L’opposizione anarchica sostituisce quella politica ricattando Governo e Stato

Ecco cosa può succedere, anzi succede quando l’opposizione è a pezzi, o gassosa. E a prenderne il posto o, peggio ancora, a guidarla  strumentalizzandone parti più o meno consistenti è l’anarchia. 

Dichiaratameente, orgogliosamente anarchico, sostenuto all’esterno al solito modo, tra botte, incendi e bombe, è quell’Alfredo Cospito che da un centinaio di giorni-  quanti, guarda caso, sono quelli del governo di Giorgia Meloni- si è messo in sciopero della fame contro la carcerazione dura ergendosi a difesa anche dei mafiosi e dei terroristi. Che vi sono finiti avendo compiuto reati più gravi dei suoi, che non sono comunque le bazzecole che appaiono dai resoconti, commenti e quant’altro di chi ha ne sta sostenendo la causa con accoppiamenti di parole, di slogan, di concetti, di accuse e quant’altro che mi fanno drizzare i capelli, visto che ancora ne ho.

Il Cospito passato dalla ganbizzazione dello sgradito o nemico di turno, dagli attentati dinamitardi e dalle sfide nelle aule dei tribunali  alle condizioni, lamentate dal medico e dall’avvocato, di un uomo “pallido e in carrozzina” con “pochi giorni di vita” ancora a disposizione, come ha raccontato Luigi Manconi sulla prima pagina della Stampa, è riuscito a mettere d’accordo e a fare uscire all’unisono due giornali opposti come quelli del mio amico Piero Sansonetti e dell’ingegnere Carlo De Benedetti: rispettivamente, Il Riformista e Domani.

“Meloni è pronta a lasciar morire in carcere l’anarchico Cospito”, ha titolato Domani pur dopo che il ministro della Giustizia ha fatto trasferire il detenuto da Sassari ad Opera per farlo assistere meglio nel percorso della protesta e scongiurarne quindi l’epilogo mortale. “L’anarchico deve morire! Il governo condanna Cospito”, ha gridato il Riformista, quasi augurandoselo -mi perdonerà Piero- e alternando il nero e il rosso in un titolo di cui spero naturalmente che il direttore potrà o dovrà pentirsi quando questa vicenda parossistica finirà. 

Non il più o meno odiato governo Meloni, arrivato a superare i suoi primi 100 giorni di vita con la concreta, realistica speranza di arrivare anche a 200, a 300 e più, sino alla fine ordinaria della corrente, diciannovesima legislatura, ma lo Stato -di cui anche le opposizioni, per quanto malmesse, dovrebbero sentirsi parte- si trova prigioniero di un detenuto, per parafrasare il titolo del commento di Francesco Bei su Repubblica. 

Sorpresa per sorpresa, mi consolo di quella riservatami dall’inedita coppia Sansonetti-De Benedetti col davvero imprevisto titolo sopra la testata del Fatto Quotidiano di ieri , in cui si dava “una volta tanto” ragione alla Meloni nel rifiuto di fare “patti con chi minaccia” insieme il governo – per quanto sgradito, ripeto-  e lo Stato. 

Ripreso da http://www.statmag.it e http://www.policymakermag.it

Il governo di Giorgia Meloni “processato” al Foglio e assolto

Memore del voto non credo fideistico ma ragionato a favore del Pd di Enrico Letta annunciato da Giuliano Ferrara prima delle elezioni di settembre, senza nulla togliere all’amicizia e alla simpatia arcinote per Silvio Berlusconi, del quale era stato nel 1994 ministro per i rapporti col Parlamento;  memore, dicevo, di quella scelta elettorale di Giuliano Ferrara, ho preso lì per lì sul serio “il processo ai cento giorni” di Giorgia Meloni  sparato ieri sulla prima pagina del Foglio. Di cui il fondatore è rimasto comprensibilmente e umanamente l’anima, pur avendo lasciato ormai da tempo la direzione a Claudio Cerasa. 

Il processo, si sa, senza essere un giurista, presuppone un’accusa dalla quale un imputato deve difendersi. E la presidente del Consiglio in veste di imputata ci stava, leggendo quel titolo e pensando -ripeto- al partito di opposizione preferito da Giuliano, pur sapendo che esso avrebbe sicuramente perduto le elezioni dopo avere rotto con i grillini di Giuseppe Conte, o dopo che i grillini di Giuseppe Conte avevano rotto col Pd, e dopo che quest’ultimo a sua volta aveva rotto con Carlo Calenda e Matteo Renzi pur di non scaricare quel sostanziale prefisso telefonico costituito dai rossoverdi di Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli.

Ma quel titolo -Il processo, ripeto- sul serio non doveva essere preso perché nient’altro è stato che un mezzo esame di maturità condotto da quindici tra politici e professori veri, emeriti o finti, includendo fra questi ultimi, senza volere mancare loro di rispetto, giornalisti abitualmente alle prese con la politica e dintorni. Eccone l’elenco nello stesso ordine rigorosamente alfabetico rispettato dal Foglio raccogliendone giudizi e umori sui primi tre mesi e dieci giorni del primo governo di destra-centro nella storia d’Italia, in più presieduto da una donna: Carlo Calenda, Sabino Cassese, Alessandro Cattaneo, Giuseppe Conte, Luigi Di Maio, Oscar Giannino, Siegmund Ginzberg, Camillo Langone, Marco Lodoli, Mariarosa Mancuso, Andrea Minuz, Saverio Raimondo, Nicola Rossi, Alessandra Sardoni e Serena Sileoni.

Da cronista di una certa esperienza, diciamo così, provo a sintetizzare al massimo giudizi e umori, ripeto, di costoro scusandomi in anticipo se a qualcuno di essi risulterò troppo sintetico, sino a capovolgerne addirittura il pensiero. 

Carlo Calenda ha gridato il suo no accusando la Meloni di “non aver fatto nulla”, pur avendo egli mostrato qua e là nelle cronache politiche delle scorse settimane qualche apprezzamento, o disponibilità addirittura a darle una mano dall’opposizione. Sabino Cassese mi è sembrato propendere per il sì con quella convinzione espressa che la Meloni sia “ammirata da chi sa che vuol dire lavorare sodo e avere una figlia piccola”. Alessandro Cattaneo da capogruppo di Forza Italia alla Camera non poteva certo smentire la fiducia accordata al governo in quella sede. Nè poteva contraddire il suo no parlamentare Giuseppe Conte, che ha rimproverato alla Meloni “mancanza di coerenza e di coraggio”. 

Luigi Di Maio, cambiando lettera, non poteva che confermare la rottura con Conte apprezzando il governo non foss’altro sul versante non secondario della politica estera, di cui l’ex capo grillino si è fatta una certa esperienza alla Farnesina come ministro. Sostanzialmente negativo è stato invece Oscar Giannino per via della maggioranza che è “un cavallo che scarta in direzioni opposte”. Per Siegmund Ginzburg, al contrario, “ci si può accontentare” perché “è meglio andare a zig zag che a fondo”. Camillo Langone vorrebbe che la Meloni “festeggiasse i 1000, anche 10 mila giorni”, che sarebbero poi i classici “100 di questi giorni” che si augurano nelle dovute circostanze agli amici. Per Marco Lodoli invece quelli già trascorsi sono giorni che bastano per dire che la Meloni “sembrava un falò ed è una candela già mezza sciolta”. 

Mariarosa Mancuso, cambiando ancora lettera, è abbastanza curiosa di vedere come andrà a finire la presidente del Consiglio “con tutti i bastoni fra le ruote che le mettono gli alleati”. Andrea Minuz non ha invece da aspettare ancora per promuovere la Meloni ad una “Garbatella da esportazione”. Saverio Raimondo, poi, le ha riconosciuto il merito, per un uomo di sinistra, di “circonvenzione di fascisti”, visto dove sta dimostrando di saper e voler portare gli inconsapevoli neri in mezzo ai quali sarebbe cresciuta. Un bel sì, quindi, il suo come quello di Nicola Rossi, per il quale quello della Meloni è “tutt’altro che un vuoto”. E “non è poco quello che ha fatto”.

Per ultime, alla lettera s, Alessandra Sardoni ha visto nella premier, ma forse ancora più in alcuni suoi ministri, “un pò di narcisismo e revanscismo” che farebbero meritare un no al suo governo. Sarebbe troppo presto esprimere un giudizio invece per Serena Sileoni, che preferisce quindi stare ancora un pò alla finestra a guardare.

Complessivamente, se so ancora far di conto, i sì alla Meloni risultano 8, i no 5 e i voti di attesa, o di astensione, 2. Un risultato che forse nel problematico, a dir poco, titolo degli amici del Foglio sul “processo” avrebbe dovuto essere indicato, come all’interno nel titolo anodino di “Bilancio di una luna di miele”.

Pubblicato sul Dubbio

Gorgia Meloni si augura 100 di questi giorni, equivalenti a più di 5 legislature

Di ritorno dalla Libia, o da Tripolitalia, come ha scherzato ieri il manifesto e un pò meno Il Fatto Quotidiano oggi vedendo un “neocolonialismo” dietro l’ispirazione della presidente del Consiglio alla politica che faceva Enrico Mattei guidando l’Eni, Giorgia Meloni ha celebrato all’insegna dell’ottimismo i suoi primi cento giorni di governo, percorsi -ha osservato- col passo della maratona. Come si dice in questo tipo di feste, si è augurata cento di questi giorni. Che equivarrebbero per il suo governo alla durata di 10 mila giorni, contro i soli 1.825 che dura una pur intera legislatura. 

  Non manca insomma l’ambizione alla giovane e prima donna premier in Italia, dopo una lunghissima sfilza di uomini che  in genere hanno dovuto accontentarsi di meno, anche rispondendo a nomi come quelli di Alcide De Gasperi, Aldo Moro, Amintore Fanfani, Emilio Colombo, Giulio Andreotti, Bettino Craxi, Francesco Cossiga, Arnaldo Forlani, Giovanni Spadolini, Carlo Azeglio Ciampi e, passando alle edizioni successive alla cosiddetta Prima Repubblica, Silvio Berlusconi, Romano Prodi, Massimo D’Alema, Mario Draghi. Dovrei aggiungere, lo so, anche Giuseppe Conte, per non spingermi fino ad Enrico Letta e Lamberto Dini, ma c’è qualcosa di istintivo che mi trattiene, considerando quei passaggi a Palazzo Chigi più casuali che altro.

Decisamente meno ottimisti della Meloni sulla durata del suo governo sono sul fronte diviso delle opposizioni Matteo Renzi, che si aspetta cataclismi dalle elezioni europee dell’anno prossimo, e nel Pd la concorrente alla segreteria Elly Schlein. Che più prudentemente di Renzi ha appena profetizzato che “il governo non durerà cinque anni”, aggiungendo che “in Parlamento abbiamo toccato con mano in questi mesi quanto sia fragile e divisa la maggioranza”. “Dunque cambiamo il Pd e andiamo a battere la destra”, ha concluso. E’ una parola, mi verrebbe da commentare. 

Si sono messi in tre oggi sul Corriere della Sera -Milena Gabanelli, Simona Ravizza e Alessandro Riggio- a raccontare e spiegare, come sintetizza un richiamo in prima pagina, che al Nazareno sono sfilati “in 15 anni otto segretari e mai nessuno ha concluso il  suo mandato” in modo ordinario, essendosi il Pd “(auto) sbriciolato”. Michele Ainis su Repubblica, scrivendo più in generale dell’opposizione “afona, silente”, ha osservato non a torto che “il Pd è all’opposizione di se stesso”. 

Basta vedere il casino -scusate la parolaccia- scoppiato con l’arrivo nel Pd, e a favore di Bonaccini segretario, dell’ex grillino e tante altre cose Dino Giarrusso. Del quale nella Cattiveria di giornata del Fatto Quotidiano si è scritto che “le iene  adorano la carne di cadavere”.“Dopo Giarrusso spunta Di Maio”, ha annunciato il Giornale, non so ancora per quanto della famiglia Berlusconi, ricordando che il Pd non è riuscito nelle elezioni di settembre neppure a farlo rieleggere alla Camera dopo quella che era sembrata una straripante scissione pentastellata. 

Ripreso da http://www.policymakermag.it

Rimproverate a Giorgia Meloni sia la marcia che la retromarcia

Nel 98.mo giorno del suo primo governo Giorgia Meloni, volata in Libia per accordi sul gas e sul controllo del traffico dei migranti, da troppo tempo praticamente gestito dagli scafisti, si è guadagnata dai fantasiosi titolisti del manifesto anche la guida di “Tripolitalia”. Che avrà già acceso, o riacceso, l’incubo avvertito in ottobre a sinistra per la quasi coincidenza tra la formazione del primo governo di destra-centro, e a guida femminile in Italia, e il centenario della “marcia su Roma” di Benito Mussolini. Il quale teneva allo “scatolone” sull’altra sponda del Mediterraneo avvistato prima di lui da Giovanni Giolitti. “100 giorni di Meloni: figuriamoci i prossimi”, hanno gridato allarmati quelli del Fatto Quotidiano.

Sul Corriere della Sera invece Antonio Polito ha scritto nell’editoriale di giornata che “l’accusa di aver fatto una retromarcia su Roma insegue i primi tre mesi del governo Meloni”, notando che questo rimprovero “spesso proviene dagli stessi critici che l’accusavano di voler fare la marcia su Roma”. Essa fu non a caso rievocata con particolare dispendio di articoli e di carta da Repubblica. Sulla cui prima pagina oggi si definisce invece senza compiacimento alcuno quello che compirà domani i suoi primi cento giorni “il governo delle retromarce”. Sono gli scherzi dell’incoerenza”, come scrive Polito, o della cronaca e della storia entrambe viste e raccontate con gli occhiali anneriti dalla faziosità, o dai contingenti e mutevoli interessi politici. 

Si distingue sul Corriere della Sera anche “l’esame di maturità” fatto al governo Meloni da Roberto Gressi. Che, colpito dalla “più breve delle sbornie elettorali del passato recente”, esprime un voto “tutto sommato” positivo, di promozione.  Egli ha indicato a vantaggio della Meloni una “buona tenuta con gli alleati riottosi fin dalla formazione del governo”, fra le ambizioni concorrenti di leghisti e berlusconiani, e “un aiuto” più o memo costante “degli avversari divisi”. I principali dei quali -il Pd del dimissionario Enrico Letta, impegnato nel più lungo percorso congressuale che si ricordi in Italia, e il MoVimento 5 Stelle ormai di Giuseppe Conte, con brevi incursioni del fondatore e comico Beppe Grillo- si contendono la rappresentanza più autentica e numerosa della sinistra post-novecentesca. 

Come finirà questa gara a sinistra non riusciremo forse a saperlo o capirlo neppure il mese prossimo, quando avremo il nome del nuovo capo al Nazareno, di genere maschile o femminile che risulti. A meno di esiti clamorosi contrari al Pd, qualche giorno prima, delle elezioni regionali in Lombardia e nel Lazio. Dove il segretario pur uscente del Partito Democratico avrà sperimentato, rispettivamente, la convivenza con i grillini o il contrasto. 

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Quanta fantasia volante sui rapporti fra Meloni e Nordio, e non solo…

Neppure avvolta in quel pastrano bianco più o meno marziale indossato di recente ad Algeri per sfilare davanti alle truppe schierate in suo onore, o in chissà quale altra tenuta nelle prossime ore in Libia, dove è volata per parlare di gas e immigrazione, riesco ad immaginare la presidente del Consiglio Giorgia Meloni come l’hanno descritta certi giornali riferendo dell’incontro   avuto a Palazzo Chigi col ministro della Giustizia Carlo Nordio. 

Il guardasigilli sarebbe stato praticamente chiamato a rapporto dalla premier non tanto per sentirsi confermare la fiducia, come annunciato da un precedente comunicato, quanto per essere messo in riga sul tema dei rapporti con i suoi ex colleghi pubblici ministeri. E per strappargli quanto meno “una tregua” -hanno scritto in parecchi- finalizzata a fare sbollire gli umori. E intanto anche a provare a mettere giù un progetto di riforma su cui confrontarsi con professori, sindacato delle toghe, loro correnti e quant’altro prima di portarlo in Consiglio dei Ministri e proporlo al Parlamento.

  Lo stesso Nordio, d’altronde, prima ancora di incontrarsi con la presidente del Consiglio, senza quindi aspettarne ordini o simili, aveva assicurato di voler seguire questo percorso parlando davanti al capo dello Stato nella cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario alla Corte di Cassazione.

A parte il fatto che, in attesa di uno o più progetti del governo, esso è già alle prese in Parlamento con proposte parlamentari di gruppi della maggioranza su temi come la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, non mi sembra proprio che il clima dei rapporti fra la Meloni e Nordio sia quello sostanzialmente conflittuale, o disciplinare, descritto da giornali interessati politicamente e culturalmente, diciamo così, alla più rapida dissoluzione possibile della sgradita coalizione di centrodestra o, peggio ancora, di destra-centro. Propio oggi la Repubblica di carta annuncia che sulla giustizia la maggioranza è “in rotta di collisione” al suo interno, oltre che con i tre quarti delle opposizioni, considerando il sostegno del cosiddetto terzo polo di Carlo Calenda e Matteo Renzi su cui può contare una riforma vera, e non annacquata o finta, della giustizia. 

Immaginare o rappresentare una Meloni in rotta di collisione, per ripetere l’espressione di Repubblica, con Nordio sarebbe come immaginare o rappresentare, politicamente e fisicamente, anche una Meloni in rotta domani col ministro della Difesa Guido Crosetto sulle forniture di armi all’Ucraina. O solo sul tema -riuscito anch’esso a tradursi in uno scontro politico- di un messaggio registrato del presidente ucraino Zelensky fra una quindicina di giorni al festival canoro di San Remo. Come se davvero egli dovesse mettersi a cantare -come nella vignetta del Foglio- il “Volare” di Modugno per chiederci “subdolamente” altri aerei da caccia nella spietata guerra cominciata dalla Russia undici mesi fa.  

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La curiosa accusa di “sgrammaticatura” alla Meloni nei rapporti con la magistratura

Le immagini dell’inaugurazione dell’anno giudiziario alla Corte di Cassazione, con gli interventi del ministro della Giustizia e del vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura alla presenza del capo dello Stato,   sono la smentita plastica della pretesa bislacca che sia preclusa al governo nella persona del presidente del Consiglio la partecipazione a questa interlocuzione. Una partecipazione che, stando ad un articolo pubblicato ieri su Repubblica, sarebbe addirittura “una sgrammaticatura”.

Così, in particolare, è stato definito da Conchita Sannino, riferendo sull’elezione dell’avvocato Fabio Pinelli a vice presidente del Csm e sul messaggio di felicitazioni e “buon lavoro” prontamente inviatogli da Giorgia Meloni , “certa -ha scritto la premier- della leale collaborazione col governo per migliorare la giustizia in Italia”. Una certezza “un pò distonica”, ha commentato la cronista prima di arrivare alla già citata “sgrammaticatura”. Alla quale, bontà sua, ha ritenuto di riconoscere l’attenuante della “involontarietà”, immagino con quanta e giustificata sorpresa della presidente del Consiglio. Che non aveva improvvisato e tanto meno sgrammaticato nulla. come anche nell’incontro che ha avuto in giornata con Nordio per ribadirgli la fiducia e discutere dei problemi della giustizia.

Non è per niente vero che “per ruolo -come ha scritto la cronista di Repubblica autopromossasi in questo passaggio del suo articolo a costituzionalista, editorialista e quant’altro- Pinelli interloquisce col presidente della Repubblica”, e nessun altro, essendone il vice al vertice del Consiglio Superiore della Magistratura. Dov’è scritta questa sì che è una sgrammaticatura alla luce anche della figura del vice presidente descritta con parole di compiacimento e di incoraggiamento dallo stesso Mattarella dopo l’elezione di Pinelli? Che, dal canto suo, non si è precluso un bel nulla, in termini di interlocuzione col governo, pur indicando nel presidente della Repubblica e dello stesso Csm il suo “punto di riferimento”. Così d’altronde anche ogni ministro dovrebbe dire del suo presidente del Consiglio, rinunciando all’incarico quando ritiene di non riconoscersi più nella sua linea, e non boicottandolo come un dissidente con lo scudo della sfortunata, direi perversa mancanza -cui si dovrebbe prima o dopo riparare- di un esplicito diritto del capo del governo di rimuoverlo. O di chiederne la revoca al presidente della Repubblica che lo aveva nominato su sua proposta, come stabilisce il mai abbastanza ricordato articolo 92 della Costituzione. 

Ah, quante cose di questa Costituzione andrebbero cambiate e aggiornate dopo 75 anni di applicazione, anche per evitare che improvvisati costituzionalisti scambino per “sgrammaticature”, pur involontarie almeno qualche volta, diritti e funzioni esercitate nell’ambito di quella lealtà e collaborazione fra le istituzioni che ogni presidente della Repubblica giustamente raccomanda ogni volta che le avverte in pericolo.

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Attenti, per favore, alla retorica delle decisioni “condivise”

Oddìo, che cosa è successo al Consiglio Superiore della Magistratura? Il plenum “si è spaccato” -ha quasi denunciato la Repubblica– eleggendo al terzo scrutinio come vice presidente l’avvocato Fabio Pinelli con 17 voti contro i 14 andati al professore Roberto Romboli: entrambi eletti precedentemente consiglieri dal Parlamento, come vuole la Costituzione, uno su indicazione della Lega e l’altro su indicazione del Pd. Uno quindi di destra e l’altro di sinistra, per stare al mercato politico all’ingrosso. E dico così, all’ingrosso, perché passando al minuto il pur leghista d’area Pinelli gode di simpatie o apprezzamenti anche a sinistra, in particolare presso l’ex presidente della Camera Luciano Violante. Ed ha scritto come ospite qualche volta sulla rivista di Magistratura Democratica, corrente notoriamente di sinistra delle toghe. 

Due sono stati gli articoli dedicati  su Repubblica all’esordio del Consiglio Superiore della Magistratura insediato il giorno prima al Quirinale, e riunitosi poi nella sede del Palazzo dei Marescialli per eleggere il vice presidente. Uno, più di cronaca che di politica, scritto da Conchita Sannino e l’altro, più di politica che di cronaca, da Liana Milella. E da chi sennò? Reduce peraltro da un’intervista col povero professore, avvocato, presidente emerito della Corte Costituzionale, ex ministro della Giustizia Giovanni Flick, bacchettato più volte -diciamo così- dalla giornalista per risposte diverse da quelle che lei si aspettava, o riteneva congrue su problemi giudiziari controversi. 

Conoscitrice notissima, e giustamente, di  questi problemi, dei protagonisti, degli attori e delle vicende in genere dei tribunali, sin nei minimi particolari, come le località di origine o di residenza delle persone che le capitano sotto tiro, tanto da farle scrivere che ormai a guidare la danza nel campo giudiziario è “la cordata veneta”, alla quale appartiene per primo il nuovo guardasigilli Carlo Nordio; conoscitrice notissima, dicevo, del suo campo professionale, la Milella ha radiografato così minutamente il nuovo vice presidente del Csm da scoprirne un colore di destra non così nitido come apparirebbe dal patrocinio politico espresso o vantato dalla Lega. Del quale del resto lo stesso interessato ha pubblicamente ringraziato, pur tenendo a definirsi “indipendente” e a rivendicare la  propria autonomia, precisando peraltro che il suo unico o maggiore “punto di riferimento” è ora il presidente della Repubblica e dello stesso Consiglio Superiore Sergio Mattarella. Del quale ha condiviso e apprezzato lo stimolo a “decisioni condivise” anche per renderne poi più spedite e facili le applicazioni.

Presa dall’analisi quasi del sangue, e non solo radiografico, dei protagonisti e attori dell’esordio del nuovo Consiglio Superiore, la Milella non è sembrata tanto impressionata negativamente da quei soli tre voti di scarto fra Pinelli e Rimboldi come la collega Sannino. Alla quale invece Repubblica ha preferito attenersi di più con quel titolo, già citato, sul “plenum spaccato”. E con quell’oddìo della mia istintiva reazione, come davanti alla notizia di una frana, di un’alluvione, di un terremoto e via temendo. 

Ci siamo ormai in Italia -scusatemi la franchezza- talmente diseducati alla Democrazia, con la maiuscola, più ancora che disabituati, da scambiare per spaccatura il modestissimo risultato di una votazione di una quarantina di persone su due concorrenti. E abbiamo avuto la pretesa, con questa diseducazione, di partecipare entusiasti in certi ambienti al ghigliottinamento referendario e giudiziario della cosiddetta prima Repubblica per realizzarne una nuova, senza neppure cambiarne la Costituzione, basata sul bipartitismo. O, in mancanza quasi genetica di due soli partiti, sul bipolarismo. Salvo scandalizzarci quando il risultato di una votazione, a qualsiasi livello, è di 17 a 14, o simili. O magari vedere necessariamente, sotto una vittoria qualsiasi di misura, puzza di bruciato, cioè d’imbroglio, complotto, tradimento. Tendenza, questa, comune alla destra e alla sinistra. E non solo in Italia, si può aggiungere consolandoci un pò, visto quello che è accaduto persino negli Stati Uniti d’America con Trump, senza scendere, in tutti i sensi, giù giù sino al Brasile con Bolsonaro. 

Per tornare al nostro, italianissimo Consiglio Superiore della Magistratura, cerchiamo quindi di riabituarci o abituarci – forse è meglio- alla democrazia, Ed anche ad uscire dalla retorica, dove spesso sconfinano, degli appelli alle decisioni condivise, pur tanto care o preferite dal buon Mattarella. Ci sono cose, caro signor Presidente, come la riforma della giustizia al punto in cui è arrivata la sua gestione, tanto da indurLa a parlare nei mesi scorsi della necessità di una “rigenerazione” della magistratura, che non si possono deliberare solo all’unanimità o a larghissima maggioranza. Sarebbe come pretendere con Bertoldo che la vittima si scelga l’albero a cui farsi impiccare, o la cella nella quale finire per il tempo legittimamente assegnatogli da chi ne ha il potere. 

Pubblicato sul Dubbio

Il compiacimento di Nordio per la svolta al Consiglio Superiore della Magistratura

Davvero imperdibile l’Emilio Giannelli di oggi sul Corriere della Sera. Che dopo l’elezione dell’avvocato leghista Fabio Pinelli a vice presidente del nuovo Consiglio Superiore della Magistratura, prevalso sul candidato del Pd Roberto Romboli, ha proposto nella sua vignetta il guardasigilli Carlo Nordio alle prese con le orecchie della Giustizia. Non so francamente se più per tapparle col dito, come appare, per non lasciare la signora assordare dalle proteste contro la svolta conforme a quella che lui come ministro si è proposto di tradurre in nuove norme ispirate ad un vero, autentico garantismo. O per tirargliele, quelle orecchie, come si potrebbe immaginare con un pò di malizia, per essersi la Giustizia troppo a lungo confusa con la politica, sino a prevaricarla. 

Ora la musica potrebbe davvero cambiare con “ la fine del monopolio giudiziario rosso”, come ha titolato Libero. Che ha ritenuto, non so se più a ragione o a torto, di inserire fra gli sconfitti anche il presidente della Repubblica, e dello stesso Consiglio Superiore, Sergio Mattarella attribuendogli “la preferenza per il rivale” di Pinelli.

Per Il Fatto Quotidiano, furente -immagino- per l’appoggio a Pinelli attribuito, nonostante la segretezza dello scrutinio, anche al consigliere superiore eletto dalle Camere in conto ai grillini, lo sconfitto non sarebbe Mattarella e neppure Giuseppe Conte, le cui direttive sarebbero state disattese dal rappresentante pentastellato, ma -udite, udite- la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Che in altra parte della stessa, prima pagina del giornale di Marco Travaglio è fotomontata in tenuta di combattimento per la partecipazione, sul fronte della guerra in Ucraina, alle nuove e ancora più solide forniture militari agli aggrediti dalla Russia. Ai quali, secondo il quotidiano più letto dai grillini, l’Occidente avrebbe invece dovuto dal primo momento consigliare, diciamo così, la resa per limitare le perdite umane e materiali dell’invasione. 

La sconfitta della Meloni sul fronte del Consiglio Superiore della Magistratura consisterebbe, secondo la ricostruzione del Fatto, nel naufragio, avvenuto in Parlamento con la  mancata elezione a consigliere, del suo originario candidato alla vice presidenza del Csm Giuseppe Valentino, da tempo sotto indagine in Calabria. Poi la Meloni ha ripiegato sul professore Felice Giuffrè, che però neppure ha voluto poi tentare di mettersi in concorrenza con l’avvocato leghista Pinelli. Una strana sconfitta, direi, quella della Meloni, pur nella consapevolezza, per carità, della concorrenza che non manca fra alleati. 

Nemmeno a Repubblica, e dintorni d’area politica, è piaciuta l’elezione di Pinelli perché -ha titolato la ormai vecchia corazzata della sinistra- il “primo di destra” arrivato al vertice del Csm ne ha “spaccato il plenum” con quei 17 voti a favore e 14 contro. Un risultato opposto probabilmente non sarebbe stato rimproverato al professore emerito Romboli. 

Ripreso da http://www.startmag..it e http://www.policymakermag.it    

Svolta vera al Consiglio Superiore della Magistratura con Fabio Pinelli vice presidente

L’elezione dell’avvocato leghista Fabio Pinelli a vice presidente del nuovo Consiglio Superiore della Magistratura, avvenuta al terzo scrutinio con 17 voti contro i 14 andati al costituzionalista Roberto Romboli, candidato praticamente dal Pd, segna davvero una svolta nell’organismo al quale l’articolo 105 della Costituzione affida, testualmente, “le assunzioni, le assegnazioni e i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati”. Cioè l’autogoverno della categoria che da almeno una trentina d’anni, con le buone o le cattive, con leggi approvate dal Parlamento e con abitudini assunte spontaneamente fra sporadiche e mai decisive proteste dell’interessata, ha finito per prevalere sulla politica. 

Il fatto che al vertice pratico del Consiglio Superiore, vice del presidente voluto dalla Costituzione nella persona del capo dello Stato, sia stato eletto l’esponente laico, cioè di elezione parlamentare, dell’area che più ha protestato contro l’esautoramento della politica, rivendicandone il primato, parla da solo. A rafforzarne il significato ha contribuito anche il presidente della Repubblica indicando esplicitamente il suo nuovo vice al Palazzo dei Marescialli come “il punto di riferimento di tutto il Consiglio”. 

Ancora più significativa politicamente e istituzionalmente è l’elezione dell’avvocato Pinelli, e la bocciatura del candidato del Pd Romboli, alla luce delle polemiche provocate dal proposito enunciato in Parlamento dal ministro della Giustizia Carlo Nordio di cambiare registro. E, fra l’altro, di togliere dalla testa dei pubblici ministeri, ch’egli conosce benissimo per averne fatto parte nella carriera giudiziaria, di sottomettere il Parlamento, e non solo i loro imputati. Come è avvenuto di recente a Milano in un processo nel quale la pubblica accusa, che ne dovrà ora rispondere, ha evitato di rispettare l’obbligo di portare anche le prove a discarico appunto dell’imputato. Che era l’Eni, assolto. 

Possono ora ben considerarsi quanto meno indebolite le polemiche contro Nordio, esterne e velatamente emerse anche all’interno della maggioranza forse per esigenze soltanto tattiche, essendo provenute dalla Lega impegnata a sostenere la candidatura di Pinelli a vice presidente del Consiglio Superiore.   

Del resto, i leghisti hanno sperimentato sulla pelle del loro leader Matteo Salvini l’uso politico della giustizia con quell’intercettazione, ai tempi dello scorso Consiglio Superiore, di magistrati che parlavano fra di loro della necessità di indagare e processare comunque l’ex ministro dell’Interno Salvini, a prescindere dalla consistenza del reato contestatogli di sequestro di persona nell’azione di contenimento dell’immigrazione clandestina via mare. 

Il presunto, desiderato declino del governo, a parte numeri e fatti

Sarò tutto vero, per carità, lo scenario negativo per il governo ricavato sfogliando a prima vista i giornali di oggi, di vario e persino opposto  orientamento politico. Sarà vero, in particolare, che per lo sciopero dei benzinai in corso o per altro ancora il partito della Meloni “rallenta l’avanzata”, come il Corriere della Sera ha titolato il pezzo-sondaggio di Nando Pagnoncelli. Che nel testo sottolinea anche i tre punti di gradimento persi in un mese dal governo e i cinque dalla presidente del Consiglio. O l’esecutivo “è in tilt”, come titola La Stampa. 

Non in tilt ma “in riserva” o “a secco”, hanno titolato, sempre sul governo con riferimento allo sciopero dei benzinai, il Giornale della famiglia Berlusconi oggi e il manifesto ieri. 

Diamolo pure per “spiaggiato”, sempre il governo, sul problema delle concessioni balneari sottolineato in rosso dal Fatto Quotidiano. E Matteo Salvini arcistufo- come lo ha rappresentato  Stefano Rolli sul Secolo XIX- di tirare in camicia verde e barba marrone il carrettino della Meloni, intercettata intanto dalla Stampa a lamentarsi di quella “spina su tutto” che sarebbe diventato il loquacissimo, incontenibile Silvio Berlusconi. Il quale si è messo adesso anche a scavalcarla nella difesa o adozione del ministro della Giustizia Carlo Nordio. Al cui cui posto il Cavaliere voleva invece l’ex presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, dirottata malvolentieri al dicastero delle  eventuali riforme. 

Di Nordio, poi, sarà anche vero il mezzo schiaffo, sotto forma di “messaggio” implicito, secondo Repubblica, rifilatogli dal capo dello Stato esaltando l’indipendenza della magistratura nel commiato, finalmente, dal vecchio Consiglio Superiore e nell’insediamento del nuovo al Quirinale. “Mattarella molla Nordio” preferendogli “il partito dei pm”, ha titolato il deluso Piero Sansonetti sul Riformista. 

Sarà tutto vero, ripeto, a parte numeri e fatti però. A parte, per esempio, il 30,5 per cento dei voti assegnato dallo stesso Pagnoncelli al partito della Meloni e il gradimento del 51 per cento al governo e del 53 a lei personalmente. Che non mi sembrano francamente da buttare via coi tempi che corrono, e con la benzina che -secondo la vignetta di Nico Pillinini sulla Gazzetta del Mezzogiorno- può salire di prezzo anche per effetto dello sciopero dei benzinai, I quali, dal canto loro, tutti o quasi potenziali elettori del centrodestra in genere e della Meloni in particolare, avrebbero pur confermato la serrata di fronte a quel mezzo pifferaio del ministro (meloniano) dello Sviluppo Economico Adolfo Urso, ma si sono spaccati- ha titolato Libero– sulla durata della protesta. Che per alcuni sarà di 48 ore e per altri sta già cessando: spaccati, del resto, come le opposizioni al governo, che viene così aiutato ad andare avanti, con la Meloni e Nordio regolarmente  ai loro posti.

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