Mario Draghi non ha la cervicale, ma la politica italiana sì

Titolo del Foglio

Mario Draghi -mi assicura un comune amico che lo sconosce bene e lo frequenta- non ha la cervicale. Non soffre cioè di cervicalgia, anche se a 74 anni, per quanto ben portati, potrebbe ben incorrervi prima o poi. Se in queste ore gli vengono dei capogiri le sue vertebre cervicali non ne sono la causa. La cervicale, piuttosto, ce l’ha ormai la politica dopo una legislatura pazza come quella cominciata tre anni e mezzo fa, e a pochi giorni da un turno di elezioni amministrative, e suppletive, che potrebbero provocare tutto, ma anche niente.

Ancora dal Foglio

Il Foglio di Giuliano Ferrara e Claudia Cerasa – che ha lanciato per primo la candidatura di Draghi al Quirinale a fin di bene, dal suo punto di vista, e  non certo per vederlo “fottere”, come si è augurato  invece Alessandro Di Battista, per ora impegnato fortunatamente solo a sostenere la improbabile conferma di Virginia Raggi a sindaca di Roma- ha riferito oggi di un presidente del Consiglio irritato. E ciò  per l’insistenza con la quale il pur amico e collega di governo Giancarlo Giorgetti ne sta sostenendo pure lui l’elezione al Colle più alto di Roma. Egli si sente assediato -sembra di capire dalla cronaca retroscenista del Foglio– da “chi lo allontana per trattenerlo e da chi lo trattiene per allontanarlo” da Palazzo Chigi.

In questa situazione il presidente del Consiglio rischia addirittura di fare la fine del famoso asino di Buridano, destinato a morire della sua indecisione a scegliere fra due mucchi di fieno cui attingere per mangiare. Ma, a dire il vero, lasciando senza smenita un retroscena di qualche giorno fa Draghi ha mostrato di gradire, almeno per ora, Palazzo Chigi al Quirinale, dove vorrebbe che Sergio Mattarella si facesse rieleggere per il tempo necessario a due evenienze ugualmente utili, o opportune. Una è il proseguimento dell’azione del governo attuale per portare avanti il piano della ripresa e le relative riforme, l’altra lo scioglimento del nodo quirinalizio in un Parlamento, il prossimo, fra un anno,  pienamente legittimato nella sua nuova consistenza numerica –  da 945 seggi elettivi a 600, fra Camera e Senato- e altrettanto  nuova geografia politica, con la fine della paradossale maggioranza relativa conquistata nel 2018 da un movimento come quello grillino.

Titolo di Repubblica

Impegnato solo qualche settimana fa, in tanto di conferenza stampa, a riconoscere la solidità o incontrovertibilità della leadership salviniana della Lega, di cui in fondo comprendeva, tollerava e quant’altro gli ondeggiamenti denunciati invece dal segretario del Pd Enrico Letta, smanioso di liberarsi di un socio di maggioranza così scomodo, Draghi si è improvvisamente trovato di fronte ad una crisi di quella stessa leadership determinata addirittura dal suo migliore amico nella Lega, che è il ministro Giorgetti, prodigo di interviste e dichiarazioni critiche. “Ne resterà uno solo”, fra Salvini e Giorgetti appunto, ha titolato oggi la Repubblica, che non è un giornale sprovveduto.

L’ansia, l’incredulità e quant’altro sarà cresciuta, in un uomo pur abituato a vederne e sentirne di tutti i colori dalle tante postazioni importanti occupate nella sua lunga carriera nazionale e internazionale, trovando l’offensiva di Giorgetti non solo giocata anche sull’ipotesi dell’attuale presidente del Consiglio al Quirinale fra qualche mese, ma sviluppatasi di pari passo con quella “schifezza mediatica” che Salvini ha indicato nell’affare giudiziario di droga, chiamiamolo così, del suo ex portavoce e tuttora amico Luca Morisi. Roba da vetigini, anche per uno -ripeto- come Draghi, che non soffre di cervicale.

Ripreso da http://www.startmag.it

In ricordo di Carlo Tognoli, il riformista che non prometteva la luna

Titolo del Dubbio

Ho avvertito un brivido a trovarmi fra le mani il libro ancora fresco di stampa delle edizioni Baldini-Castoldi contenente articoli e interventi del compianto Carlo Tognoli, curato dalla Fondazione Bettino Craxi e con quella foto dell’ex sindaco di Milano in copertina, ripreso in Galleria, a pochi passi da quello che fu per dieci anni il suo ufficio a Palazzo Marino, fra i 1976 e il 1986, quando Bettino Craxi se lo volle portare a Roma per usarne le doti politiche e umane a livello nazionale.  

La copetina del libro su Tognoli

Nel vederne l’immagine mi è sembrato di reincontrarlo. D’altronde era facile incrociare Tognoli a piedi a Milano. Amava tanto la sua città -mi spiegò una volta- che gli piaceva godersela appunto a piedi, ammirandone le strade, le piazze, gli edifici e sentendone gli odori, per quanto distorti spesso dalle emissioni del traffico e altro di una metropoli.

A proposito dell’amore per la sua città, e a conferma di ciò che hanno raccontato nella prefazione del libro Ugo Finetti e Walter Marossi, l’ormai ex sindaco  e ministro in carica del Turismo e dello Spettacolo, dopo esserlo stato alle aeree urbane.  mi rimproverò amichevolmente di essermi fatto prendere la mano anche io alla direzione del Giorno facendo scrivere di una “Milano da bere”, che secondo lui si prestava a equivoci o letture “inappropriate”.

La Milano ch’egli ereditò come sindaco nel 1976, negli anni della “strategia della tensione” e di piombo, era stata per certi versi e per un certo tempo una città  da ”coprifuoco”, come spesso gli era sembrata, in particolare, la Galleria dopo le ore 22. Tognoli ebbe quella sfortuna, ma poi anche la fortuna di portarla fuori dall’incubo delle violenze e di restituirla alla vita, alla ripresa, alla fiducia, e persino all’allegria. Ma più che di una Milano “da bere”, sarebbe stato opportuno parlare e scrivere -mi disse- di una Milano “da amare”, appunto. La stessa cosa, o quasi, mi sentii dire dopo qualche tempo -pensate un po’- dal cardinale Carlo Maria Martini in un incontro all’Arcivescovado. Tognoli rise quando glielo riferii.

Ancor più di quella foto in Galleria, sulla copertina del libro rievocativo del pensiero e della storia del più giovane sindaco d’Italia quale fu per molto tempo Tognoli, mi ha commosso il titolo che gli è stato dato: “Senza promettere la luna”. Che fu lo stesso dell’ultimo articolo scritto per il Corriere della Sera proprio sul sindaco di Milano da Walter Tobagi, prima di essere ucciso sotto casa da giovanissimi aspiranti brigatisti rossi.

Walter Tobagi

Carlo Tognoli e Walter Tobagi: due amici, fra di loro e miei, il cui ricordo mi stringe la gola per la bontà, lealtà e capacità di analisi che li accomunava. Meglio Walter non poteva descrivere il modo di Tognoli di fare politica e di farsi votare e apprezzare, da buon riformista ostinato e graduale, senza promettere appunto la luna, dove pure l’uomo era riuscito ad approdare nel 1969 compiendo quel famoso “piccolo passo, grande per l’umanità”. Tognoli non prometteva mai più di quanto non fosse convinto davvero di poter fare. Ed era misurato quanto tenace anche nelle polemiche, senza fare sconti a nessuno. Ai comunisti, per esempio, con i quali aveva pur amministrato la sua Milano, non ha mai perdonato l’astio nutrito verso i socialisti, divenuto parossistico nei riguardi di Craxi. Che non li voleva nè distruggere nè discriminare, perseguendo più semplicemente e politicamente una politica di autonomia, contro la subalternità pretesa da quelle parti, e un riequilibrio dei rapporti di forza elettorale.

Tognoli con Anna e Bettino Craxi

La prova che mancasse al pur anticomunista Craxi la volontà di far fuori davvero il Pci la ebbero alle Botteghe Oscure nel 1991, quando la maggioranza pentapartitica guidata da Giulio Andreotti ebbe l’occasione di interrompere la legislatura e portare ad elezioni anticipate un partito di opposizione che, travolto dalla caduta del muro di Berlino, era alle prese con la sua trasformazione anagrafica, con tanto di nuovo nome e nuovo simbolo. A tendergli la mano fu lealmente proprio Craxi. Che l’anno dopo, ad elezioni svoltesi alla scadenza ordinaria, e col fuoco di Tangentopoli già acceso a Milano anche con la legna del Pds-ex Pci, gli consentì l’adesione politicamente salvifica all’Internazionale Socialista, pur avendo il Psi statutariamente il diritto di veto.

Della lunga e spietata ostilità del Pci nei riguardi del leader del socialismo italiano è rimasta celebre la denuncia fatta da Tognoli, con fulminante efficacia di stile turatiano, quando Craxi diventò presidente del Consiglio, nel 1983. Alla sostanziale esplosione di gelosia, invidia, paura e quant’altro esplosa in un Pci ancora in forza di numeri elettorali e parlamentari, il buon Tognoli reagì ricordando ai cugini, diciamo così, di sinistra che Craxi aveva tolto Palazzo Chigi non a loro, non essendovi i numeri per un’alternativa di sinistra, ma alla pur alleata Dc. Il cui segretario Ciriaco De Mita non ebbe infatti pace sino a quando non glielo tolse, quattro anni dopo.

Mai vista una cosa del genere, mi disse commentando la sfiducia praticata dalla Dc al monocolore Fanfani, pur di andare alle elezioni anticipate, uno sgomento Tognoli. Della cui morte non mi sono ancora rassegnato a più di sei mesi ormai da quando se l’è portato via il miserabile Covid, a 83 anni neppure compiuti, privandomi della sua amicizia, generosità e saggezza.

Pubblicato sul Dubbio

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