Miracolo al Fatto Quotidiano: la Pm contestata conserva intatto il suo nome

Miracolo al Fatto Quotidiano, il cui direttore Marco Travaglio è tornato di persona, con tanto di editoriale dal misurato titolo, tutto sommato, delle “sentenze preventive”, sulla procuratrice aggiunta Titolo Travagliodi Bergamo Maria Cristina Rota. Alla quale sono state  contestate, in particolare, le dichiarazioni rilasciate addirittura al Tg3, almeno una volta caro a certa sinistra manettara, dopo avere interrogato per un paio d’ore il “governatore” leghista della Lombardia Attilio Fontana, ma anche altri.

            Il torto della magistrata d’accusa sarebbe stato e sarebbe naturalmente quello di essersi “bevuta” -ha scritto Travaglio- la lettura fontaniana delle leggi secondo cui avrebbe dovuto essere il governo e non la Regione a chiudere come “zone rosse” nei mesi scorsi i Comuni di Alzano Lombardo e Nembro, nel Bergamasco, per i troppi contagi da coronavirus.

            Il miracolo sta nel fatto, minuscolo, che Maria Cristina Rota, a dispetto delle abitudini di Travaglio, ha conservato intatti nell’editoriale i suoi nomi e cognome, pur con tutte le occasioni cui Travagliosi prestavano per essere storpiati nella foga della polemica. Ha conservato anche  il diritto di essere chiamata solo “la signora” nel momento in cui le è stata contestata la lettura o l’interpretazione delle leggi in vigore, che avrebbero dovuto indurla a dare torto al “governatore”. Il quale, ascoltato come persona informata dei fatti, al plurale, si sarebbe meritato da un altro procuratore quanto meno un sospetto di “falsa testimonianza”.

            Meno male che “la signora”, pur meritevole di un intervento della Procura Generale per “l’avocazione” di una pratica alla quale evidentemente non si sarebbe preparata a dovere, ha avuto l’accortezza in qualche modo confortevole per TravaglioTravaglio 2 di precisare che le indagini, vista la loro “complessità”, saranno “lunghe”. Abbastanza lunghe -deve essersi augurato Travaglio- da fare cambiare idea alla stessa procuratrice aggiunta di Bergamo e di restituire serenità e  fiducia al presidente del Consiglio e ai ministri interessati. Che debbono avere raccolto le dichiarazioni televisive della magistrata con la stessa sorpresa e disapprovazione del direttore del Fatto Quotidiano. Di cui il meno che si possa dire è che al momento è il giornale più filogovernativo sulla piazza, prontissimo a fare le pulci ai quotidiani più diffusi che si permettono ogni tanto di avanzare critiche o di esprimere soltanto qualche preoccupazione per i provvedimenti faticosamente partoriti dall’esecutivo e per le precarie condizioni della maggioranza giallorossa. Dove le tensioni sono generalmente più  numerose delle ore di una sola giornata.

Mario Draghi: il più osservato, il più atteso, forse il più temuto

Chi c’è stato, fra i 46 “magnifici” selezionati per ascoltare nel salone di Palazzo Koch le “considerazioni finali” del governatore della Banca d’Italia, mi ha assicurato che quel centinaio di occhi super aperti, nonostante l’ingombro delle mascherine e le distanze di sicurezza imposte da questi tempi di coronavirus, vagavano solo fra tre obiettivi.

             Uno era naturalmente il governatore Ignazio Visco, non foss’altro perché stava di fronte a tutti. L’altro era il presidente del Senato, o la presidente, Maria Gilet arancioni a MilanoElisabetta Alberti Casellati per Casellatiil colore vistosamente arancione della mascherina scelta per l’occasione: arancione scomodamente uguale ai gilet di protesta nelle piazze dei sovranisti dell’ex generale dei Carabinieri Antonio Pappalardo. L’altro ancora, seduto in prima fila al penultimo posto a destra, era Mario Draghi. Che peraltro dispone nel palazzo di via Nazionale, a poche centinaia di metri dal Quirinale, di un ufficio messogli a disposizione come governatore Draghi in Banca d'Italiaemerito, essendo stato al posto di Visco per sei anni, prima di diventare presidente della Banca Centrale Europea. Dove  ha lasciato, da par suo,  il segno salvando praticamente la giovane moneta comunitaria dalla crisi che minacciò di travolgerla otto anni fa.

            Anche gli occhi di Visco quando si alzavano dal testo delle considerazioni finali cadevano più frequentemente su Draghi che su altri. E al pari degli altri, forse, anche se tutti smentirebbero se fossero interpellati sul problema, pensando più a quel che “Super Mario”  potrebbe diventare che a quel che è stato.

            Che cosa, in particolare, potrebbe diventare Draghi lo sanno ormai anche i marciapiedi di Roma: più che il successore di Sergio Mattarella al Quirinale fra meno di due anni, come Scalfariha mostrato oggi di desiderarlo Eugenio Scalfari su Repubblica, il successore ben prima di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi per un governo di emergenza e solidarietà nazionale imposto dagli effetti della crisi virale. Fra i quali ci sono i 13 punti in meno del pil, inteso come prodotto interno lordo, previsti da Visco e la fluidità, a dir poco, di un po’ tutti i partiti che contribuiscono agli equilibri politici nazionali, di maggioranza e di opposizione.

            Ormai, di questi partiti, come dimostra l’ultimo sondaggio di Nando Pagnoncelli per il Corriere della Sera,  non ce n’è più uno nettamente prevalente su tutti negli orientamenti dell’opinione pubblica. I maggiori sono distanziati gli Sondaggio Pagnoncelliuni dagli altri dai tre agli otto punti.  E se vi è un contrasto vistoso fra questi orientamenti e la distribuzione dei seggi parlamentari avvenuta con i risultati elettorali del 2018, nettamente favorevoli al movimento delle 5 stelle, questo è un ulteriore elemento di debolezza del quadro politico. Che è solido, attorno a quel movimento, prima con una maggioranza gialloverde e ora con una maggioranza giallorossa, solo in apparenza, come in una facciata di cartone. Dietro la quale lo stesso Scalfari domenica scorsa, pur volendolo ancora al suo posto oltre l’autunno, ha descritto il povero Conte impegnato a guadagnarsi “giorno per giorno” l’appoggio di ciascuno dei partiti della maggioranza, “soprattutto” del movimento grillino. Che pure a Palazzo Chigi lo portò nel 2018 e lo impose alla sinistra l’anno dopo, nel cambio di coalizione.

            Consapevole di tutta quest’attenzione su di lui, un po’ forse compiaciuto ma un po’ anche spaventato, visto che gli toccherebbe malvolentieri un’eredità difficilissima da gestire, Draghi è stato il primo ad arrivare venerdì nel salone di Palazzo Koch, evitando l’arrivo fra gli ultimi, che si nota sempre di più, ed è stato fra i primi a lasciarlo.

 

 

 

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Finalmente un magistrato d’accusa riesce a spiazzare il giornale di Travaglio

            Finalmente -è proprio il caso di dirlo- è comparsa sulla scena nazionale, per il rilievo attribuito ormai all’indagine che sta conducendo- un magistrato dell’accusa capace di sorprendere, o addirittura scandalizzare, Il Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio. Che di solito si riconosce nelle Procure e ne ascolta le musiche con la passione del melomane.

            Più che di un magistrato, in verità, si tratta questa volta di una magistrata: la procuratrice aggiunta di Bergamo Maria Cristina Rota. Che dopo due ore di interrogatorio del “governatore” della Lombardia Attilio Fontana come persona informata dei fatti, ha ritenuto di potersi subito esprimere sulla vicenda cavalcata proprio dal Fatto, ben prima che su quel cavallo saltassero i parlamentari delle 5 Stelle, in particolare, fino a provocare disordini nell’aula della Camera.

           Maria Cristina Rota ha mostrato di condividere la linea difensiva del “governatore”. Che, accusato dal giornale di Travaglio, prima ancora che dalla Procura di Bergamo, di non avere ordinato nei mesi scorsi la chiusura di Alzano e Nembro come “zone rosse” contagiatissime dal coronavirus, sostiene che la competenza di una simile decisione spettasse al governo nazionale, non regionale.

            Con la sua sortita, fatta lodevolmente alla luce del sole per non privilegiare scoop giornalistici di soFintana travestito da Pmrta sul versante politico del centrodestra, come molte volte accade al contrario, in via riservata, sul versante giudiziario quando lo scoop è dei quotidiani del versante opposto, la procuratrice aggiunta di Bergamo si è beccata un titolone di prima pagina sul Fatto che la boccia insieme con l’odiato leghista Fontana.

            Con l’abitudine che ha Travaglio di storpiare i nomi a chi non gli va a genio -ne sa qualcosa, fra gli altri, Guido Bertolaso, ora avventuratosi persino in Sicilia- chissà come finiràFontana a Bergano per essere chiamata, con quel cognome che porta, la signora Rota. Per adesso bisogna accontentarsi di vedere Fontana travestito sulla prima pagina del giornale di Travaglio da pubblico ministero all’uscita immaginaria dal Palazzo di Giustizia di Bergamo, dove era entrato, ripeto, come uomo informato dei fatti, doverosamente al plurale.

 

 

 

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Flick ha fatto saltare la mosca al naso di Mattarella sulla palamarite…

Tempi e modi di una lunga nota del Quirinale sulla inquietante vicenda di Luca Palamara, riattizzata dalla diffusione delle intercettazioni effettuate sul telefonino dell’ex presidente dell’associazione delle toghe ed ex consigliere Flick 1superiore della magistratura, lasciano sospettare che a far saltare la mosca al naso di Sergio Mattarella, diciamo così, sia stata un’intervista di Giovanni Maria Flick al Foglio. In cui si auspicava, quanto meno, un messaggio dello stesso Mattarella alle Camere nella doppia veste di presidente della Repubblica e del Consiglio Superiore della Magistratura.

            Flick, oltre che professore, avvocato e ministro della Giustizia nel primo governo di Romano Prodi, è stato giudice e, sia pure per soli tre mesi, fra novembre del 2008 e febbraio del 2009, presidente Flickdella Corte Costituzionale: cosa che gli fa dare  del “presidente emerito”, come se in qualche modo avesse conservato la sacralità di quel ruolo anche dopo la scadenza del mandato. E alla Corte, che lavora di fronte al Quirinale, nel Palazzo della Consulta, sono in molti ad essere in questa condizione: da quando i giudici presero l’abitudine, criticata in varie sedi, di eleggere alla presidenza i colleghi più vicini al congedo.

            Da Mattarella è arrivato a stretto giro di comunicazione, nello stesso giorno  dell’intervista di Flick, un no abbastanza secco. Nella nota del Quirinale si definisce “improprio” un messaggio del capo dello Stato alle Camere nel momento Foto Mattarellain cui la riforma dell’elezione, o “formazione”, del Consiglio Superiore della Magistratura, effettivamente necessaria di fronte alla degenerazione del fenomeno correntizio e altro, è un’urgenza avvertita Mattarellapubblicamente dal governo. Di cui sta per partire una iniziativa legislativa sulla quale sono in corso trattative, chiarimenti e quant’altro all’interno ma anche all’esterno della maggioranza, visto il proposito annunciato dal ministro della Giustizia di consultare pure le opposizioni. In questa situazione un intervento del capo dello Stato potrebbe apparire un’invasione di campo, restandogli peraltro la prerogativa costituzionale, significativamente ricordata nella nota, di valutare la legge di riforma del Csm quando uscirà dal Parlamento, prima della promulgazione.

            Visto che si trovava, Mattarella ha colto l’occasione anche per confermare quasi in prima persona, dopo ciò che ne avevano scritto i quirinalisti parlando con lui stesso o con i suoi consiglieri, l’impraticabilità di uno scioglimento anticipato del Consiglio Superiore, da qualche parte sollecitatogli.  Mancano le dimissioni di tanti consiglieri da non consentirne più l’operatività. Subentrerebbe anche l’inconveniente del  blocco derivante ai procedimenti disciplinari già avviati, e distinti dall’azione penale in corso sulla vicenda Palamara.

            Pur consapevole, con “sconcerto e riprovazione”, dei danni procurati da questa vicenda alla magistratura e da lui sottolineati sin dall’anno scorso, quando esplose il caso provocando le dimissioni di alcuni consiglieri superiori coinvolti e le elezioni suppletive per sostituirli, Mattarella mi è sembrato infine voler prendere Il Foglo su Flickle distanze dalle dimensioni del giudizio di Flick così nitidamente visibili nel titolo della sua intervista al Foglio: “La giustizia e la vergogna”. In particolare, il presidente della Repubblica ha reclamato la “restituzione” all’ordine giudiziario del “prestigio” e della “credibilità” che sono stati “incrinati”, non quindi distrutti, da quella che potremmo chiamare la palamarite. Che è un misto di carrierismo sfrenato e di “commistione”- ha detto Mattarella risparmiando i cronisti giudiziari- fra “magistrati e politici”.

Non una piazza ritrovata, ma Palamara ha rianimato Matteo Salvini

Se tanto mi dà tanto, seguendo la logica adottata dal direttore responsabile Pietro Senaldi commentando un sondaggio commissionato da “Cartabianca” e positivo per la Lega di Matteo Salvini, a Libero dovrebbero temere un ritorno più o meno alla grande delle “sardine”. Di cui invece da quelle parti hanno appena festeggiato la fine nelle scatolette a causa delle piazze svuotate dall’emergenza virale.

            Senaldi ha ritenuto di potere attribuire alla cosiddetta fase 2 concessa dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte I numeri di Cartabiancariaprendo le piazze al pubblico quello 0.7 per cento, arrotondato al “quasi 1”, che nel sondaggio commissionato a Ixè dalla trasmissione televisiva di Rai 3 condotta da Bianca Berlinguer  la Lega avrebbe recuperato fra il 19 e il 26 maggio scorsi, salendo dal 24,6 al 25,3 per cento delle “intenzioni di voto”.  E ciò, a occhio e croce, a scapito di un Pd sceso nello stesso periodo dal 21,6 al 20,9 dopo avere inseguito il sogno di raggiungere e magari anche sorpassare l’odiato Carroccio. Dove pure Massimo D’Alema, mangiando alici con Umberto Bossi quando il “senatur” si accingeva a rompere la prima alleanza con Silvio Berlusconi, sentì odore di sinistra. Altri tempi, altri uomini, si dirà. In effetti, sono un po’ cambiati sia gli uni che gli altri.

            Finita “la clausura” imposta dall’emergenza virale a un Salvini abituato a crescere, e persino a raddoppiare i propri voti in un anno, fra il 2018 e il 2019, la Lega potrebbe ora vantarsi Rotta invertitaaddirittura di avere “invertito la rotta” degli ultimi mesi. O di avere ricevuto quella “boccata d’ossigeno” Boccata d'ossigenolimitativamente scappata a Senaldi nel titolo del suo ragionamento sui numeri di “Cartabianca”. Che peraltro non è proprio familiare, diciamo così, ai lettori di Libero, attratti di più dalle imitazioni televisive dell’adorato Vittorio Feltri, direttore non responsabile ma editoriale del loro giornale, da parte di Maurizio Crozza.

            Le “sardine” argentate fuori e rosse dentro fecero una rapida apparizione nei sondaggi, più virtuale che effettiva, al loro esordio nelle piazze. Poi scomparvero, anch’esse forse per effetto Sardinedel coronavirus e della desertificazione delle strade. A voler essere tuttavia maliziosi, si potrebbe già sospettare un loro ritorno, nel sondaggio tanto piaciuto a Senali, fra gli “altri”. Che sono saliti quasi quanto la Lega: di poco più di mezzo punto, dal 4,5 per cento del 19 maggio al 5,2 del 23. Né si può pensare che vi abbiano potuto contribuire renziani, boniani, calendiani e altre schegge perché tutti calcolati a parte -costoro- da Ixé con le proprie percentuali non proprio stellari.

            D’altronde è proprio di oggi Schermata 2020-05-29 alle 05.32.32l’annuncio di Mattia Santori, sui giornali del gruppo Monti Riffeser, che le sue “sardine” Mattia Santoritorneranno “in campo” nelle elezioni regionali in cantiere per settembre. Preparatevi, dunque, amici di Libero.

            A prescindere comunque dalle “sardine”, diversamente da Senaldi penso che le piazze, peraltro perdurando i divieti d’assembramento che impediscono raduni e comizi tradizionali, c’entrino poco nella “boccata d’ossigeno” di Salvini. C’entra forse di più, com’è accaduto anche Palamarafra i senatori della giunta delle autorizzazioni ai processi, la reazione del buon senso a quella “merda” -scusate la parolaccia- gridata nel telefonino dall’invadente, a dir poco, magistrato Luca Palamara contro il leader leghista. Finita sui giornali con tutte le altre intercettazioni che hanno finito per insozzare un po’ troppe toghe,  quella roba lì ha fatto recuperare a Salvini qualche solidarietà, a dir poco, perduta o affievolita per stanchezza o dissenso nei mesi precedenti.

 

 

 

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L’Italia che apre l’ombrello sotto i soldi che possono piovere dall’Europa

            E’ proprio vero che quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito, come dice un vecchio proverbio. E’ un po’ ciò che nella vignetta di Emilio Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera fanno i due omini un po’ euroscettici, chiamiamoli così, che all’entusiasmo da ricovero, in tutti i sensi, del ministro italiano dell’Economia Roberto Gualtieri per Repubblicail fondo di 750 miliardi di euro, di cui 500 a fondo perduto e 172,7 destinabili al nostro Paese, proposto dalla presidente della Commissione dell’Unione oppongono le perduranti resistenze dell’Olanda, ma anche d’altri paesi comunemente definiti “frugali”. Per il cui successo sembra che quei due signori preferiscano fare il tifo, piuttosto che unirsi alla gioia da pazzo di Gualtieri, o a quella più contenuta espressa a Bruxelles dal commissario italiano Paolo Gentiloni e a Roma dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte.

            La stoltezza tuttavia non sta tanto nel dito metaforico di quei due omini della vignetta di Giannelli. Sta anche, per esempio, in quel titolo sovranista di Libero, che sarà tanto piaciuto -penso- a Matteo Salvini e a Giorgia LiberoMeloni sui banchi dell’opposizione e a chissà quanti sotto le 5 Stelle di Beppe Grillo, pur seduti nel governo e nella maggioranza, sull’Europa che “ci frega anche quando ci aiuta”. Altro, quindi, che Casini al Messaggerol’Europa finalmente “svegliata” che ha appagato il senatore della maggioranza ed ex presidente Il Foglodella Camera Pier Ferdinando Casini in una intervista al Messaggero. Altro che l’arguzia di quel titolo in rosso del Foglio sul “brutto momento per odiare l’Europa”.

            La stoltezza dell’attenzione riservata al dito piuttosto che alla luna sta infine nello scrupolo col quale molti politici, ma anche osservatori, analisti, commentatori, retroscenisti e altri ancora si sono precipitati a interrogarsi, quanto meno, non sulla consistenza, praticabilità e gestione degli aiuti e finanziamenti europei in un Paese come l’Italia, dove i fondi dell’Unione sono finiti spesso più nel cestino più o meno burocratio dei rifiuti, o quasi, che in opere davvero realizzate, ma sui vantaggi mediatici e politici, o sull’opposto, che potrà trarne personalmente il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Il quale domenica scorsa è stato impietosamente colto in Conteflagrante dal suo pur estimatore Eugenio Scalfari, su Repubblica, a cercare  faticosamente “giorno per giorno” l’appoggio delle componenti della sua maggioranza: “soprattutto” -ha sottolineato il decano ormai del giornalismo politico italiano- del principale movimento della coalizione. Si tratta naturalmente di quello delle 5 Stelle, pur riuscito a designare, imporre e quant’altro lo stesso Conte agli alleati di turno: prima ai leghisti per un governo gialloverde, e poi alla sinistra per un governo giallorosso.

            La politica in Italia è purtroppo questa. O si è ridotta a questo, persino in tempi di emergenza come quelli imposti da un’epidemia virale da molte parti paragonata ad una guerra, anzi alla terza guerra mondiale. Cui diamo l’impressione, almeno per ora, di partecipare pensando più a sgambettare il compagno d’armi che a vincere, o solo ad uscirne vivi.  

 

 

 

 

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Moro, Falcone e Tobagi: il tragico trittico del mese pur mariano di maggio

Col culto mariano che lo contraddistingue per un cristiano -com’era profondamente il mio amico e collega Walter Tobagi- maggio è uno dei tre mesi più cari e suggestivi, fra aprile -di solito- della Pasqua di Resurrezione e dicembre della Natività. Fu invece per Walter il mese della sua prematurissima e drammatica morte, ucciso come un cane a soli 33 anni a Milano sotto casa -esattamente il 28 maggio 1980- da una banda terroristica esordiente che aspirava con quell’azione ad accreditarsi presso le brigate rosse, di sangue e di vergogna.

Nel mese di maggio, il 9, era già stato ucciso a Roma due anni prima proprio dalle brigate rosse, al termine di una prigionia durata 55 giorni, un politico che Walter aveva molto stimato: Aldo Moro.

Nel mese di maggio, il 23, sarebbe stato ucciso 12 anni dopo, nel 1992, Giovanni Falcone in una strage mafiosa, a Capaci, costata la vita anche alla moglie e a quasi tutta la scorta, decimati dal tritolo.

Moro, Falcone e Tobagi sono tre uomini ai quali la democrazia italiana deve moltissimo per l’opera meritoria svolta nei campi, rispettivamente, della politica, dell’informazione e della giustizia: tutti e tre largamente incompresi dai loro contemporanei, in qualche modo vittime prima ancora che i loro assassini li finissero fisicamente.

Moro, una volta rapito fra il sangue della sua scorta a poca distanza da casa, mentre si recava alla Camera per la presentazione dell’ultimo governo alla cui formazione aveva Morodecisamente contribuito come presidente della Dc, si vide negata dal suo partito, per i vincoli di maggioranza col Pci, una linea duttile e umanitaria concessa invece tre anni dopo, nel 1981, senza più quei vincoli, all’assessore regionale campano Ciro Cirillo. Che fu ugualmente rapito dalle brigate rosse ma scambiato con una trattativa opaca come tutte quelle che si svolgono in questi drammatici casi. Ciò peraltro accelerò la crisi del brigatismo.

Falcone fu ucciso dalla mafia dopo essere stato avversato e isolato dai colleghi magistrati, boicottato nell’avanzamento di carriera, nonostante i successi conseguiti nel suo lavoro di contrasto alla criminalità organizzata. Otto mesi prima della morte, quando già aveva preferito allontanarsi da Palermo Falconeper lavorare accanto al ministro della Giustizia Claudio Martelli, a Roma, egli aveva dovuto spiegare ai consiglieri superiori della magistratura, come un apprendista poco diligente, perché avesse condotto le sue indagini sugli assassinii del presidente della regione siciliana Piersanti Mattarella e del prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa senza incriminare qualche politico o imprenditore d’alto bordo.

Tobagi, il mio carissimo amico -ripeto- Walter, col quale ero abituato a pranzare in un ristorante a Tobagi vivodue passi da Piazza Navona quando veniva a Roma per lavoro da Milano, fu ucciso dopo vergognose, a dir poco, contestazioni per la sua attività sindacale, che lo aveva portato al vertice dell’associazione lombarda dei giornalisti.

Quel gran signore e fior di professionista che è Ferruccio de Bortoli, scrivendone in questi giorni per celebrare il quarantesimo anniversario della morte, ha espresso la convinzione -almeno così mi è parso di capire- che Tobagi avrebbe potuto diventare direttore del Corriere della Sera, dov’era approdato nel 1972 dopo essere passato per l’Avanti, Avvenire e il Corriere d’Informazione, attratto dal giornalismo giù sui banchi del famoso Liceo Parini di Milano contribuendo alla vivace esperienza della Zanzara.

            Beh, non se l’abbia a male de Bortoli, arrivato alla direzione del Corriere la prima volta a 44 anni, ma non credo proprio che Walter ce l’avrebbe fatta a diventare direttore  a 33 in un giornale in cui il suo rigore professionale gli aveva procurato sì apprezzamenti ma anche invidie e odii incredibili. Ricordo ancora la voce strozzata dal pianto con la quale Bettino Craxi mi raccontò di una telefonata appena ricevuta, dopo la morte di Walter, dal direttore del Corriere Franco Di Bella in persona. Che gli aveva espresso non il sospetto ma la convinzione che Tobagi fosse stato ucciso “qui dentro”.

D’altronde, nella rivendicazione della “esecuzione” di Walter la “Brigata XXVIII marzo” capeggiata dal giovane Marco Barbone aveva usato argomenti e linguaggio di chi conosceva bene l’ambiente e la sua attività professionale e sindacale. Walter non aveva solo il torto di avere capito bene il terrorismo, considerandolo per niente invincibile, e scrivendo delle sue contraddizioni che ne avrebbero potuto segnare la fine. Aveva anche la colpa di nutrire simpatie dichiaratamente socialiste e, più in particolare, craxiane in un momento in cui il Psi tornato fortemente autonomista dava fastidio a molti.

Grazie anche a quel tipo di rivendicazione, i Carabinieri e, più in generale, gli inquirenti arrivarono rapidamente a individuare i responsabili dell’infame operazione. Barbone e i suoi amici erano figli d’ultrasinistra di papà bene introdotti nel mondo dell’informazione. E, appena preso, Barbone praticò il pentitismo parlando.

Rimasero tuttavia ombre sulla ricerca giudiziaria della verità e sulle pene troppo a buon mercato rimediate dai principali responsabili, fra le proteste di parlamentari socialisti che furono per questo denunciati dai magistrati e processati con l’autorizzazione concessa dal Parlamento grazie ai voti comunisti.

Lo spettacolo fu tale che Craxi, nel frattempo diventato presidente del Consiglio, si schierò coi suoi compagni di partito scandalizzando il Consiglio Superiore della Magistratura. Che avrebbe voluto a sua volta Craxicensurarlo, trattenuto con la sua solita energia dal presidente, e capo dello Stato, Francesco Cossiga. Il quale, pronto anche quella  volta a mandare i Carabinieri al Palazzo dei Marescialli, ricordò che un capo di governo risponde delle sue opinioni solo al Parlamento che gli ha dato la fiducia e potrebbe, se ne ha la voglia  e i numeri, ritirargliela.

Poi si sarebbe appreso che, per quanto condannati, i parlamentari socialisti non avevano avuto torto a dubitare. Fu alla fine davvero ritrovata, fra l’altro, la prova di una informazione pervenuta alle forze dell’ordine, e persasi per un certo tempo per strada, su un progetto di sequestro  di Tobagi da parte dei terroristi, per cui il giornalista poteva ben essere protetto di più.

Ah, Valter. Che peccato averti perduto così presto e così atrocemente, e non aver più potuto ascoltare le tue pacate e mai superficiali riflessioni e analisi di collega e di uomo profondamente buono.

 

 

 

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Renzi e….Palamara soccorrono Salvini nell’operazione Open Arms

                E’ difficile, molto difficile negare che abbiano pesato involontariamente quelle parolacce contro di lui intercettate nel telefonino del magistrato Luca Palamara sul voto col quale la giunta delle immunità del Senato ha protetto Matteo Salvini dal processo per sequestro di persona nella vicenda della nave spagnola Open Arms. Cui l’allora ministro dell’Interno nell’agosto dell’anno scorso, mentre Open Armsmaturava la crisi del primo governo Conte, negò l’approdo in Italia per sbarcarvi un centinaio di immigrati soccorsi in mare. Era già accaduto l’anno prima con la nave Diciotti, ma senza esiti giudiziari per il no opposto dalla maggioranza gialloverde al processo cui puntava il cosiddetto tribunale dei ministri di Catania, E si era ripetuto con la nave Gregoretti, ma questa volta col via libera al processo da parte della maggioranza nel frattempo cambiata: da gialloverde a giallorossa, col ribaltamento della posizione dei grillini.

             Per la nave Open Arms si vedrà come galleggerà il mese prossimo nell’aula del Senato “la scialuppa” indicata nel titolo di Repubblica, ma la maggioranza giallorossa questa volta si Repubblicaè spaccata in giunta, con i renziani che, non partecipando al voto, non hanno voluto bocciare il no al processo proposto dal presidente forzista della giunta Maurizio Gasparri: un no condiviso invece, oltre che dal centrodestra, dall’ex grillino Mario Michele Giarrusso e dalla grillina dissidente Alessandra Riccardi. Che pagherà cara naturalmente la condivisione della proposta di Gasparri, basata sulla convinzione tratta anche dalle carte che Salvini non agì di testa sua ma conformemente alla linea adottata dal governo per contenere l’immigrazione clandestina, trattenendo i passeggeri a bordo delle navi di soccorso sino ad una distribuzione fra vari paesi dell’Unione Europea.

              Scambiare per sequestro di persona, come ha fatto l’accusa, i ritardi calcolati degli sbarchi degli immigrati è  ragionevolmente apparso esagerato alla maggioranza creatasi questa volta nella competente giunta del Senato col concorso Il Fattodecisivo voluto da Renzi, guadagnatosi per questo dal Fatto Quotidiano l’epiteto di “palo della banda Salvini”. Ma oltre a questo ragionamento, ripeto, è valsa la sensazione diffusasi, o rafforzatasi, di una forzatura della magistratura di fronte alla necessità, evidentemente non di tipo giudiziario, sostenuta al telefonino da Luca Palamara di contrastare Salvini, in dissenso da un collega magistrato che dissentiva dall’azione intrapresa per la vicenda della nave Diciotti dal procuratore di Agrigento.

               Il troppo stroppia, dice un vecchio proverbio. E Matteo Renzi, il cui soccorso non è poi stato “muto” come manifestoha titolato il manifesto, questa volta dall’interno della maggioranza ha voluto mandare un segnale agli alleati. Magari il senatore di Scandicci e leader di Italia Viva ripiegherà in aula a Palazzo Madama su un’altra posizione anche questa volta ricompattando la maggioranza, come gli è recentemente capitato di fare sorprendendo con il no alla sfiducia persino il guardasigilli Alfonso Bonafede, che per un po’ aveva temuto il contrario, ma la situazione per ora è quanto meno incerta.

               Il malumore fra i grillini è particolarmente alto, anche per il sospetto forse fondato che sarà ben difficile strappare al presidente del Consiglio un’esposizione davvero sopra le righe per soddisfare le loro attese tutte tattiche e d’immagine, dopo essere già disinvoltamente passati fra le vicende pur analoghe Rollidella nave Diciotti alla nave Gregoretti da una posizione favorevole a Salvini a quella opposta. Non parliamo poi dell’imbarazzo in cui si trova il Pd di fronte alla linea garantista assunta dal suo ex segretario Renzi fra i ringraziamenti del leader leghista.

 

 

 

 

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Come al Fatto Quotidiano trattano Sergio Mattarella e congiunti scomparsi

              Relegata a pagina 10 nella sua rinnovata veste grafica col riconoscimento del “diritto di replica”, e senza la qualifica dell’autore, che è l’avvocato Antonio Coppola, legale della famiglia del presidente della Repubblica, una lettera ha Il Fatto su Mattarellanuovamente messo a nudo, come tre anni fa, il singolare modo del  Fatto Quotidiano di trattare il capo dello Stato e i suoi congiunti purtroppo morti, incapaci materialmente di difendersi da soli, e direttamente.

            In particolare, l’avvocato Coppola, come aveva già fatto esattamente il 24 maggio 2017 a proposito del medesimo materiale -altro che “inedito”- del Consiglio Superiore della Magistratura adoperato dal Fatto Quotidiano  in occasione della ricorrenza della strage mafiosa di Capaci, costata Mattarella uccisola vita a Giovanni Falcone, alla moglie e a quasi tutta la scorta, ha protestato contro il tentativo di usare una deposizione dello stesso Falcone a quel consesso per rappresentare due edizioni, diciamo così, del compianto Piersanti Mattarella. Che da presidente della regione Sicilia fu assassinato sotto casa il giorno della Befana del 1980, in auto.

            Secondo quella deposizione, fatta nell’ottobre del 1991 per difendersi dai sospetti odiosi di non avere saputo o voluto indagare abbastanza a fondo su quel delitto e su altro ancora, Piersanti Mattarella era sollevato e orgoglioso di essersi “sbarazzato” dei voti a lungo raccolti dal padre, Bernardo, nel collegio  trapanese di Castellammare del Golfo. Diversamente dal genitore, egli si sarebbe  fatto votare via via di più in un’altra parte dell’isola, di minore densità mafiosa: non proprio un elogio, direi, per il padre. Che era stato un autorevolissimo esponente della Democrazia Cristiana siciliana e nazionale, iscritto al Partito Popolare di don Luigi Sturzo già nel 1924 e ministro, nella cosiddetta prima Repubblica, di governi come quelli di Alcide De Gasperi e  di Aldo Moro.

            L’avvocato Coppola è tornato a ricordare al Fatto –ripeto, come tre anni fa- che Piersanti Mattarella non ripudiò un bel niente del padre perché non gli capitò mai di candidarsi, a nessun livello, nel Trapanese, ma sempre e solo a Palermo.

            Come ha risposto Il Fatto con le iniziali di Antonio Massari, autore dell’articolo rievocativo della deposizione di Falcone, nella replica alla “doverosa” pubblicazione della lettera dell’avvocato? Come tre anni fa, senza quindi far tesoro del precedente passaggio: invitando in pratica l’avvocato a prendersela col compianto Falcone. Che ritenne nel 1991 di raccontare quello che gli aveva riferito un avvocato -Antonino Sorgi, padre dell’editorialista della Stampa Marcello- che stimava molto e che gliene aveva parlato evocando parole e pensieri raccolti dall’amico Piersanti Mattarella poco tempo prima della  morte.

            Fra tre anni o anche prima si replicherà, viste le abitudini del Fatto, ma anche l’ostinazione con la quale giustamente Sergio Mattarella difende la memoria dei suoi congiunti rappresentata con curiosa coincidenza in modo  alquanto approssimativo, a dir poco, ogni volta che il presidente della Repubblica è chiamato a gestire passaggi politici particolarmente difficili per il Paese. Non scrivo altro e di più perché a buon intenditore dovrebbero bastare poche parole.

Bonafede canta “Come prima, più di prima” al Ministero della Giustizia

            Ingenuo e un po’ anche sadico, lo ammetto, mi accingevo a godermi lo spettacolo del ministro grillino della Giustizia RepubblicaAlfonso Bonafede costretto dalle circostanze del palamavirus -cioè dalle intercettazioni di Luca Palamara- ad affrontare la crisi di una magistratura che “ha perso l’onore”, come ha titolato con un pur richiamino di prima pagina la Repubblica.

             Mi sembrava impostata ad una certa fermezza la decisione appena annunciata appunto dal guardasigilli di riportare in testa alle urgenze della giustizia la riforma del Consiglio Superiore della Magistratura. Dove ci vuole Giannelliun bel coraggio a sostenere ancora -come ha fatto proprio su Repubblica un troppo indulgente, stavolta, Armando Spataro- che le correnti delle toghe hanno conservato la natura di “luoghi di aggregazione ideale e culturale”, e non siano invece diventate terreni per scorribande di potere e commistioni politiche. Così le ha giustamente immaginate e rappresentate sulla prima pagina del Corriere della Sera Emilio Giannelli nella vignetta dedicata appunto al Consiglio Superiore.

            E’ durata lo spazio di una notte, o quasi, l’illusione di un Bonafede deciso davvero ad applicare un po’ del suo giustizialismo, una volta tanto, anche ai magistrati, e non solo agli indagati di turno che per il solo fatto di essere sospettati di qualche reato dovrebbero dimettersi dalle cariche pubbliche che eventualmente ricoprono.  Al guardasigilli piace evidentemente la vecchia e popolarissima canzone “Come prima più di prima”, decollata con la voce di Tony Dallara più di mezzo secolo fa. Bonafede ce l’ha a sua insaputa riproposta decidendo di sostituire con un altro magistrato quello che ha appena dimissionato come suo capo di Gabinetto per averne scoperto il contagio incidentale da palamavirus.

            Non ho nulla di personale, naturalmente, per la degnissima persona di Raffaele Piccirillo, già passato per gli uffici del Ministero della Giustizia, e di cui il guardasigilli ha chiesto al Consiglio Raffaele PiccirilloSuperiore il ricollocamento fuori ruolo, come si dice, per spostarlo dalla Cassazione al posto di suo capo di Gabinetto. Mi chiedo se non fosse stata invece questa l’occasione buona per mandare un segnale di “discontinuità” rispetto all’abitudine di imbottire di magistrati i piani superiori, chiamiamoli così, del dicastero di via Arenula. Dove, volenti o nolenti, essi si trovano in condizioni di potenziale conflitto d’interessi. E fanno in quel Ministero il bello e il cattivo tempo ben più del titolare nominato dal presidente della Repubblica, fiduciato in Parlamento con tutto il governo e sfiduciabile dal 1996, per decisione della Corte Costituzionale, anche a titolo “individuale”.

            Dubito, francamente, dopo questa mossa che Bonafede voglia e possa andare molto lontano nel proposito dichiarato di cambiare pagina, come l’anno scorso disse del e al Consiglio Superiore della Magistratura anche il presidente Sergio Mattarella ai primi effluvi del caso Il FattoPalamara, e della gestione Travagllodelle nomine giudiziarie. Temo, piuttosto, che il guardasigilli finirà ancora una volta per riconoscersi nei giudizi di Marco Travaglio. Che ha appena avuto la disinvoltura, a dir poco, di attribuire sul suo Fatto Quotidiano graficamente rinnovato le cause del carrierismo sfrenato coltivato dalle correnti alla “controriforma” degli ex ministri della Giustizia Roberto Castelli e Clemente Mastella. Che avrebbero “gerarchizzato”, “questurizzato” e quant’altro le Procure della Repubblica demolendo l’autonomia dei sostituti procuratori e moltiplicando gli appetiti nelle corse ai vertici di quelli che sarebbero diventati “i riporti delle nebbie”. Stiano freschi con queste analisi.

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