Draghi in trincea, ma non tanto difensiva, a Palazzo Chigi

Titolo del manifesto

Più le difficoltà dei partiti che la compongono intorpidiscono le acque della maggioranza -a cominciare dalla Lega che “scarroccia”, come titola brillantemente il manifesto, per continuare con Giuseppe Conte sotto le cinque stelle che minaccia querele a chi scrive del suo cosiddetto cerchio magico più o meno affaristico e aspetta anche lui con una certa apprensione i risultati delle elezioni amministrative di domenica e lunedì- più Mario Draghi cerca di proteggere il governo dai rischi di logoramento a suo modo, col suo stile, con la sua concretezza. A Palazzo Chigi si mescolano annunci e decisioni che il presidente del Consiglio illustra personalmente perseguendo solo l’”efficienza” del governo che guida. I cui risultati da soli possono vanificare ogni progetto di crisi.  

Fra gli annunci di Draghi c’è stato nelle ultime ore quello della sessione straordinaria del G20, da lui fortemente voluta sulla crisi afghana e che si svolgerà il 12 ottobre, fra i due turni delle elezioni amministrative. I partiti della sua composita maggioranza si contenderanno nei ballottaggi le città e lui, il presidente del Consiglio, garantirà autorevolmente un ruolo certo non marginale dell’Italia in campo internazionale. Ditemi se è poco.

Mattarella al Quirinale

L’unica cosa sulla quale penso che Draghi stia sbagliando, non so se più per ingenuità o per eccesso di furbizia, o machiavellismo, come preferite, è il tentativo ricorrente di esorcizzare la scadenza del Quirinale facendone solo o soprattutto una questione di galateo, cioè dicendo che è da maleducati parlare della successione di Sergio Mattarella mentre egli è ancora in carica e svolge in pieno il suo mandato, come dimostrano gli eventi ai quali partecipa e i messaggi, anche politici, che manda a destra e a sinistra con i suoi interventi prevalentemente immersi nell’attualità politica.

 Purtroppo, almeno per il galateo politico come lo intende Draghi, la scadenza è nelle cose. La stessa natura esclusiva di collegio elettorale assegnata dalla Costituzione alle Camere riunite in seduta comune per questo adempimento istituzionale, con la partecipazione dei delegati regionali e senza possibilità di dibattito su candidature, programmi e simili, rende inevitabile un confronto politico già prima, in una sede estranea al Parlamento, e senza riguardo -aggiungerei- per nessuno, neppure per il capo dello Stato uscente, tentato o no che sia da una rielezione o conferma per niente esclusa dalla Costituzione. Bisogna che a questa realtà, consolidata in più di 70 anni di storia repubblicana, si rassegnino tutti.

Augusto Minzolini su Giornale
Titolo del Giornale

D’altronde, neppure Draghi è riuscito a restare fuori dalla contesa, avendolo apertamente proposto al Quirinale, senza alcuna sua reazione, non due passanti, o due editorialisti di altrettanti giornali autorevoli, ma due ministri come Giancarlo Giorgetti, capo addirittura della delegazione leghista al governo, e Renato Brunetta di Forza Italia. Lo ha ricordato oggi giustamente al presidente del Consiglio sul Giornale della famiglia Berlusconi il mio amico e direttore Augusto Minzolini, vedendo -non so se altrettanto giustamente- una certa disponibilità di Draghi al trasloco da Palazzo Chigi in una partita da “terno al lotto”. E con un altro candidato, non so se più ombra o di bandiera, come lo stesso Berlusconi, che ne ha persino scherzato -solo scherzato?- escludendo che un Draghi al Quirinale possa mandare a Palazzo Chigi, prevedibilmente dopo le elezioni, i due candidati del centrodestra che si contendono la guida del governo: Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Che spettacolo, ragazzi.

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Mario Draghi non ha la cervicale, ma la politica italiana sì

Titolo del Foglio

Mario Draghi -mi assicura un comune amico che lo sconosce bene e lo frequenta- non ha la cervicale. Non soffre cioè di cervicalgia, anche se a 74 anni, per quanto ben portati, potrebbe ben incorrervi prima o poi. Se in queste ore gli vengono dei capogiri le sue vertebre cervicali non ne sono la causa. La cervicale, piuttosto, ce l’ha ormai la politica dopo una legislatura pazza come quella cominciata tre anni e mezzo fa, e a pochi giorni da un turno di elezioni amministrative, e suppletive, che potrebbero provocare tutto, ma anche niente.

Ancora dal Foglio

Il Foglio di Giuliano Ferrara e Claudia Cerasa – che ha lanciato per primo la candidatura di Draghi al Quirinale a fin di bene, dal suo punto di vista, e  non certo per vederlo “fottere”, come si è augurato  invece Alessandro Di Battista, per ora impegnato fortunatamente solo a sostenere la improbabile conferma di Virginia Raggi a sindaca di Roma- ha riferito oggi di un presidente del Consiglio irritato. E ciò  per l’insistenza con la quale il pur amico e collega di governo Giancarlo Giorgetti ne sta sostenendo pure lui l’elezione al Colle più alto di Roma. Egli si sente assediato -sembra di capire dalla cronaca retroscenista del Foglio– da “chi lo allontana per trattenerlo e da chi lo trattiene per allontanarlo” da Palazzo Chigi.

In questa situazione il presidente del Consiglio rischia addirittura di fare la fine del famoso asino di Buridano, destinato a morire della sua indecisione a scegliere fra due mucchi di fieno cui attingere per mangiare. Ma, a dire il vero, lasciando senza smenita un retroscena di qualche giorno fa Draghi ha mostrato di gradire, almeno per ora, Palazzo Chigi al Quirinale, dove vorrebbe che Sergio Mattarella si facesse rieleggere per il tempo necessario a due evenienze ugualmente utili, o opportune. Una è il proseguimento dell’azione del governo attuale per portare avanti il piano della ripresa e le relative riforme, l’altra lo scioglimento del nodo quirinalizio in un Parlamento, il prossimo, fra un anno,  pienamente legittimato nella sua nuova consistenza numerica –  da 945 seggi elettivi a 600, fra Camera e Senato- e altrettanto  nuova geografia politica, con la fine della paradossale maggioranza relativa conquistata nel 2018 da un movimento come quello grillino.

Titolo di Repubblica

Impegnato solo qualche settimana fa, in tanto di conferenza stampa, a riconoscere la solidità o incontrovertibilità della leadership salviniana della Lega, di cui in fondo comprendeva, tollerava e quant’altro gli ondeggiamenti denunciati invece dal segretario del Pd Enrico Letta, smanioso di liberarsi di un socio di maggioranza così scomodo, Draghi si è improvvisamente trovato di fronte ad una crisi di quella stessa leadership determinata addirittura dal suo migliore amico nella Lega, che è il ministro Giorgetti, prodigo di interviste e dichiarazioni critiche. “Ne resterà uno solo”, fra Salvini e Giorgetti appunto, ha titolato oggi la Repubblica, che non è un giornale sprovveduto.

L’ansia, l’incredulità e quant’altro sarà cresciuta, in un uomo pur abituato a vederne e sentirne di tutti i colori dalle tante postazioni importanti occupate nella sua lunga carriera nazionale e internazionale, trovando l’offensiva di Giorgetti non solo giocata anche sull’ipotesi dell’attuale presidente del Consiglio al Quirinale fra qualche mese, ma sviluppatasi di pari passo con quella “schifezza mediatica” che Salvini ha indicato nell’affare giudiziario di droga, chiamiamolo così, del suo ex portavoce e tuttora amico Luca Morisi. Roba da vetigini, anche per uno -ripeto- come Draghi, che non soffre di cervicale.

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In ricordo di Carlo Tognoli, il riformista che non prometteva la luna

Titolo del Dubbio

Ho avvertito un brivido a trovarmi fra le mani il libro ancora fresco di stampa delle edizioni Baldini-Castoldi contenente articoli e interventi del compianto Carlo Tognoli, curato dalla Fondazione Bettino Craxi e con quella foto dell’ex sindaco di Milano in copertina, ripreso in Galleria, a pochi passi da quello che fu per dieci anni il suo ufficio a Palazzo Marino, fra i 1976 e il 1986, quando Bettino Craxi se lo volle portare a Roma per usarne le doti politiche e umane a livello nazionale.  

La copetina del libro su Tognoli

Nel vederne l’immagine mi è sembrato di reincontrarlo. D’altronde era facile incrociare Tognoli a piedi a Milano. Amava tanto la sua città -mi spiegò una volta- che gli piaceva godersela appunto a piedi, ammirandone le strade, le piazze, gli edifici e sentendone gli odori, per quanto distorti spesso dalle emissioni del traffico e altro di una metropoli.

A proposito dell’amore per la sua città, e a conferma di ciò che hanno raccontato nella prefazione del libro Ugo Finetti e Walter Marossi, l’ormai ex sindaco  e ministro in carica del Turismo e dello Spettacolo, dopo esserlo stato alle aeree urbane.  mi rimproverò amichevolmente di essermi fatto prendere la mano anche io alla direzione del Giorno facendo scrivere di una “Milano da bere”, che secondo lui si prestava a equivoci o letture “inappropriate”.

La Milano ch’egli ereditò come sindaco nel 1976, negli anni della “strategia della tensione” e di piombo, era stata per certi versi e per un certo tempo una città  da ”coprifuoco”, come spesso gli era sembrata, in particolare, la Galleria dopo le ore 22. Tognoli ebbe quella sfortuna, ma poi anche la fortuna di portarla fuori dall’incubo delle violenze e di restituirla alla vita, alla ripresa, alla fiducia, e persino all’allegria. Ma più che di una Milano “da bere”, sarebbe stato opportuno parlare e scrivere -mi disse- di una Milano “da amare”, appunto. La stessa cosa, o quasi, mi sentii dire dopo qualche tempo -pensate un po’- dal cardinale Carlo Maria Martini in un incontro all’Arcivescovado. Tognoli rise quando glielo riferii.

Ancor più di quella foto in Galleria, sulla copertina del libro rievocativo del pensiero e della storia del più giovane sindaco d’Italia quale fu per molto tempo Tognoli, mi ha commosso il titolo che gli è stato dato: “Senza promettere la luna”. Che fu lo stesso dell’ultimo articolo scritto per il Corriere della Sera proprio sul sindaco di Milano da Walter Tobagi, prima di essere ucciso sotto casa da giovanissimi aspiranti brigatisti rossi.

Walter Tobagi

Carlo Tognoli e Walter Tobagi: due amici, fra di loro e miei, il cui ricordo mi stringe la gola per la bontà, lealtà e capacità di analisi che li accomunava. Meglio Walter non poteva descrivere il modo di Tognoli di fare politica e di farsi votare e apprezzare, da buon riformista ostinato e graduale, senza promettere appunto la luna, dove pure l’uomo era riuscito ad approdare nel 1969 compiendo quel famoso “piccolo passo, grande per l’umanità”. Tognoli non prometteva mai più di quanto non fosse convinto davvero di poter fare. Ed era misurato quanto tenace anche nelle polemiche, senza fare sconti a nessuno. Ai comunisti, per esempio, con i quali aveva pur amministrato la sua Milano, non ha mai perdonato l’astio nutrito verso i socialisti, divenuto parossistico nei riguardi di Craxi. Che non li voleva nè distruggere nè discriminare, perseguendo più semplicemente e politicamente una politica di autonomia, contro la subalternità pretesa da quelle parti, e un riequilibrio dei rapporti di forza elettorale.

Tognoli con Anna e Bettino Craxi

La prova che mancasse al pur anticomunista Craxi la volontà di far fuori davvero il Pci la ebbero alle Botteghe Oscure nel 1991, quando la maggioranza pentapartitica guidata da Giulio Andreotti ebbe l’occasione di interrompere la legislatura e portare ad elezioni anticipate un partito di opposizione che, travolto dalla caduta del muro di Berlino, era alle prese con la sua trasformazione anagrafica, con tanto di nuovo nome e nuovo simbolo. A tendergli la mano fu lealmente proprio Craxi. Che l’anno dopo, ad elezioni svoltesi alla scadenza ordinaria, e col fuoco di Tangentopoli già acceso a Milano anche con la legna del Pds-ex Pci, gli consentì l’adesione politicamente salvifica all’Internazionale Socialista, pur avendo il Psi statutariamente il diritto di veto.

Della lunga e spietata ostilità del Pci nei riguardi del leader del socialismo italiano è rimasta celebre la denuncia fatta da Tognoli, con fulminante efficacia di stile turatiano, quando Craxi diventò presidente del Consiglio, nel 1983. Alla sostanziale esplosione di gelosia, invidia, paura e quant’altro esplosa in un Pci ancora in forza di numeri elettorali e parlamentari, il buon Tognoli reagì ricordando ai cugini, diciamo così, di sinistra che Craxi aveva tolto Palazzo Chigi non a loro, non essendovi i numeri per un’alternativa di sinistra, ma alla pur alleata Dc. Il cui segretario Ciriaco De Mita non ebbe infatti pace sino a quando non glielo tolse, quattro anni dopo.

Mai vista una cosa del genere, mi disse commentando la sfiducia praticata dalla Dc al monocolore Fanfani, pur di andare alle elezioni anticipate, uno sgomento Tognoli. Della cui morte non mi sono ancora rassegnato a più di sei mesi ormai da quando se l’è portato via il miserabile Covid, a 83 anni neppure compiuti, privandomi della sua amicizia, generosità e saggezza.

Pubblicato sul Dubbio

Purtroppo ciascuno ha i suoi talebani a casa

Titolo del Corriere della Sera
Titolo di Libero

Non so francamente se e chi abbia esagerato di più fra il Corriere della Sera con la Lega “scossa” dal “caso Morisi” -per non parlare di Domani, secondo cui Matteo Salvini sarebbe già finito e Giancarlo Giorgetti destinato con Mario Draghi a realizzare “la svolta presidenzialista” in Italia- e Libero. Che su tutta la prima pagina ha visto un “agguato alla Lega” in quei due rumeni sorpresi in auto con droga liquida ricevuta dal “guru”, portavoce” e quant’altro di Salvini -Luca Morisi- dimessosi dopo avere subìto una perquisizione in casa e multato per possesso di stupefacente per uso personale, in modica quantità.

Certo, una vicenda che esplode mediaticamente a pochi giorni dalle elezioni amministrative del 3 e 4 ottobre, di una valenza politica evidente con quei dieci milioni di italiani chiamati alle urne, si presta a più di un sospetto. Ma i fatti sono incontrovertibili, ammessi da Morisi per primo, che dopo avere inutilmente cercato di motivare le proprie dimissioni adducendo altri, generici motivi, si è scusato per i danni che un uomo di comunicazione come lui è ben consapevole di avere potuto procurare al suo “capitano”. Di cui, per la forza dei suoi messaggi, consigli  e quant’altro, si compiaceva, pur con quella faccia d’angelo e di quasi bambino che ha 48 anni, di essere soprannominato “la Bestia”, con la maiuscola.

Ma va detto o riconosciuto con tutta onestà o franchezza che i metodi di comunicazione dell’ex portavoce, suggeritore, consigliere e tuttora amico di Salvini, quasi morso da lui ai polpacci perché aggredisse con maggiore forza avversarsi e problemi del momento, non sono stati molto diversi da quelli che, fra commenti e vignette, usano quanti si stanno adesso occupando della sua vicenda indubitalmente personale.

Gramellini sul Corriere della Sera

Ho trovato, per esempio, troppo amaro per i miei gusti il caffè offerto oggi ai lettori del Corriere della Sera da Massino Gramellini scrivendo di Morisi, laureato con 110 e lode e per un po’ anche docente universitario di filosofia, come del “braccio destro di Salvini che per una curiosa disfunzione dell’apparato digerente leghista era ubicato dalla parte dell’intestino”. Non è da Gramellini, se mi permette il collega che si è fatto un po’ troppo prendere la mano anche lui da qualcosa che è più da intestino che da testa.

Vignetta di Staino sulla Stampa

Non minore è stata la delusione procuratami sulla Stampa dal vecchio e solitamente simpatico Sergio Staino. Che come un Travaglio qualsiasi -il quale naturalmente ha trattato da par suo il caso sul Fatto Quotidiano, tra vignetta di Vauro, fotomontaggio e parte dell’editoriale- ha rinfacciato a Morisi anche “il buco”, per niente da droga, dei 49 milioni di euro scomparsi negli anni scorsi  fra i bilanci della Lega.

Purtroppo, visto anche quello che sta accadendo in Afghanistan, dove bestie ben più agguerrite di Morisi stanno facendo il loro sporco lavoro, ciascuno ha i suoi talebani in casa.

Ripreso da http://www.policymakermag.it

La favola dell’invidiabile sistema elettorale tedesco

Angela Merkel

Com’è corta la memoria in politica. Ad elezioni avvenute in Germania, e con la cancelliera uscente Angela Merkel fuori gioco per decisione spontanea, non essendosi nemmeno riproposta dopo 16 anni ininterrotti di potere, tutto appare incerto sul nuovo governo. Il cui arrivo, nella migliore delle ipotesi, un po’ per le abitudini di quella democrazia e un po’ per la complessità dei risultati solo apparentemente chiari, non è previsto prima di Natale. Allora noi in Italia saremo alle prese con la corsa al Quirinale, magari sfogliando ancora la margherita sul sì o no di Sergio Mattarella alla conferma appena propostagli, secondo un retroscena non smentito del Giornale, dal presidente del Consiglio in persona  in una cena giovedì scorso, ricevendone per risposta un sorriso enigmatico: direi pirandelliano, per la sicilianità dell’interessato.

Per anni, ogni volta che si è parlato in Italia di riforme elettorali, che siamo riusciti a produrre come conigli, fra Parlamento, referendum e sentenze della Corte Costituzionale, ci è toccato sentire gli elogi del sistema tedesco. E poco ci è mancato che ad un certo punto si creasse davvero una maggioranza per importarlo perché ci avrebbe garantito, forse anche più del sistema misto introdotto nel 1993 col nome latinizzato dell’attuale capo dello Stato, di sapere subito chi avesse vinto e chi avesse perso le elezioni. Vi ricordate? E in più quel sistema era raccomandato, e invidiato, perché per rovesciare un governo occorre averne uno già praticamente pronto a prenderne il posto grazie alla cosiddetta sfiducia costruttiva. Ricordate anche questo?

Olaf Scholz

E’ invece accaduto a Berlino non di avere trovato il famoso giudice della favola brechtiana, ma di avere scoperto dopo il conteggio delle schede che un vincitore c’è -il candidato socialdemocratico alla Cancelleria Olaf Scholz, subito proclamatosi con tanto di fiori e sorriso- ma non è per niente sicuro di fare il nuovo governo, e neppure con chi di preciso. C’è anche lo sconfitto, l’aspirante dei democristiani o popolari Armin Laschet assuntosi onestamente la responsabilità dell’insuccesso, quasi con le lacrime agli occhi, e per giunta costretto dai suoi amici di partito, inclini a questo punto ad accettare la penitenza rigeneratrice dell’opposizione, a smentirsi nella rivendicazione della Cancelleria. Che invece non è per niente da escludere, dipendendo l’ultima parola non dal partito più votato, e perciò vincente a parole, ma dagli alleati, o dai “minori”. E qualcuno in Italia, in particolare tra gli esangui forzisti di Silvio Berlusconi, ha già espresso l’auspicio che la lunga crisi di governo tedesca, nel frattempo vigilata dalla cancelliera uscente che potrebbe conquistare in questa attesa anche il primato assoluto della durata effettiva  del suo mandato, si concluda proprio con la conferma dei popolari alla guida dell’esecutivo tedesco.

Ma allora -scusatemi- dov’è la bellezza o l’efficienza del sistema elettorale germanico spesso opposta al sempre sgangherato sistema italiano del momento? Ma non vorrei buttarmi la zappa sui piedi con questa domanda e dovermi trovare costretto, per coerenza, a parlar bene anche di questo scandalo costituito in Italia dalle liste bloccate, confezionate neppure dalle segreterie, che ormai non esistono più nei fatti, ma dal capo di turno del partito, con l’elettore costretto a subirne le scelte o trattenuto a casa dalla nausea.

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La spintarella… di Grillo a Conte per le elezioni di domenica

Mi sono affacciato stamane al blog di Beppe Grillo certo non per cercare un commento al testa a testa elettorale in Germania fra i socialdemocratici e i pur calanti popolari del dopo-Merkel, e alle possibili o improbabili ripercussioni sul voto pur diverso di domenica prossima in Italia.  Figuriamoci se Grillo nel suo strampalato modo di vedere e fare politica è capace di simili raffronti.

Sono andato a cercare sul blog di Beppe, come lo chiamano gli amici, semplicemente il fotomontaggio della sindaca Virginia Raggi in veste di centuriona con cui, secondo i giornali, egli avrebbe deciso di sostenerla nell’ultima settimana di campagna elettorale a Roma. Dove si vede che Grillo viene ogni tanto, per godersi dalle finestre e dal terrazzo dell’albergo abituale i resti del Foro, ma per sua fortuna non abita, perché se vi abitasse avrebbe fisicamente impedito all’amica sindaca di ricandidarsi un po’ per rispetto della città, un po’ per l’amore paterno da lui vantato nei riguardi del movimento sotto le cui insegne la signora corre.

Dal blog di Beppe Grillo

Ma della guerriera, della centuriona, del suo scudo, del suo elmo, dei suoi bracciali pur visti da qualche parte fra giornali e siti internet, non ho trovato traccia nella postazione elettronica di Grillo. Curioso, mi son detto. Vi ho trovato invece una ormai vecchia esortazione a “liberare Assange” e, con un richiamo fotografico su cui basta cliccare per sentirselo e goderselo tutto intero, un pezzo di repertorio ancora più vecchio.  Che, riproposto in questi giorni, mi sembra francamente una boiata pazzesca, come la corazzata Potemkin svillaneggiata fantozzianamente da Paolo Villaggio. Si tratta della bocciatura, desolata e desolante, recitato “con il cuore”, come dice il titolo, del progetto di rifondazione delle cinque stelle, e di riscrittura delle sue regole, affidato a Conte, prima che fra i due venisse recuperata da un comitato di volenterosi saggi una convivenza destinata difficilmente a durare -credo- sino alla data ora impressa nel simbolo: 2050.

Con tutto quel po’ po’ -rigorosamente staccato- di cose dette sull’ex presidente del Consiglio in quel video, e non distrutto dopo il pranzo della riconciliazione, vera o presunta, sulla spiaggia di Marina di Bibbona, penso che Grillo non abbia dato una mano a Conte e ai suoi candidati, né di primo né di secondo turno, se davvero ve ne saranno nelle città in cui si sta per votare. O, se pensa davvero di avergli voluto dare una mano, l’ha fatto solo da comico, non da garante del movimento. Ma garante o custode?

Titolo di Domani

Me e ve lo chiedo perché nel video di repertorio riproposto a pochi giorni, ripeto, del voto Grillo ha tenuto a sentirsi, dichiararsi e proclamarsi anche “custode”, appunto, del movimento creato nel 2009 dopo un mancato assalto al Pd da iscritto ad una sezione sarda. Sono custodi, addetti cioè alla custodia, anche le guardie carcerarie. E potrebbe rivelarsi un penitenziario, per quanto metaforico, in rivolta quello delle 5 stelle presieduto da Conte dopo i risultati delle elezioni amministrative e politicamente suppletive di ottobre, la legge finanziaria, le strette operative di un presidente del Consiglio da qualcuno paragonato a Charles De Gaulle e da altri al principe Metternich del congresso di Vienna, e la gara al Quirinale. Proprio oggi, d’altronde, sul giornale Domani Conte è stato vistosamente declassato da “avvocato del popolo” del 2018 -ricordate?- ad “avvocato del sistema”, fra “nomine, conflitti d’interesse e affari”.  

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La proposta di Draghi a Mattarella, per nulla indecente, di una rielezione al Quirinale

Titolo del Giornale
Editoriale del Giornale

Se fosse vero, e non solo verosimile, il retroscena col quale apre oggi giustamente Il Giornale, Mario Draghi avrebbe fatto la mossa dello scacco matto sulla scacchiera del Quirinale precedendo il troppo titubante segretario del Pd Enrico Letta, frenato dalle tante ambizioni più o meno nascoste dei suoi colleghi di partito. In particolare, egli ha proposto a Mattarella, in una cena che risalirebbe a giovedì scorso, la rielezione al Quirinale  ricevendone come risposta “un sorriso”. Che è già più, e meglio, di un no che sorprendentemente avrebbe preferito il direttore dello stesso Giornale: il mio carissimo amico Augusto Minzolini. Il quale ha scritto di una “staffetta irrituale” implicita nella proposta-offerta di Draghi, disposto a rimanere a Palazzo Chigi, con Mattarella confermato al Quirinale, sino alla scadenza ordinaria della legislatura, nel 2023, salvo succedergli se e quando il presidente rieletto dovesse dimettersi, come fece Giorgio Napolitano nel 2015 dopo la conferma del 2013.

Dami Moore e Robert Reford nella “Proposta indecedente”

A leggere il buon Minzolini, peraltro espertissimo di retroscena perché conoscitore e frequentatore dei palazzi della politica come pochi altri, prevalentemente morti come il nostro comune amico Guido Quaranta, quella implicita o esplicita di Draghi a Mattarella sarebbe una specie di proposta indecente, dal titolo che vi propongo di un celebre film drammatico del 1993. In cui la bellissima Dami More, col consenso del marito in gravi difficoltà economiche, cede alla corte salvifica del supermiliardario Robert Redford.

Capisco l’avversione del Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, che proprio oggi se la prende in prima pagina con lo scenario di un Draghi protagonista a lungo della politica italiana adoperando una intervista del politologo Marco Revelli, secondo cui il “premierato assoluto” dell’attuale capo del governo sarebbe paragonabile alla “restaurazione” decisa “al congresso di Vienna” in un Europa sconvolta a lungo da Napoleone. Ma chi sarebbe il Napoleone italiano dei nostri mesi o anni  scorsi? Giuseppe Conte con i suoi due governi dal segno politico opposto succedutisi fra il 2018 e le prime settimane del 2021? Via, siamo seri.

Titolo del Fatto Quotidiano

Capisco, dicevo, l’avversione del Fatto Quotidiano  ad uno scenario in cui Draghi rimarrebbe a Palazzo Chigi sino al 2023 per succedere poi a Mattarella, nel prossimo Parlamento, e garantire dal Quirinale la prosecuzione della sua azione di risanamento e riforma dell’Italia con altri premier da lui nominati, sempre che i risultati elettorali naturalmente glielo permettessero, perché il o i suoi successori a Palazzo Chigi dovrebbero pur avere la fiducia delle Camere. Ma perché Minzolini, alla meritata guida del quotidiano fondato nel 1974 da Indro Montanelli e ora della famiglia Berlusconi, dovrebbe strapparsi i capelli, che peraltro non ha consentendogli di esporre una simpaticissima e lucidissima testa calva?

Irrituale per irrituale, come Augusto ha definito una eventuale staffetta al Quirinale fra un paio d’anni fra Mattarella e Draghi, mi e gli chiedo come si possa definire, se non irrituale anch’essa, quanto meno, l’elezione di un successore a Mattarella a febbraio prossimo da parte di Camere ampiamente delegittimate dalla riforma grillina che ne ha ridotto la consistenza nella loro prossima edizione. Ma delegittimate anche dai risultati di tutte le elezioni intermedie, chiamiamole così, svoltesi dopo il 2018, in cui i voti dei grillini si sono praticamente dimezzati e se la battono, per il primato in classifica, tre partiti attorno al 20 per cento dei voti. Che sono il Pd, la Lega e i fratelli d’Italia.  

La paura che fa Mario Draghi in volo sull’aquila della Confindustria

Nella vignetta di Emilio Giannelli, che oggi sulla prima pagina del Corriere della Sera fa svettare sul palazzo di Montecitorio come un missile Mario Draghi festosamente in groppa all’aquila della Confindustria, alla cui assemblea il presidente del Consiglio è stato accolto entusiasticamente e salutato da Carlo Bonomi, il padrone di casa, come l’uomo “non della Provvidenza ma della necessità”, hanno potuto in qualche modo riconoscersi giornali di segno opposto ma curiosamente concordi in una valutazione preoccupata della situazione.

Titolo del Riformista

Sul Riformista di Piero Sansonetti, per esempio, hanno attribuito al presidente della Confindustria, e implicitamente allo stesso Draghi che ha gradito l’accoglienza ricevuta dagli imprenditori, “il sogno di far fuori la politica”. Che non è proprio il massimo che possa desiderare, o cui possa puntare, un democratico.

Titolo del Fatto Quotidiano

Sul Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, che sta al Riformista come il diavolo all’acqua santa, o viceversa, secondo i gusti, hanno visto nella “incoronazione” confindustriale di Draghi un altro passo in avanti sulla strada di “un partito unico articolato”, o la conferma, condivisa in una intervista da Luciano Canfora, del “sempre più concreto disegno delle èlite per il SuperMario senza scadenza”, ben oltre quindi la conclusione ordinaria della legislatura.

Del resto anche il segretario del Pd, che il giornale di Travaglio tuttavia accomuna a Giuseppe Conte come resistente o contrario a questa evenienza, ha ripetutamente parlato di Draghi a Palazzo Chigi “almeno sino al 2023”, quando dovranno essere rinnovate le Camere, salvo incidenti ed elezioni anticipate per scelta del successore di Sergio Mattarella al Quirinale, l’anno prossimo. O dello stesso Mattarella rieletto e quindi non più bloccato dal cosiddetto semestre bianco, l’ultimo del suo primo mandato. Quell’”almeno” non sarà sfuggito per caso al segretario del Pd che ha insegnato politica anche a Parigi.

Fotomontaggio del Fatto Quotidiano

Contro un Draghi sopravvissuto politicamente anche alle prossime elezioni politiche, o addirittura eletto al Quirinale, e ancora più scambiabile da Ernesto Galli della Loggia per quella specie di edizione italiana di Charles De Gaulle già indicata in un editoriale del Corriere della Sera, al Fatto Quotidiano si stanno già attrezzando con vignette, cattiverie di giornata e fotomontaggi. Potrebbero, per esempio, adoperare contro il temuto presidente del Consiglio quella coppola e quel fucile oggi sbattuti sul tavolo per dare dei mafiosi a tutti i giornali che hanno esultato per la sentenza d’appello, a Palermo, sulla cosiddetta trattativa con la mafia. Che, se ci fu davvero, nella stagione delle stragi non costituì reato -ha stabilito la Corte d’Assise in secondo grado- perché fu solo un’’operazione investigativa e di polizia per arrivare ai boss mafiosi e arrestarli, come avvenne, anche se al Fatto Quotidiano stentano ancora a rendersene conto.

Titolo di Domani

E’ un pò conforme, infine, allo spirito ironico, e quindi critico, della vignetta del Corriere della Sera su Draghi in groppa all’aquila confindustriale l’accusa rivolta agli imprenditori, e in fondo anche al presidente del Consiglio, dal giornale di Carlo De Benedetti –Domani-  di “non capire come funziona la democrazia”. Che evidentemente, con l’avalllo dell’editorialista Nadia Urbinati, si misura col numero di governi che i partiti riescono a far fuori nei cinque anni di una legislatura, o anche meno in caso di ricorso anticipato alle urne.

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La staffetta da Milano a Palermo per riscrivere, deformata, la storia della Repubblica

Titolo del Dubbio

Diciamoci la verità, tutta la verità, a commento della sentenza d’appello di Palermo che ha declassato a un fatto che “non costituisce reato” la presunta trattativa fra lo Stato e la mafia. Della quale l’intera vicenda giudiziaria ha preso addirittura il nome più generalmente usato sui giornali e nelle stesse aule dei tribunali.  Sono stati perciò assolti gli ufficiali dei Carabinieri accusati di averla condotta, e nuovamente condannati i mafiosi che dall’altra parte non avrebbero compiuto ma solo cercato di attentare con violenze e minacce al funzionamento di un corpo politico o amministrativo  o giudiziario dello Stato, come dice l’articolo 338 del codice penale cavalcato dall’accusa. Diciamocela, questa verità, senza fare sconti a nessuno: né ai magistrati inquirenti, né a quelli giudicanti di primo grado, sconfessati appunto in appello, né ai giornalisti. O, se preferite, a noi giornalisti, fra i quali ve ne sono alcuni oggi quasi soddisfatti anch’essi del nuovo verdetto, ma sino a qualche tempo fa partecipi -spero in buona fede- di una colossale opera di mistificazione della storia e di avvelenamento della lotta politica.

La verità è che una trentina d’anni fa gli scribi giudiziari della storia -intesi come certi inquirenti e i cronisti, commentatori, analisti che ne raccoglievano e amplificavano iniziative, convinzioni e umori- si passarono le consegne fra Milano e Palermo per deformare la conclusione della cosiddetta prima Repubblica e l’incubazione della seconda. Che, secondo costoro, non stava avvenendo nel 1993 col passaggio referendario e legislativo dal sistema elettorale proporzionale a quello prevalentemente maggioritario, che prese il nome latinizzato dell’attuale capo dello Stato, cioè Mattarellum, ma con le stragi mafiose e col tentativo “spregiudicato e disperato”, ancora ieri lamentato su Repubblica da Carlo Bonini, di prevenirle, limitarne i danni e addirittura strumentalizzarle con la infausta “trattativa”. Alla quale molti tolsero via via anche le virgolette originariamente usate per cautela.

A Milano, senza offesa per protagonisti, attori e comparse di “Mani pulite”, i cui superstiti peraltro hanno finito o stanno finendo la loro carriera scambiandosi querele o minacciandosele, la cosiddetta prima Repubblica fu travolta da una decapitazione selettiva dei partiti, e relative correnti, che da anni, e sotto gli occhi di tutti, si finanziavano irregolarmente, diciamo pure illegalmente. Né potevano fare diversamente per la scelta ipocrita da tutti compiuta di destinare alle forze politiche un finanziamento pubblico insufficiente a coprire davvero le loro spese, che pure erano evidenti con le sedi di cui disponevano, il personale, le manifestazioni, i giornali, e magari anche l’arricchimento personale di alcuni che raccoglievano illegalmente -ripeto- fondi per la loro parte politica e ne trattenevano per sé un po’, o un bel po’, secondo i casi. Tutto divenne o fu scambiato per corruzione, in buona e cattiva, anzi cattivissima fede.

Francesco Cossiga

Già minato dalla caduta del muro di Berlino, nel 1989, e dalla dissoluzione fortunatamente senza sangue del comunismo, si era spontaneamente esaurito il sistema bipolare italiano derivato per decenni dalla presenza del partito comunista più forte dell’Occidente e dall’azione di contrasto degli avversari, salvo tregue come quella della cosiddetta solidarietà nazionale nel 1976. L’unico a capirlo e a dirlo più o meno chiaramente in pubblico fu l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga auspicando, pur con picconate verbali,  un’evoluzione ordinaria e ordinata degli equilibri politici. Gli altri preferirono ricorrere all’ascia giudiziaria, liquidando come ladri quelli che resistevano al governo o, sul versante opposto, continuando a scambiare per comunisti quelli che di fatto non lo erano più per chiusura, diciamo così, della ditta.

Giulio Andreotti

Silvio Berlusconi

A Palermo, anziché saltare in groppa alla lotta alla corruzione, vera o presunta che fosse, si saltò in groppa alla lotta alla mafia, anche lì vera o presunta che fosse, per abbattere vecchi equilibri e crearne di nuovi. E poiché la mafia, quella vera, proprio in quel periodo aveva deciso di ricorrere agli attentati sanguinosi per spezzare l’assedio che magistrati di valore come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino avevano pazientemente tessuto, contrastati spesso dai loro stessi colleghi per basse ragioni di carriera, anche le stragi furono strumentalizzate più per lotte politiche che per altro. E così fu possibile che, o per liberarsi più rapidamente dei vecchi equilibri o per scongiurarne di nuovi, Giulio Andreotti divenne il capomafia, più o meno, da abbattere e Silvio Berlusconi l’erede da soffocare in culla presentandolo come il nuovo referente della criminalità organizzata, disposto ad assecondarla direttamente o attraverso i suoi amici, a cominciare da Marcello Dell’Utri, peraltro siciliano doc, per consolidare il potere appena conquistato con la sorprendente vittoria elettorale del 1994. O addirittura per conseguire quella vittoria.

E’ potuto così accadere che un’operazione “spregiudicata e disperata”, come -ripeto- la definisce ancora Carlo Bonini su Repubblica, anche dopo l’assoluzione in appello degli alti ufficiali che la condussero, pur avendo portato alla cattura di boss mafiosi come Totò Riina e Bernardo Provenzano, morti entrambi in carcere, fosse scambiata per una torbida congiura, o qualcosa del genere. E ciò anche a costo di trascinare ad un certo punto nelle polemiche, e nella stessa vicenda giudiziaria, un onestissimo presidente della Repubblica come Giorgio Napolitano, e altrettanto onesti collaboratori come il compianto consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, morto di crepacuore. Vergognatevi, scribi della malora.

Pubblicato sul Dubbio

L’Italia imbocca finalmente la strada della normalità politica e giudiziaria

La lettura della sentenza sulla cosiddetta trattativa con la mafia alla Corte d’Appello di Palermo

Eppure c’è un nesso fra le due immagini emblematiche delle ultime ventiquattro ore di cronaca politica e giudiziaria, una volta tanto convergenti sulla strada di un ritorno dell’Italia alla normalità, dopo decenni durante i quali il Paese è sembrato quasi impazzito, schiacciato fra una politica imbelle, assediata, priva di autonomia e una magistratura straripante. Che dopo avere sostituito la politica, o averla duramente condizionata pur sentendosene paradossalmente minacciata, ha preteso anche di sostituire gli storici ricostruendo a suo modo, come vedremo, gli eventi più tragici della Repubblica, non dissipando le ombre ma creandone sempre di nuove.

Titolo del manifesto

La prima immagine, in ordine rigorosamente orario, è quella del presidente del Consiglio Mario Draghi all’assemblea di Confindustria, accolto con una standing ovation largamente meritata per l’impegno col quale egli sta guidando il governo tra varie emergenze.  Che indussero d’altronde il capo dello Stato a chiamarlo a Palazzo Chigi a chiusura di una crisi fra le più tortuose degli ultimi cinquant’anni. “Lunga vita”, hanno tradotto al manifesto quell’accoglienza con spirito un po’ ironico, dati gli orientamenti politici di un quotidiano orgogliosamente comunista, ma conforme allo spirito vero di quell’applauso, levatosi da imprenditori senza i quali -lo riconosceranno anche al manifesto– non si può produrre ricchezza. E che, all’unisono col capo del governo, hanno proposto ai sindacati un patto o un’alleanza per lo sviluppo analogo a quello che un amico, maestro e predecessore di Draghi come l’ex governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi promosse nel 1993, in un altro snodo difficile della storia del Paese.

E’ inutile chiedere una distribuzione più equa della ricchezza in una qualsiasi comunità senza produrne di nuova. Altrimenti si può distribuire più equamente solo la povertà. Non mancano d’altronde personaggi e movimenti, come quello grillino uscito vittorioso dalle elezioni politiche del 2018, cultori del pauperismo felice. Di cui in fondo è un prodotto anche il cosiddetto reddito di cittadinanza, nel modo dispendioso e per niente produttivo in cui è stato introdotto.

Titolo del Fatto Quotidiano

L’altra immagine è quella della Corte d’Appello di Palermo che ha finalmente smontato il teorema della cosiddetta trattativa fra lo Stato e la mafia costato in primo grado la condanna di tre onoratissimi alti ufficiali dei Carabinieri e dell’ex senatore e cofondatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri. Al Fatto Quotidiano naturalmente non hanno gradito e, col supporto del solito fotomontaggio sarcastico, hanno tradotto così il senso della sentenza: “Trattare con la mafia si può, con lo Stato no”. Marco Travaglio ci ha aggiunto di suo la convinta “solidarietà” ai mafiosi di cui è stata confermata la condanna. Ma di quale trattativa stiamo ancora parlando, essendo arcinoto che i contatti avuti con la mafia nella stagione delle stragi da rappresentanti dello Stato erano finalizzati a fotterla, con la cattura dei boss morti poi in carcere?  

Titolo del Foglio

“Una boiata”, l’ha giustamente definita Il Foglio. Una boiata utile solo a cercare di riscrivere nelle Procure la storia del Paese per delegittimare la cosiddetta seconda Repubblica come un prodotto dei ricatti mafiosi e non di una riforma elettorale. Che peraltro maturò in un marasma creato anch’esso da certa magistratura decapitando con una selezione mirata i partiti generalmente finanziati in modo irregolare.

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