Sono davvero ansioso di vedere se e come il presidente della Camera Roberto Fico vorrà davvero o riuscirà a
mantenere la promessa appena formulata di “non limitare l’attività dei giornalisti” con la decisione appena presa di trasformare in un’appendice dell’aula il famosissimo e adiacente Transatlantico di Montecitorio. Che è chiamato così per l’ispirazione che ebbe più di un secolo fa l’architetto Ernesto Basile progettandolo in stile liberty.
Si rischia obiettivamente in questi maledetti tempi di coronavirus di fare realizzare il sogno ricorrentemente coltivato da più parti politiche -ultima, quella proprio dei colleghi di movimento di Fico, i grillini- di allontanare da un ambiente così vasto e ormai familiare quei rompiscatole che per fortuna riescono ad essere spesso cronisti, retroscenisti, notisti e quant’altri. Che si intromettono come supposte -diceva il compianto Alfredo Covelli prendendosela, in particolare, col rimpianto, pure lui, Guido Quaranta- fra gli “onorevoli” rappresentanti del popolo sovrano santificato, almeno a parole, dal primo articolo della Costituzione della Repubblica.
Sarà difficile conciliare la promessa del presidente della Camera, spero estensibile anche all’appendice, a sua volta, del Transatlantico che è la buvette, con le 130 “postazioni” progettate per consentire ad altrettanti deputati di seguire i lavori parlamentari e di votare fuori dall’aula, evitando gli assembramenti o distanze ravvicinate vietate per ragioni di sicurezza sanitaria. L’invadenza del covid 19 è ben superiore a quella di noi poveri giornalisti alle prese con la politica.
Riconosco obiettivamente il pericolo per noi “iene dattilografe”, come una volta ci chiamò Massimo D’Alema,
nonostante l’era già dei computer e dei telefonini, di intrometterci nelle votazioni, come se potessimo finalmente entrare anche in aula, dopo che siamo riusciti qualche volta a penetrare nei comitati centrali o consigli nazionali dei vari partiti, persino contribuendo con un’alzata di mano a qualche deliberazione. Ciò capitò proprio al
mio amico Guido Quaranta all’Eur, nell’unico monolite della Dc che era la sua sede di cemento armato. Dove Guido fece quell’abuso proprio per mescolarsi meglio ai consiglieri nazionali dello scudo crociato e passare inosservato -pensate un po’- persino agli occhi di una volpe come Amintore Fanfani.
Il Transatlantico, con la maiuscola per favore, colpevolmente ignorato e disertato in questi tempi dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte e dal segretario del Pd Nicola Zingaretti, che pure hanno il diritto di passarvi pur non essendo deputati, è stato per molti politici e giornalisti il luogo o l’occasione dello svezzamento. O, peggio, della perdita dell’innocenza, sia per chi si lasciava scappare un segreto, una notizia, una malizia, sia per chi sapeva guadagnarsela e meritarsi l’elogio e la gratitudine, pur mai eterna, del direttore di turno del giornale.
In Transatlantico hanno consumato suole di scarpe fior di giornalisti e di politici, fra i quali ultimi è doveroso ricordare quello che forse ne ha consumato di più: l’ora ultranovantenne Ciriaco De Mita, che
soleva prendere sottobraccio l’interlocutore del momento per non mollarlo prima di averne conquistato, non importa se per stanchezza o convinzione, la resa ai suoi progetti politici prevalentemente arabeschi, in cui tutto entrava e usciva contemporaneamente, da sinistra e da destra. Ah, Ciriaco, quanto mi colpì quel tuo desiderio di segretario della Dc, lasciatomi avvertire a torto o a ragione, seduto su un divano del Transatlantico appunto, di vedere bocciato nel 1985 il governo di Bettino Craxi, pur affollato di ministri democristiani, nello storico referendum sui tagli alla scala mobile dei salari, tenacemente voluto dal Pci per liberarsi precocemente dello scomodissimo leader socialista. Che invece quel referendum lo vinse abbastanza alla grande, salvo che a Nusco, il paese campano di De Mita, dove i sì all’abrogazione della legge prevalsero nettamente sui no.
Fu in Transatlantico che, quasi fresco di giornalismo parlamentare, scoprii l’abitudine del mio ex professore universitario Francesco De Martino, già allora uomo eminente del Psi, di indossare calzini cortissimi. Che gli lasciavano
scoperte, seduto sui divani, gambe bianchissime e poco pelose. Descrissi la scena in un articolo di cosiddetto colore in modo tale da procurarmi la simpatia e l’amicizia di un sarcastico Sandro
Pertini. Il quale era un maniaco dell’eleganza: a tal punto che in carcere, durante il fascismo, metteva a stirare i suoi pantaloni sotto il giaciglio, e al Quirinale, da presidente della Repubblica, pipa in mano, chiese inorridito al segretario generale Tonino Maccanico dove acquistasse quelle giacche che scollavano così tanto.
Fu in Transatlantico che qualche anno dopo, mentre De Martino da segretario del Psi gestiva non ricordo più quale vertenza politica con la Dc nella gestione del centro-sinistra, il suo compagno di partito e sindacalista indimenticabile Fernando Santi mi disse: “Quello resiste sino a un momento prima di cedere”. Invece resistette sino a provocare nel 1976 le elezioni anticipate.
Fu in Transatlantico che il successore di De Martino alla guida del partito socialista, Bettino Craxi, si divertiva
a camminare di corsa, con quelle gambe già lunghe che aveva, per togliersi il gusto di vedere i giornalisti arrancare nell’inseguirlo e nel raccoglierne il solito malumore verso i comunisti. Che per troppo tempo avevano tenuto al guinzaglio, o quasi, secondo lui, i suoi compagni di partito.
Fu in Transatlantico che nel dicembre del 1971, mentre i suoi colleghi della Dc sfilavano inutilmente davanti alle urne dell’aula per l’elezione del successore di Giuseppe Saragat al Quirinale, obbligati dal partito a non votare dopo il fallimento della corsa di Fanfani, e in attesa di un accordo su un nuovo
candidato, Carlo Donat-Cattin imprecò contro l’amico assente Aldo Moro perché non voleva farsi votare senza attendere, peraltro inutilmente, l’investitura dei gruppi parlamentari scudocrociati. “Per fare i figli bisogna fottere”, gridò il leader della sinistra sociale della Dc, mentre quelli della sinistra politica, chiamata “Base”, capeggiata da “Albertino” Marcora al Nord e da De Mita al Sud, si davano da fare per spianare la strada a Giovanni Leone.
Quando i gruppi parlamentari furono finalmente chiamati a votare dall’allora segretario del partito Arnaldo Forlani proprio fra Leone e Moro, facendo peraltro capire, a sorpresa dei suoi amici fanfaniani, di
propendere per il secondo, Donat-Cattin supplicò l’allora ministro degli Esteri di farsi vedere in Transatlantico per
un minimo di campagna elettorale fra i colleghi di partito. Ma Moro, pur presente a Montecitorio, preferì starsene chiuso nell’ufficio dell’amico funzionario Tullio Ancora ad attendere i risultati della partita interna al partito. Quella scelta di “superbia” -la definì il suo e mio amico Carlo- gli sarebbe costata la candidatura per soli tre o quattro voti di scarto.
Fu in Transatlantico che, appena appresa la notizia del sequestro di Moro, la mattina del 16 marzo 1978, volle irrompere Ugo La Malfa, che pure sette anni prima ne aveva contrastato la candidatura al Quirinale, per gridare che quei “miserabbili” delle brigate rosse, nelle cui mani insanguinate era finito il presidente della Dc, meritavano il ripristino della pena di morte.
Fu in Transatlantico che nel periodo della cosiddetta solidarietà nazionale tessuta da Moro dopo le elezioni anticipate del 1976, vidi per un anno e mezzo quasi ogni mattina, di buon’ora, contrattare la giornata politica
Franco Evangelisti per conto del presidente del Consiglio Giulio Andreotti, a capo di un governo interamente democristiano, e Fernando Di Giulio per conto del capogruppo comunista Alessandro Natta, che aveva cominciato a sostenere il monocolore dall’esterno con l’astensione. Nessuno osava avvicinarsi a loro per disturbarli: neppure il vecchio giornalista Emilio Frattarelli, amico di Andreotti più dell’allora sottosegretario Evangelisti.
Fu in Transatlantico che proprio Di Giulio, chiusa una crisi di governo voluta dal segretario del Pci Enrico Berlinguer per passare dall’astensione alla fiducia su un programma vincolante e regolarmente negoziato, pochissimi giorni prima del sequestro di Moro avvisò Evangelisti che i voti comunisti non dovevano essere considerati più sicuri perché nella compagine ministeriale erano stati confermati, peraltro per volontà dello stesso Moro, due uomini contro i quali Berlinguer aveva posto il veto perché troppo dichiaratamente ostili al cosiddetto “compromesso storico”: Donat-Cattin, sempre lui, e Antonio Bisaglia. La tragedia della strage della scorta e del rapimento in via Fani spazzò via ogni resistenza.
Fu in Transatlantico che nel 1998, vent’anni dopo la morte di Moro e le dimissioni di Giovanni Leone da presidente della Repubblica, imposte alla Dc dal Pci anche o soprattutto per
essersi messo di traverso sulla strada della linea della fermezza adottata dalla maggioranza per gestire il sequestro, anche a costo della morte dell’ostaggio, Giovanni Galloni mi confidò “l’unica vergogna” che ancora provava nella sua vita. Era quella di avere comunicato a Leone come vice segretario della Dc la richiesta del partito di lasciare il Quirinale con sei mesi di anticipo rispetto alla scadenza del mandato.
Fu in Transatlantico che in quell’orribile 1978, dovendosi votare per la successione a Leone, il buon Pertini mi telefonò per chiedermi, nella redazione romana del Giornale diretto da Indro Montanelli, la disponibilità a fargli da portavoce al Quirinale, dove stava per essere eletto. Ma poi Maccanico lo convinse a scegliere il comune amico Antonio Ghirelli, rimosso per strada successivamente da Pertini per un equivoco di comunicazione scoppiato con la Dc nei giorni in cui l’allora presidente del Consiglio Francesco Cossiga rischiò di finire davanti alla Corte Costituzionale per notizie fornite all’amico e collega di partito Donat-Cattin sui guai di un figlio terrorista, Marco.
Fu alla buvette adiacente al Transatlantico che nel dicembre del 2010, mangiando insieme un toast, Silvio
Berlusconi mi confidò la voglia di ritirarsi che lo aveva preso di fronte alle “sconcezze” che erano state scritte contro di lui dopo la rottura con Gianfranco Fini. Che aveva appena finito di tentare inutilmente di rovesciarne il governo con una mozione di sfiducia elaborata, o quasi, nel suo ufficio di presidente della Camera.
Poi, nell’autunno del 2011, la crisi sarebbe arrivata lo stesso in un mezzo marasma finanziario destinato a portare a Palazzo Chigi un
professore ed ex commissario europeo promosso sul campo senatore a vita: Mario Monti. Che si è tenuto freddamente e cautamente lontano dal Transatlantico durante e dopo la sua esperienza di presidente del Consiglio. Ma potrebbe finire per votarvi se in questi tempi di coronavirus dovesse capitare alle Camere di riunirsi in seduta congiunta: scherzi del destino.
Pubblicato sul Dubbio