se ne vede un’altra di ricambio da mettergli nelle mani o da consegnare a qualche altro presidente del Consiglio, magari di lunga e provata militanza partitica: un politico professionale, non dilettante come lo considera il direttore del Fatto rimpiangendo un giorno sì e l’altro pure l’ancor più dilettante Giuseppe Conte. A meno che, naturalmente, con convergenze neppure queste insolite fra destra e sinistra estreme, non si voglia puntare alla fine anticipata della legislatura e alle elezioni, essendo ormai il presidente della Repubblica non più impedito dall’ultimo semestre del suo primo mandato ormai trascorso. 

La storica vignetta della sconfitta di Fanfani sul divorzio

Ma anche alle elezioni anticipate di un anno -non si facciano illusioni quelli che vi stanno scommettendo unendosi alla destra di Giorgia Meloni- non penso che Mattarella voglia arrivare e mandare gli italiani con un governo diverso da quello attuale. E anche i referendum sulla giustizia appena ammessi dalla Corte Costituzionale che tanti temono -per esempio, nel Pd e sotto le cinque stelle, dove i magistrati sono venerati come divinità- non verranno certamente cassati dalle elezioni anticipate. Verranno solo rinviati. Come lo fu nel 1972, appunto con le elezioni anticipate, quello sul divorzio, Che poi si svolse con la clamorosa sconfitta di tutti quelli che lo temevano dopo averlo peraltro promosso, o fatto promuovere, come la Dc di quel pur grande professionista della politica che era Amintore Fanfani. 

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Finalmente un voto popolare sulla stagione di “Mani pulite”

Titolo del Dubbio

Anche se è saltato quello forse più eclatante, avendo la Corte Costituzionale voluto proteggere ancora i magistrati dalla responsabilità civile con quella specie di filo spinato concesso loro dal Parlamento nel 1998, quando una nuova legge vanificò il verdetto popolare di qualche mese prima prodotto dallo sdegno più che giustificato per la vicenda giudiziaria dell’incolpevole Enzo Tortora, i cinque referendum sulla giustizia ammessi dalla Consulta offriranno in primavera agli elettori una preziosa occasione per rispondere ad un quesito in qualche modo sotterraneo a quelli che saranno stampati sulle schede. E che –quasi illuminando l’altra faccia della luna- potremmo così formulare, anche a costo di scandalizzare i giudici costituzionali, a cominciare dal loro presidente Giuliano Amato, “sottile” in dottrina e in tante altre cose, compresa la politica da lui servita come sottosegretario, ministro e due volte capo del governo: siete scontenti o no degli effetti di “Mani pulite”, di cui si celebra quest’anno il trentesimo anniversario?

Titolo interno del Dubbio

           Se siete scontenti, come d’altronde lo fu persino l’ex capo della Procura di Milano Francesco Saverio Borrelli scusandosene pubblicamente alla presentazione di un libro evocativo scritto da Paolo Colonnello, uno dei cronisti giudiziari che le aveva raccontate più diligentemente, potete tranquillamente rispondere si alla proposta di abrogare le norme che le avevano permesse, o sopraggiunte per rafforzarne il risultato complessivo. Che fu quello di sottomettere la politica alla giustizia, rovesciando i rapporti di forza voluti dai costituenti, a cominciare dall’amputazione dell’immunità parlamentare scritta nel testo originario dell’articolo 68 della Costituzione per finire con la violazione largamente consentita a quel poco rimastone ancora in vigore, specie in materia di intercettazioni. Luciano Violante, promotore di quella modifica costituzionale, se n’è appena un po’ pentito sul Foglio.

Se non siete invece scontenti, o addirittura siete pienamente soddisfatti delle esaltazioni che ancora si fanno di quelle gesta, potete tranquillamente rispondere no all’abrogazione delle norme che ancora consentono, per esempio, l’unicità delle carriere dei magistrati inquirenti e giudicanti, il ricorso abbondante alla carcerazione preventiva, prima del processo cui spesso neppure si arriva col rinvio a giudizio, o l’applicazione retroattiva di norme, pene e sanzioni introdotte successivamente a “Mani pulite” per rafforzarne, diciamo così, la logica. 

Mi riferisco, a quest’ultimo proposito, alla cosiddetta legge Severino, contestata da uno dei referendum per fortuna ammessi dalla Corte Costituzionale e costata nel 2013 il seggio del Senato a Silvio Berlusconi con votazione innovativamente palese disposta dall’allora presidente del secondo ramo del Parlamento, casualmente ex magistrato: Pietro Grasso. Che ancora se ne compiace e -casualmente, di nuovo- si è appena doluto come senatore semplice di maggioranza del disturbo che può procurare la campagna referendaria all’esame parlamentare in corso di alcune reali o presunte riforme parziali della giustizia che il governo di Mario Draghi ha ereditato dal precedente proponendosi però di modificarle in senso più garantista, o meno giustizialista, come preferite, considerando la militanza grillina dell’ex guardasigilli Alfonso Bonafede. Che è quello – per darvi un’idea- riuscito a strappare all’epoca della maggioranza gialloverde il consenso anche di una senatrice e avvocatessa come la leghista Giulia Bongiorno all’introduzione, come una supposta in una legge contro la corruzione, di una norma per la soppressione della prescrizione all’arrivo della sentenza di primo grado. 

Mani pulite raccontate da Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano

Coraggio, elettori referendari: riflettete e datevi da fare con molta e molto buona volontà. Tanto, Travaglio in cabina non vi vede, come si diceva di Stalin nelle storiche elezioni del 1948 stravinte dalla Dc contro il fronte popolare contrassegnato dall’immagine dell’incolpevole Giuseppe Garibaldi. Cito Travaglio perché egli ha appena scritto che quella di “Mani pulite”, con tutti gli effetti che ne sono derivati, “fu una rara parentesi di normalità nel Paese di Sottosopra”, testuale.

Pubblicato sul Dubbio

Il Mario Draghi furioso, quasi come l’Orlando di Ludovico Ariosto

Titolo di Repubblica
Titolo del Messaggero

Salvo un paio di testate non so se più distratte o più previdenti, in controtendenza rispetto alle esagerazioni delle altre, i giornali sono pieni della crisi di nervi alla quale avrebbe ceduto Mario Draghi dopo che il governo è stato battuto quattro volte in Parlamento nell’esame delle cosiddette milleproroghe, in una sola parola: una specie di insaccato dove si mescola ogni anno un pò di tutto, qualche volta anche di importante ma frequentemente di spessore minore. 

Titolo del Giornale
Titolo di Libero

L’indisciplina nella maggioranza del resto molto variegata, con i leghisti e i forzisti ogni tanto tentati di inseguire l’opposizione di Giorgia Meloni giusto per salvare quel pò -sempre meno- che resta del centrodestra sulla carta e nelle amministrazioni locali, avrebbe a tal punto irritato il presidente del Consiglio -già nervosetto di suo da qualche tempo per essere stato coinvolto nella cosa al Quirinale ancor più di quanto non avesse voluto con quell’immagine del “nonno a disposizione delle istituzioni” mentre Mattarella negava bis a destra e a sinistra- da fargli cogliere l’occasione offertagli da un colloquio già programmato al Quirinale per adombrare, minacciare e non so cos’altro le dimissioni. “Un altro lavoro so cercarmelo da solo”, ha egli stesso avvertito qualche giorno fa quanti già si affannavano a progettarne un’altra esperienza politica. 

Titolo del Fatto Quotidiano
Titolo della Verità

Tranquilli. Non sprecate soldi a scommettere su una crisi. Tutti i partiti -chi più e chi meno, anche quelli in apparenza più muscolari- hanno fra e dentro di loro troppi problemi per permettersi una deflagrazione degli attuali equilibri destinata a produrre non un altro governo ma le elezioni anticipate, ora che il presidente confermato della Repubblica ha riacquistato la prerogativa dello scioglimento delle Camere impeditagli nell’ultimo semestre del precedente mandato. 

Titolo del Foglio

Ma senza neppure dover ricorrere al voto anticipato, e pur esonerati dalle urgenze delle liste dei candidati da predisporre per un nuovo Parlamento con un terzo dei seggi in meno, i patiti sono praticamente già in campagna elettorale, dovendo partecipare ai referendum sui temi della giustizia appena consentiti dalla Corte Costituzionale e al rinnovo di molte e importanti amministrazioni locali, dove si confronteranno vecchie e forse anche nuove alleanze. Dopo di che mancherà molto meno di un anno alla scadenza ordinaria della legislatura e alla conseguente campagna elettorale generale. 

Luigi Zanda alla Stampa

Alle vecchie e non superate emergenze -sanitaria, economica e sociale- che indussero Mattarella un anno fa a mandare Draghi a Palazzo Chigi si sono aggiunte altre difficoltà interne che contribuiranno a tenere alta la temperatura politica, per non parlare dei problemi internazionali ai quali l’Italia è sin troppo direttamente interessata. “Sono tornate ad imporsi -ha giustamente osservato l’ex capogruppo del Pd al Senato Luigi Zanda in una intervista alla Stampa- questioni squisitamente politiche sulle quali i partiti non potranno più nascondersi dietro le spalle di Draghi”. Il quale, dal canto suo, non può più materialmente sacrificarsi più di tanto nei rapporti coi partiti, per i quali ha mostrato indulgenza e comprensione in abbondanza prima degli equivoci esplosi con la corsa al Quirinale, senza danneggiare irrimediabilmente il credito meritatosi a livello internazionale in tutta la sua lunga carriera. Che è poi il credito in forza del quale egli può dire -ripeto- che all’occorrenza saprà cercare e ancor più trovare da solo un altro lavoro, persino meglio remunerato di quello attuale, se lo è, non potendo escludere che vi abbia anche rinunciato.  

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La Corte Costituzionale ha guastato la festa dei 30 anni da Mani pulite

Titolo di Domani
Titolo del Riformista

  Non so, francamente, se col suo nuovo presidente la Corte Costituzionale “fa politica”, o ne fa più di prima, come ha titolato Domani. Non so so nemmeno di quanto abbia esagerato il mio amico Piero Sansonetti facendo titolare sul suo Riformista che Giuliano Amato, il nuovo presidente appunto della Consulta, “ha tante doti, non il coraggio”, un pò meglio forse solo del Don Abbondio di memoria manzoniana. 

Titolo della Stampa
Titolo di Repubblica

    Non so neppure se sarà davvero il “terremoto” previsto dalla Stampa quello che ci aspetta con i referendum di primavera pur “dimezzati”, secondo Repubblica, ammessi in cinque sugli otto arrivati al giudizio della Corte Costituzionale: e tutti e cinque comunque sui temi della giustizia. Dai quali è rimasto escluso solo quello sulla responsabilità civile dei magistrati  a causa della grazia -temo- concessa  troppo generosamente dai giudici a quella legge del 1988 che, con la pretesa di disciplinare la materia, smentì clamorosamente il verdetto referendario di pochi mesi prima. Che era stato largamente favorevole -sull’onda dell’emozione provocata dalla vicenda giudiziaria di Enzo Tortora- all’opinione che i magistrati   dovessero rispondere davvero dei loro errori, e non per finta, protetti da un reticolo di filo quasi spinato.

      Al netto tuttavia di tutti questi dubbi, mi sento di poter scrivere che con i cinque referendum ammessi, fra i quali soprattutto quello sulla separazione delle carriere e sui criteri più stringenti per la carcerazione preventiva, volente o nolente, spero più volente che nolente, a dispetto del don Abbondio rifilato al suo presidente, la Corte Costituzionale ha guastato la festa in corso un pò su tutti i giornali per i  30  anni trascorsi proprio oggi dall’esplosione di “Mani pulite” con l’arresto di Mario Chiesa. Che fu colto a Milano in flagranza di mazzette abitualmente raccolte anche da altri per finanziare illegalmente i loro partiti, correnti, sub-correnti e qualche volta -di sicuro- anche i propri affari personali, per carità: qualche volta però, non sempre, come si ritenne aizzando nelle Procure di turno della Repubblica il disprezzo per la classe politica. 

  Vedremo, a 30 anni di distanza da quella falsamente epica stagione, il giudizio che daranno gli elettori confermando o abrogando norme, vecchie e nuove, che hanno sostanzialmente  fatto dei magistrati una casta intoccabile, e della politica una sorvegliata speciale e puzzolente. 

Titolo del Fatto Quotidiano

  A dispetto delle “balle pulite” con le quali il cantore principale di quella falsa epopea liquida le critiche sempre più numerose, per fortuna, espresse su di essa e sui suoi effetti, mi permetto di citare uno dei protagonisti di quella vicenda giudiziaria dichiaratamente ritiratosi dalla magistratura con anticipo anche per le delusioni subite. Si tratta di Gherardo Colombo, che diversamente da altri non si è candidato poi neppure a una bocciofila.

Gherardo Colombo al Corriere della Sera
Dal Corriere della Sera

    “Quel lancio di monetine a Bettino Craxi mi disturba ancora”, ha detto al Corriere della Sera l’ex magistrato, come se a quel lancio non avessero contribuito, volenti o nolenti, gli inquirenti con la rappresentazione fatta del leader socialista con le notizie in uscita dagli uffici giudiziari, ben prima dei processi. “Noi pm venimmo trattati da eroi, un errore che non fu colpa nostra”, ha detto ancora Colombo. 

    Fu colpa allora solo dei giornalisti e dei fanatici che sfilavano per le strade e le piazze in magliette inneggianti alle manette già scattate e chiedendone sempre di più? Gli inquirenti e i giudici che sovrintendevano al loro operato -peraltro uno solo, sempre lo stesso a Milano- non ci misero proprio nulla di proprio? A me pare che manchi un franco “anche noi” a quell’ammissione dell’obbrobrio vissuto in quegli anni. 

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Matteo Renzi trattato peggio persino di Silvio Berlusconi dall’accusa

Titolo del Dubbio

Nel condividere pienamente il commento di Daniele Zaccaria all’uso sconcertante della corrispondenza elettronica e privata, chiamiamola così, fra Tiziano Renzi e il figlio Matteo, che forse non l’ha neppure ricevuta, allo scopo di portare acqua al mulino del rinvio a giudizio chiesto contro l’ex presidente del  Consiglio per il presunto finanziamento illegale dell’altrettanto presunto partito travestito da fondazione, mi permetto di segnalare il sorpasso che i magistrati d’accusa di Firenze sono riusciti a compiere sui colleghi di Milano. Che pure mi sembravano a loro modo insuperabili nel perseguimento dei loro obiettivi processuali dai lontani, ormai trentennali tempi di “Mani pulite”. Quando uno vince un derby bisogna pur riconoscioglierlo.

Zaccaria ha giustamente ricordato l’incitamento addirittura alla prostituzione minorile addebitato a Silvio Berlusconi, che non è riuscito paradossalmente a chiudere la partita neppure con l’assoluzione definitiva, dopo una condanna in primo grado costata peraltro un bel pò di processi ai giornalisti permessisi di criticarla con una certa preveggenza, visto l’esito giudiziario in appello e in Cassazione. Ne feci le spese anch’io per un articolo sul Tempo, trovando per fortuna un giudice non a Berlino ma nella più vicina e domestica Brescia. 

Veronica e Silvio Berlusconi

  Ebbene, in quel rodeo sessuale, sentimentale, stilistico e quant’altro che fu il processo contro Berlusconi per prostituzione  minorile non saltò in mente ai magistrati d’accusa -se non ricordo male- l’idea di usare contro l’imputato eccellente la corrispondenza, intesa in senso ampio, intercorsa pur pubblicamente fra l’allora presidente del Consiglio e la moglie Veronica, ben prima che le loro liti più o meno di gelosia sfociassero nel divorzio. 

La signora aveva scritto nel 2009 addirittura ad un giornale -e che giornale, trattandosi di Repubblica, la corazzata della flotta stampata ogni giorno contro Berlusconi- per mettere alla berlina il marito che corteggiava quasi ogni donna gli venisse a tiro rammaricandosi di non poterla sposare, ma evidentemente smanioso di  fare qualcosa che assomigliasse ad un matrimonio. 

In un’altra circostanza, passando dalla corazzata a qualche altro mezzo meno imponente ma più veloce, come la maggiore agenzia nazionale di stampa, la signora aveva promosso Berlusconi a “imperatore” per descriverne l’approccio ai cortigiani di ogni genere. E, avendo lo sprovveduto appena partecipato alla festa di compleanno di una diciottenne nei pressi di Napoli, con uso o abuso di scorta e simili, la signora gli contestò la diserzione di analoghe feste dei figlioli. 

  Persino le candidature parlamentari gestite dal marito come capo indiscusso del suo partito, per non parlare della coalizione di centrodestra presa nel suo insieme, erano entrate sotto la lente di osservazione della moglie dell’allora presidente del Consiglio liquidando la selezione come “ciarpame”.

      Il povero Matteo Renzi -povero, si fa per dire, visti anche i suoi emolumenti come conferenziere, e non solo le sue indennità parlamentari- si può considerare persino fortunato nel vedere usati contro di lui gli sfoghi di un padre anziano e insofferente delle frequentazioni, del carattere, delle abitudini e non so cos’altro del figliolo. E fortunato anche di avere per moglie una santa donna che non smanetta computer o simili e riesce, magari, a trattenere per sé sgarbi o quant’altro può capitare a qualsiasi donna di subire dal marito o dal fidanzato.

Il titolo del Fatto Quotidiano esultante come la vignetta

Del padre di Renzi risultato così utile agli avversari giudiziari, politici e mediatici del figlio vorrei infine segnalare l’ingratitudine riservatagli da chi ora lo sfrutta con titoloni e battutacce, essendo evidentemente rimasto l’orso o il mostro di sempre. Bastava dare ieri un’occhiata alla vignetta riservatagli sulla prima pagina del Fatto -e dove, sennò?- in cui gli hanno tolto pure un piede per dargli del “vecchio gambadilegno”: tutta una parola, vi raccomando, da letteratura di dileggio.  

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 20-2-22

Il pennello, non il pelo, che la Corte Costituzionale non poteva rimuovere

Marco Cappato
Titolo della Stampa

Capisco sul piano umano e politico la delusione, la protesta e quant’altro di Marco Cappato davanti alla sede della Corte Costituzionale dopo l’annuncio della bocciatura, da parte dei giudici, del referendum sul fine vita per depenalizzazione l’omicidio del consenziente. E capisco anche la previsione formulata sulla Stampa da Luigi Manconi dell’aumento dell’eutanasia clandestina.

  Il fatto è che la Corte non poteva fare diversamente dopo tre anni e più di inutile attesa che il Parlamento approvasse una legge da essa stessa sollecitata nel 2018 per non più tardi del 2019 allo scopo di definire meglio una materia così mal disciplinata da avere costretto la stessa Consulta a a sostituirsi al giudice onorario per assolvere Cappato da un’accusa di omicidio del consenziente, appunto, procuratasi nell’esercizio della “disobbedienza civile”. Che egli ora si è proposto di riprendere per reazione. 

  Più che contro la Corte Costituzionale, rifiutatasi di avallare con l’ammissibilità di un referendum puramente abrogativo del reato il rischio di indebolire la difesa della vita dei più deboli, bisognerebbe prendersela col Parlamento rimasto insensibile alla sollecitazione dei giudici della legge quali sono quelli che lavorano di fronte al Quirinale. 

  Solo per questo, cioè per essersi sottratto a un dovere scritto nella Costituzione, questo Parlamento sarebbe meritevole di uno scioglimento anticipato, già guadagnatosi per altri motivi politici e risparmiatogli l’anno scorso dal presidente della Repubblica, al termine di una lunga e penosa crisi di governo, per l’emergenza della pandemia. Che avrebbe moltiplicato nei seggi e in tutte le altre fasi della campagna elettorale i rischi di contagio. 

  So bene che il nuovo presidente della Corte Costituzionale, un giurista con i fiocchi come Giuliano Amato, aveva creato nei giorni scorsi aspettative di un diverso giudizio parlando contro la tendenza spesso dimostrata dai suoi colleghi  e predecessori di cercare “il pelo nell’uovo” per limitare i referendum. Che sono stati in effetti solo 67 in circa 50 anni: 67, ripeto, di cui 25 vanificati dall’assenteismo, cioè dalla mancata partecipazione della richiesta metà più uno degli aventi diritto al voto. Ma in questo caso non c’era da rimuovere un pelo dall’uovo. C’era da rimuovere un pennello: francamente troppo. 

Titolo di Repubblica
Titolo di Avvenire

  Ciò spiega come sia stato possibile a due osservatori di cultura e formazione così diversa fra loro come l’editorialista di Repubblica Stefano Folli e il direttore Marco Tarquinio di Avvenire, il giornale dei vescovi italiani, di sovrapporsi o quasi con i titoli dei loro comment: Prudenza etica e riforme civili ’uno e Mai incivili scorciatoie l’altro. 

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

I numeri per niente esaltanti della lotteria chiamata “Mani pulite”

  Senza voler togliere nulla, per carità, ai problemi attuali della guerra alle porte dell’Ucraina, di cui è corso ad occuparsi sul posto anche il nostro ministro degli Esteri Luigi Di Maio accantonando per un pò quella che conduce o subisce, come preferite, in casa per il controllo del MoVimento 5 Stelle; o del conflitto tutto politico, per fortuna, in corso nel governo di Mario Draghi sugli affari sporchi delle facciate  dei palazzi consentiti da una legge improvvisata da Giuseppe Conte a Palazzo Chigi e ancora difesa dai grillini come un osso da un cane più o meno ringhioso; o delle beghe della famiglia di Matteo Renzi appena portate in tribunale come un affare da gossip; senza voler togliere nulla, ripeto, a tutto questo e ad altro ancora, compresa la pandemia, vorrei segnalarvi il fallimento delle epiche “Mani pulite” anche come bilancio mentre se ne celebra il trentennio. 

Titolo di Repubblica
Titolo del Corriere della Sera

Cosa ne resta trent’anni dopo, appunto, ha titolato senza alcun punto interrogativo in prima pagina la Repubblica, sottintendendo evidentemente un bilancio positivo, conforme a tutta la esasperata attenzione che vi dedicò, insieme con tanti altri giornali, tra cronache, commenti, incitamenti, appelli eccetera, tutti convinti che si stesse svolgendo una mezza riedizione della Rivoluzione francese con meno vittime, fortunatamente. Il numero che ne resta, sparato -diciamo così- in prima pagina dal Corriere della Sera, e limitatamente alla parte milanese di quell’avventura giudiziaria per essere cominciata appunto a Milano, è di 2.565 indagati. 

I dettagli del Corriere della Sera

All’interno  del giornale si riferisce che di quei 2.565 indagati -ripeto- ne furono condannati 1.408, per cui -se l’aritmetica non è un’opinione- si dovrebbero dedurre 1.157 non condannati, se proprio non vogliano definirli innocenti per non fare arrabbiare il già troppo nervoso Pier Camillo Davigo, tra gli inquirenti di allora, alle prese adesso con la giustizia dall’altra parte del bancone.

Ma gli assolti veri e propri risultano solo 544, ai quali andrebbero aggiunti 448 fra prosciolti, senza cioè arrivare neppure al rinvio a giudizio, prescritti, usciti cioè indenni dal processo per decorrenza dei tempi, e morti, suicidi e non. In tutto fanno 992, per cui ne mancano 165. Come li vogliamo chiamare? Dispersi, come in un naufragio in mare, di quelli ricorrenti nelle acque che separano l’Italia, anzi l’Europa, dall’Africa? 

Titolo del Mattino

Un bilancio geograficamente più completo e sommario, esteso alle edizioni non milanesi di “Mani pulite”, sempre con la maiuscola per me immeritata assegnatasi dagli inquirenti, si trova sulla prima pagina del Mattino: 4.500 indagati, di cui 1.200 condannati, meno dei 1.408 risultati a Milano e dintorni. Ebbene, 4.500 meno 1.200 fanno 3.300 fra assolti, prescritti, morti e dispersi: più della metà. 

Voi pensate che con questi numeri, dichiaratamente approssimativi anche per chi li ha dati, si possano celebrare come una festa i trent’anni che dopodomani saranno trascorsi dall’arresto di Mario Chiesa a Milano in flagranza di mazzette ? E liquidare come bazzecola tutto quello che ha accompagnato e ha prodotto quella specie di rivoluzione, doverosamente minuscola, compreso il rovesciamento dei rapporti fra politica e giustizia, cioè l’assoggettamento della prima alla seconda? Che si è arroccata nelle nuove prerogative che ha strappato ad un Parlamento intimidito o ha preso da sola, pronta a tenersele ben strette anche se nei referendum in arrivo sulla giustizia gli elettori dovessero toglierne qualcuna, sostituendosi alle Camere ancora sottomesse. 

Personalmente ho poco da festeggiare, e molto da sperare o da scommettere sulle urne referendarie liberate dai “peli nell’uovo” giustamente denunciati dal presidente della Corte Costituzionale Giuliano Amato, ancora fresco di elezione. 

Ripreso da http://www.startmag.it

Chi la spara più grossa contro Mario Draghi, persino golpista…

Titolo del Dubbio
Il titolo edulcorato di Domani

Oltre alle proverbiali buone intenzioni  a lastricare la strada dell’Inferno sono i meno proverbiali ma sbagliati paragoni. L’ho visto qualche giorno fa con quel pescaggio di Gian Carlo Caselli addirittura negli “anni di piombo”per trovare sulla Stampa qualcosa di simile agli “inquisiti eccellenti” che contestano oggi indagini e processi a loro carico. L’ho rivisto leggendo su Domani il buon Rino Formica  pescare addirittura nel presunto tentativo di colpo di Stato di Junio Valerio Borghese nella notte fra il 7 e l’8 dicembre del 1970 -presunto perché gli imputati, condannati  in primo grado nel 1978, furono assolti in appello e in Cassazione- per trovare qualcosa di paragonabile al tentativo di portare al Quirinale Mario Draghi. 

Come Borghese, forte non ricordo di quante guardie forestali convocate in via Salaria, misteriosamente rinunciò all’ultimo momento alla sua impresa fuggendo in Spagna,  così Draghi si sarebbe sfilato dal progetto ideato per lui da improvvidi sostenitori prodigandosi all’improvviso e personalmente per la conferma di Sergio Mattarella. Che, risparmiandogli fughe chissà dove, lo ha a sua volta confermato a Palazzo Chigi col rifiuto delle dimissioni di rito del governo dopo la cerimonia parlamentare del giuramento.

Rino Formica su Domani

Più leggevo l’articolo del mio amico Formica, vecchio e cristallino militante socialista, giustamente preoccupato -per carità- della cattiva salute dei partiti e dei danni derivanti alla democrazia, e più tornavo indietro per rileggere, non credendo ai miei occhi e non accontentandomi di riandare con la memoria alla spietata franchezza di Rino. Al quale dobbiamo immagini come quelle dei “nani e ballerine” di cui si affollò una volta il Comitato Centrale del suo Psi, o del “sangue e merda” cui la lotta politica era stata ridotta dai vecchi partiti della cosiddetta prima Repubblica.

Le guardie forestali di Borghese, e di chi stava dietro alle une e all’altro, avrebbero dovuto risolvere con una svolta autoritaria la stagione delle stragi latente da tempo ed esplosa il 19 dicembre del 1969 a Milano con la bomba nella Banca Nazionale dell’Agricoltura. 

L’elezione di Draghi al Quirinale in questo dannato 2022 avrebbe dovuto servire a spostare l’asse delle “garanzie” costituzionali dalla Presidenza della Repubblica al Governo, a capo del quale lo stesso Draghi avrebbe potuto mettere una specie di sua prolunga, nello schema del “semipresidenzialismo di fatto” evocato dal ministro leghista Giancarlo Giorgetti. Che Fornica ha generosamente evitato di citare, ma cui penso si riferisse scrivendo del “mal sottile della soluzione autoritaria” che “preesiste ai personaggi che incarnano il momento della involuzione”: un “draghismo che preesiste a Draghi” e che “ritornerà”  -ha ammonito Formica- se i partiti non ritroveranno la loro “anima democratica”, non bastando più “regolamenti di conti tra dirigenze fallite”. 

Titolo di Repubblica

L’”aquila romana” evocata ieri in un titolo su Repubblica mi ha fatto temere lì per lì che si volesse arrivare anche lì a Draghi e allo scampato, presunto golpe di una sua elezione al Quirinale. Ma si trattava per fortuna solo di una rievocazione di Ezio Mauro, tutta al passato, della conquista fascista del potere nel davvero tragico 1922.  

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 19 febbraio 2022

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