D’accordo, il bene non fa notizia, facendone invece il male, come scrisse una volta il compiamto Aldo Moro polemizzando sul Giorno, pur nel suo stile garbato, con Umberto Eco che si era appena aggrappato a una brutta notizia, appunto, per formulare giudizi e previsioni pessimistiche sull’Italia. Ma non bisogna esagerare, come si è invece fatto un po’ su tutti i giornali italiani riportando e commentando le “considerazioni” davvero finali di Ignazio Visco. Finali anche della sua lunga permanenza, di dodici anni, alla guida della Banca d’Italia.
Va bene che il governatore in persona, pur con un passato giovanile di boy scout, non ci ha messo molto di suo, nella mimica, per compiacersi della sorprendente capacità di crescita dimostrata dall’Italia guidata da Giorgia Meloni in sostanziale continuità con Mario Draghi, già governatore della stessa Banca d’Italia, oltre che presidente dalla Banca Centrale Europea. Ma i numeri sono più forti delle parole e della faccia di chi le pronuncia. Siamo riusciti a crescere, peraltro in un contesto internazionale alquanto difficile, più del resto dell’Europa, e persino degli Stati Uniti oltre Oceano. Ai dati di Visco si sono peraltro aggiunti quelli dell’Istat.
Eppure Repubblica ha preferito avvertire e lanciare “l’allarme” del governatore sui salari troppo bassi o sul rischio di rallentamento o di non completa realizzazione del piano di ripresa e resilienza e delle riforme.
Persino Il Giornale della ormai ex famiglia Berlusconi, ora solo partecipe della proprietà, ha arruolato Visco, nel titolo su tutta la prima pagina, nell’”opposizione surrogata” attribuendogli, in particolare, la colpa di “rubare il lavoro” alla segretaria del Pd Elly Schlein per “criticare la Meloni su salari e riforme”, appunto,
Bisogna tornare ad un altro vecchio amore giornalistico di Berlusconi, cioè al Foglio, di cui il Cavaliere favorì la nascita finanziando un Giuliano Ferrara stanco della sua prima e unica esperienza di governo come suo ministro dei rapporti col Parlamento; bisogna tornare al Foglio, dicevo, per trovare una interpretazione delle considerazioni di Visco in funzione filogovernativa. “Fermare l’Italia della lagna”, ha titolato in rosso il giornale di Ferrara spiegando, in nero, che “il manifesto sull’ottimismo di Visco è una lezione contro la politica fatta di fuffa, allarmismi e capri espiatori”. Non credo possa intendersi casuale, cioè non voluto, ogni riferimento o allusione polemica al Pd, preferito dal Foglio nelle ultime elezioni politiche, e alla sua nuova segretaria Elly Schlein, decisa a restare al suo posto anche dopo la batosta elettorale subita nelle amministrative di maggio. “Tranquilli, non me ne vado”, ha ammonito l’interessata dopo avere nervosamente chiesto a critici ed avversari di non starle “troppo addosso” per il suo esordio elettorale non proprio incoraggiante.
Il problema della segretaria del Pd dopo la batosta elettorale delle elezioni amministrative di questa disordinata primavera non è di nervi, come ha titolato Il Giornale incoraggiato dalla richiesta di Elly Schlein ai colleghi critici o preoccupati di partito di non “starle addosso”, né di guardaroba personale, come ha ironicamente proposto ai lettori del Foglio il vignettista Makkox. Che, inchiodandola alla croce della sua famosa intervista a Vogue su come si veste e si lascia consigliare per abbinare colori o stoffe, o entrambi, le fa dire: “Magari ci voleva un fresco-lana. O un caldo-cotone. Vestirsi a cipolla”. E lo stesso Makkox conclude, di suo: “E’ che col vento delle destre non sai mai cosa mettere”.
Se poi ci fosse davvero un problema di guardaroba, esso non riguarderebbe tanto la giovane segretaria ma il partito che le è stato affidato -tra interni e esterni, iscritti e non, addirittura elettori e non delle sue liste alle politiche e alle amministrative- da una maggioranza a dir poco spuria, unita più da risentimenti che sentimenti, più dalla tattica che dalla strategia. Ora la poveretta -sarebbe il caso di scrivere della Schlein sul piano politico- si trova sostenuta soprattutto dall’ex ministro Dario Franceschini. Che ha affdato a Repubblica l’invito agli amici di provenienza sia democristiana sia comunista, in quell’”amalgama mal riuscito” bollato a suo tempo da Massimo D’Alema, a non commettere “l’errore di ingabbiare Elly” nel suo poco felice esordio elettorale. E a scommettere ancora su di lei nella prospettiva delle elezioni europee dell’anno prossimo. In cui sempre Franceschini è convinto che la somma dei voti raccolti dai partiti all’opposizione sarà superiore a quella dei partiti al governo. E con questo? Ci sarebbe da chiedere all’ex ministro, il cui bacio una volta era quello della vita nella scomposizione e ricomposizione degli equilibri interni al Pd ma potrebbe essere diventato oggi quello della morte; ci sarebbe da chiedere all’ex ministro, dicevo, che valore potrà mai avere una somma di voti non concretizzabile in una maggioranza o coalizione di governo alternativa a quella in carica.
Nella sua ottimistica e perdurante scommessa sulla Schlein l’ex ministro democristiano, erede non tanto della sinistra dello scudo crociato quanto del corpaccione doroteo più forte nel trasformismo che nella chiarezza delle idee e dei programmi, sottovaluta forse l’analogia creata dai fatti -non dalla fantasia- fra la Dc che si inabissò nel 1993 perdendo i Comuni e il Pd che ha smesso o sta smettendo di essere il partito dei sindaci, d’altronde considerati da D’Alema -sempre lui- più “cacicchi” che altro. Alessandra Ghisleri sulla Stampa sostiene che il Pd continui ad essere “nei Comuni il primo partito”, ma senza candidati in grado di farsi eleggere sindaci, se non a condizione che sul posto in campagna elettorale, com’è appena accaduto a Vicenza, non si facciano vedere i dirigenti nazionali.
Questa volta gli avversari di Gorgia Meloni non possono neppure accusarla di avere esagerato mettendosi in posa fra i divani, gli stucchi, gli specchi e quant’altro di Palazzo Chigi per commentare a caldo, anzi caldissimo, la vittoria del “centrodestra” nei ballottaggi comunali di ieri. Così lei stessa ha tenuto a definire la sua coalizione, che alcuni amici di partito e analisti preferiscono chiamare “destra-centro”.
La premier è stata persino scavalcata nei giudizi sui risultati elettorali da chi la combatte. Dal “vento della destra” di Repubblica, allusivo anche a quello venuto dalla Spagna con la disfatta amministrativa del premier socialista costretto lui stesso ad alzare la posta imboccando la strada delle elezioni politiche anticipate, si passa alla Meloni che “stravince” nel titolo di apertura della Stampa.
Dalla “Caporetto della sinistra” su Domani, il giornale di Carlo De Benedetti in edizione “radicale” inteso come massimalista, si passa al “trionfo delle destre” nel titolo del Fatto Quotidiano.
Impietosamente sul Corriere della Sera l’editoriale di Roberto Gressi comincia annunciando la “doccia gelata per Elly Schlein”, che viene tuttavia graziata nel titolo dove si lamenta “la sfida mai partita” dalla nuova segretaria del Pd a Giorgia Meloni. La quale dove si presenta, trovando il tempo anche per qualche comizio fra i tanti impegni internazionali e nazionali di governo, porta voti ai suoi candidati e agli alleati. La Schlein invece, su pressante invito del candidato del Pd a sindaco di Vicenza, ha dovuto tenersi lontana dalla città per consentirgli di vincere la partita, peraltro con soli 500 voti di scarto: l’unica chiusa a vantaggio del Nazareno, entrato secondo Stefano Folli, su Repubblica, nel “nuovo anno zero”.
Il Foglio, passato notoriamente dall’originario centrodestra di “tendenza Veronica”, quando questa era ancora la moglie di Silvio Berlusconi, al centrosinistra vero o presunto del Pd di Enrico Letta e ora della Schlein, ha chiesto o raccomandato di “non esagerare” nella lettura dei risultati elettorali a favore di una destra che “un po’ più moderata piace”, mentre non piace “la fuga del Pd dai moderatismo”. Un’esagerazione deve essere probabilmente apparsa al quotidiano fondato e ancora animato da Giuliano Ferrara il rumoroso titolo del Giornale, do cui egli fu per un po’ anche editorialista, sulla “Schlein” che “rottama il Pd”. E che il vignettista Stefano Rolli sul Secolo XIX ha messo su strada a chiedere “la carità” nei panni che indossa con la consulenza di una cromatonista, o come diavolo si chiama chi l’aiuta a scegliere e abbinare stoffe e colori dei suoi abiti. Il viola quaresimale, del resto, sembra che sia fra i più preferiti da entrambe.
Più che Lucia Annunziata, lasciatasi rappresentare nei giorni scorsi sulla Stampa. di cui è editorialista, e sulla consorella Repubblica come una “prigioniera politica” della Rai, dalla quale si sarebbe dimessa irrevocabilmente per liberarsi appunto delle catene, o evitare che le diventassero più strette ai polsi e ai piedi con “TeleMeloni”, nel ruolo di prigioniero politico ho avvertito il pur assente Silvio Berlusconi nella mezz’ora in più di domenica scorsa su Rai 3. Che la conduttrice televisiva, ex direttrice di telegiornale, ex presidente dell’azienda ci ha ugualmente offerto, bontà sua, e ripeterà a offrirci per impegni contrattuali sino a fine giugno, o stagione, come si dice dei programmi in palinsesto.
Tra l’intervistato principale della puntata, l’ex presidente del Senato Pietro Grasso in veste però di ex magistrato protagonista di inchieste e processi contro la mafia, il giornalista di cronaca giudiziaria del Corriere della Sera Giovanni Bianconi e la stessa Annunziata ancora padrona di casa è stato tutto un rimbalzo di domande, dubbi, supposizioni, attese sul mistero dei misteri delle stragi di mafia del biennio fatale 1992-93. Che non è, signori miei illusi dalle cronache processuali e dai tanti libri che le hanno accompagnate facendo la fortuna dei loro autori, la famosa, fantomatica trattativa fra lo Stato e la mafia, o pezzi dell’uno e dell’altra, che l’ha “fatta franca” -direbbe Pier Camillo Davigo- passando per i tre gradi di giudizio toccati ai vari inputati politici e militari usciti assolti. No, il mistero resta quello della fine delle stragi coincisa con la vittoria elettorale nel 1994 di Berlusconi, della sua Forza Italia e naturalmente del centrodestra, come se le une fossero state propedeutiche all’altra, anche se non si è mai riusciti a trovare prove o indizi sufficienti a produrre un processo vero e proprio, oltre che indagini archiviate. Ma indagini riapribili in ogni momento, ad ogni stornire di cornacchie o simili, grazie alla imprescrittibilità di certi reati. Per cui tutti rimangono appesi, nei tribunali e fuori, all’ultima allusione, all’ultimo ricatto, all’ultima intercettazione o esibizione televisiva dei personaggi più disparati, qualunque mestiere avessero fatto e facciano, dal mafioso al gelataio.
Questa rincorsa sulla strada della volta buona in cui poter vedere realizzare il sogno di tradurre un sospetto, o una convinzione, una sensazione in un’accusa finalmente stringente ha come tappe le celebrazioni delle stragi. Non a caso è sfuggito all’Annunziata di parlare di una “festa”, pur tra tanto di virgolette segnalate anche con un gesto, parlando domenica del trentesimo anniversario dell’eccidio di Firenze cui era dedicata quella parte della sua mezz’ora in più, dopo essersi occupata dell’acqua e del fango in Emilia Romagna.Se, non avendo visto e ascoltato, foste indotti a non credere, potreste verificarlo facilmente usando Replay per vedere e ascoltare, appunto, di persona.
Dove non sono arrivati vecchi e nuovi magistrati inquirenti, vecchie e nuove indagini ancora formalmente aperte potrà spingersi– ha detto o auspicato Pietro Grasso conciliando il suo vecchio mestiere e la sua nuova passione politica- l’ennesima Commissione parlamentare antimafia appena ricostituita e presieduta dalla giovane deputata di destra Chiara Colosimo, così fortemente voluta dalla leader della destra e premier in persona Giorgia Meloni. A questo proposito Grasso ha invitato insolitamente, dal punto di vista della sua parte politica, a non essere poi tanto prevenuti, potendo o dovendo essere la Colosimo giudicata sia per quello che farà sia o forse ancor più per quello che non farà. Ma farà o non farà, in particolare, che cosa o per che cosa? Evidentemente per tenere accese o spente, o spegnerle ogni volta che dovessero riaccendersi le speranze di attribuire le stragi di mafia a qualcosa di ancora più torbido e concreto del contesto, quanto meno, di cui Berlusconi avrebbe avuto bisogno per entrare in politica a vele gonfiate dalla paura e vincere la sua partita alla prima mano.
Peccato, anche per lei dal suo punto di vista naturalmente, che Lucia Annunziata abbia voluto togliersi da questa partita in futuro rinunciando al mezzuccio che pure la Rai anche di TeleMeloni, o TeleColosimo le aveva lasciato a disposizione da prigioniera politica quanto meno di lusso. Ma altre volte -va detto- Lucia, come mi permetto di chiamarla da collega con un bel po’ di anni più di lei, ha rotto e ricucito con “mamma Rai”. Se poi dovesse davvero passare alla concorrenza come un Fazio o una Littizzetto qualsiasi, alle prese col problema della loro pensione ancora ben da maturare a 58 anni ciascuno di età, o accettare da Elly Schlein la candidatura a parlamentare europea del Pd negata a suo tempo a Nicola Zingaretti, vedremo. Di certo escludo che possa toccare a lei scoprire dove sia davvero l’Araba Fenice di una Rai insieme pubblica e immune da ogni influenza, ingerenza e simili di Parlamento, al singolare e con la maiuscola, e di governi, partiti, correnti e via elencando, al plurale e al minuscolo.
Dei giornali, almeno di quelli che le hanno con lodevole abitudine in prima pagina, vedo le vignette prima ancora dei titoli, degli editoriali, degli articoli o dei richiami. A torto o a ragione, considero quell’angolo di ironia, o sarcasmo, la più spontanea espressione dell’umore, delle attese e persino della linea di una testata.
Dubito tuttavia che il pur bravo Emilio Giannelli abbia espresso le attese dei lettori del Corriere della Sera esprimendo come sua principale curiosità, a dir poco, con una felice coincidenza col giro ciclistico d’Italia appena concluso festosamente a Roma alla presenza del Capo dello Stato, quella di vedere se questa sera, a conclusione dei ballottaggi comunali e di altre elezioni locali Gorgia Meloni risulterà distante di nove punti col suo partito dichiaratamente e orgogliosamente di destra da Elly Schlein col Pd che vorrebbe essere o almeno apparire più di sinistra di quello guidato sino a poco tempo fa da Enrico Letta. Ma sono risultati elettorali pur sempre locali, per quanto importanti o significativi possano sembrare agli interessati o addetti ai lavori. E lo sono nel contesto di un carattere paradossale della situazione politica, e, più in particolare, dei rapporti fra le due donne che il caso ha voluto guidassero in questo momento il principale partito di governo, e lo stesso governo nel suo insieme, e il principale partito di opposizione.
Il direttore del Foglio Claudio Cerasa ha colto bene secondo me questo carattere alquanto paradossale della congiuntura politica indicando il problema a suo avviso principale che ha il Pd da lui tradotto negli “amici della sinistra non così ostili a Meloni”. “Gli abbracci con il Papa. La mano di Biden. L’apprezzamento di alcuni dirigenti del Pd. Le continue tresche del Movimento 5 Stelle. Più Schlein accusa il governo di essere irresponsabile -ha scritto Cerasa nel titolo- più le icone della sinistra dicono l’opposto. Indagine su un cortocircuito”.
Prendete il caso del piano di ripresa, resilienza e quant’altro oggetto di esame e di contoversie a livello nazionale ed europeo per svariate ragioni. Proprio oggi il Corriere della Sera può titolare sulla “lite sul Pnrr” e Il Giornale più ottimisticamente, in base alle stesse notizie o agli stessi elementi di giudizio, sul “caso chiuso”, e con la evidenza del colore rosso.
Se non vi convince o non vi basta, prendete il caso del commissario straordinario da nominare per la ricostruzione nelle zone alluvionate. I partiti della maggioranza sono riusciti a incartarsi così tanto da fare retrocedere la politica e inseguire ora il solito generale, magari il bravo Francesco Paolo Figliuolo sperimentato dal governo di Mario Draghi con il Covid.
Può infine accadere nel nostro Bel Paese in buona parte alluvionato che dei bontemponi decidano e possano divertirsi con l’acqua colorando di un verde fosforescente quella della laguna di Venezia, come di nero le acque delle fontane di Roma.
Chi conosce bene Sergio Mattarella, e ha potuto continuare a frequentarlo anche dopo la sua elezione e conferma al Quirinale, mi assicura che l’istinto del presidente della Repubblica è stato quello di correre subito nell’Emilia Romagna devastata dall’acqua e dal fango, come ogni volta e in ogni parte d’Italia si vivano sciagure. Ma a trattenerlo, e fargli fissare per martedì prossimo il viaggio nelle terre alluvionate, fra le popolazioni così duramente colpite, è stata la delusione procuratagli dalla disinvoltura degli avversari politici del governo di usare la sua corsa a Cutro, nello scorso mese di febbraio, tra le vittime e gli scampati al naufragio di 180 migranti, di cui oltre 90 morti, per contrapporre la sua tempestività alla presunta insensibilità, disumanità ed altro della presidente del Consiglio, trattenuta dalla partenza per impegni internazionali. Non per una gita di piacere.
Vista anche la coincidenza, pure questa volta, fra una sciagura interna e un impegno internazionale della premier, trattenuta dalla partecipazione al G7 prolungatasi oltre la pretesa di certi avversari di un rientro immediato, ancora più veloce di quello deciso e attuato dall’interessata, il Capo dello Stato ha evitato di prestarsi ad un’altra occasione di sciacallaggio politico. Ed ha voluto recarsi sul posto dopo non solo la presidente del Consiglio, ma anche la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen.
Quando la lotta politica scende a livelli tali da porre al presidente della Repubblica, alla sua agenda, ai suoi stessi sentimenti di solidarietà e di protezione della comunità che rappresenta al più alto dei livelli e delle garanzie costituzionali, c’è davvero da preoccuparsi. Ben più di quanto quotidianamente non accada con processi alle intenzioni del governo, a dir poco, sulla strada dell’eterno e presunto pericolo di ritorno del fascismo in Italia.
Nessun invito, avvertimento, monito e quant’altro del presidente della Repubblica in carica si è rivelato così sempre attuale come questo passaggio del primo dei due messaggi di insediamento da lui letti davanti al Parlamento, precisamente dopo il giuramento di martedì 3 febbraio 2015: “Nel linguaggio corrente si è soliti tradurre il compito del Capo dello Stato nel ruolo di un arbitro, di garante della Costituzione. E’ un’immagine efficace: all’arbitro compete la puntuale applicazione delle regole. L’arbitro deve essere e sarà imparziale”. E dopo che si erano levati “generali applausi” registrati nel resoconto della seduta e “i parlamentari levati in piedi”, sempre da resoconto, il presidente Mattarella aggiunse con preveggenza, procurandosi altri applausi non so francamente quanto sinceri, o quanto poi traditi o semplicemente disattesi: “I giocatori lo aiutino con la loro correttezza”. Sono trascorsi più di otto anni da quel giorno.
Parlare e scrivere di Silvio Berlusconi come di una Sibilla Cumana fuori sede sarebbe esagerato. Ma di certo il Cavaliere sta mandando messaggi ai naviganti della politica lasciandosi intervistare dopo l’ultima e lunga degenza in ospedale.
Va bene, per esempio, tutto ciò che sul piano affettivo si è guadagnata appunto in ospedale la giovane “moglie” Marta Fascina, come l‘ha chiamata Antonella Coppari del Quotidiano Nazionale, ma non si insinui più ch’egli ne dipenda politicamente. E che nasca appunto da questo rapporto anche la svolta impressa a ForzaItalia a favore di una maggiore sintonia, o di una minore diffidenza, nei riguardi dell’ormai più forte alleata Giorgia Meloni.
“Marta -ha confermato il quasi marito- è stata davvero il mio angelo custode. Del resto, con i suoi lunghi capelli biondi ha davvero le sembianze di un angelo. Se avessi avuto bisogno di una prova del suo amore incondizionato -ma non ne avevo alcun bisogno- l’avrei avuto in queste settimane. Ed è un amore totalmente ricambiato”. “Questo però -ha voluto precisare Berlusconi- non ha nulla a che fare con la sua passione politica”, che di solito porta chi la possiede a farne sentire peso, effetti e quant’altro su chi le sta accanto. “Marta e io -ha spiegato Berlusconi- parliamo ovviamente spesso di politica, ma sono due piani davvero distinti”. Berlusconi insomma è Berlusconi, il fondatore e leader indiscusso del suo partito, e Marta Fascina, per quanto “moglie” indicata –ripeto- dalla Coppari e deputata di seconda legislatura, eletta la prima volta in Campania e la seconda in Sicilia, è appunto Marta Fascina. La smettano dunque i malevoli a immaginarla e rappresentarla come la vera capa ormai di Forza Italia, capace di troncare o favorire ruoli e carriere altrui. Se qualcuno in Transatlantico, per esempio, la scorta per dimensione e devozione al pari di un corazziere, come mi è capitato personalmente di vedere fare al mio amico Antonio Tajani all’inizio di questa legislatura, lo fa solo per galanteria.
Anche nei rapporti con gli avversari Berlusconi ha lanciato qualche messaggio ai naviganti parlandone con la Coppari. Alla quale ha raccontato, per esempio, che fra i “tantissimi messaggi affettuosi” ricevuti fra ospedale e casa “il più inatteso”, e prevedibilmente apprezzato, è stato “quello di una figura storica molto nota della sinistra -di cui non faccio il nome per non metterlo in imbarazzo- che mi ha scritto queste parole”, nè poche né convenevoli. Eccole: “Io l’ho sempre combattuta e continuerò a combatterla. Ma la politica italiana non sarebbe la stessa se lei smettesse di occuparsene. Si aprirebbe un vuoto incolmabile per la democrazia. Per questo le auguro di tornare presto”. E lui infatti è tornato, “pronto a fare la mia parte”, ha detto. Provate ora a indovinare chi -penso fra D’Alema, Bersani, Veltroni, Prodi- sia quest’uomo di sinistra così interessato alla salute fisica e politica del Cavaliere all’interno del centrodestra, o destra-centro com’è diventato.
In un Paese sommerso in tanta parte dall’acqua e dal fango, con morti forse del tutto accertati ma con danni ancora parzialmente calcolabili, c’è abbastanza da piangere -e anche da indignarsi di tutto ciò che si poteva fare e non si è invece fatto sul piano della prevenzione- per risparmiarsi lacrime e parole di comprensione e solidarietà agli attori dell’ultima sceneggiata politica. Che Repubblica ha definito “TeleMeloni” e il manifesto “l’abbuffata”: quella che sarebbe stata appena compiuta dalla presidente del Consiglio, alleati e complici, chiamiamoli così riferendosi alle opposizioni riuscite ad occupare anch’esse poltrone, sedie e sgabelli, ma non per questo accontentatesi e perciò insorte anch’esse, ciascuna a suo modo, contro la rinnovata lottizzazione.
Nella corsa alla protesta o, peggio, al vittimismo chi si è distinto per astuzia, conquistando la maggior parte dei titoli sui giornali, è stata la giornalista Lucia Annunziata. Della quale ho francamente perso il conto di quanta parte dei suoi quasi 73 anni abbia trascorso alla Rai con gli incarichi più diversi, compreso quello di presidente dell’azienda. Anni però che lei ora sostiene di avere vissuto da “prigioniera politica”, per quanto molto ben retribuita, suppongo. E di cui si sarebbe stancata solo adesso che il turno lottizzatorio è toccato alla destra meloniana, e non più al centrosinistra, e simili, o al centrodestra di epoca berlusconiana.
Da tempo editorialista della Stampa, la collega ha avvertito la delicatezza -bisogna ammettere anche questo- di non mettersi a scrivere della propria vicenda televisiva sullo storico e autorevole giornale di Torino, che di suo le ha dedicato tuttavia un grosso titolo riconoscendole il merito di essersene andata dalla Rai “sbattendo la porta”. Ci ha pensato la consorella Repubblica, dello stesso gruppo editoriale, a rappresentare il dramma di Lucia facendo raccontare già in prima pagina da Giovanna Vitale, con tanto di virgolette nel titolo, che l’interessata “ci pensava da tempo” a smettere di “fare il prigioniero politico”, sia pure da alcuni anni solo per “mezz’ora in più” ogni domenica su Rai 3. Che Libero perfidamente ha tradotto, ora che vi ha irrevocabilmente rinunciato,, in “mezz’ora in meno”
L’Annunziata insomma non ha voluto neppure provare, per quanto appena assicurata dalla rinnovata dirigenza dell’azienda di potere disporre del suo spazio, a resistere alle pressioni e interferenze da lei previste ad opera del nuovo corso politico, e già subìte nei numerosi anni precedenti. Più che una tragedia mi sembra francamente, ripeto, una sceneggiata. Che auguro alla collega non si concluda alla maniera ipotizzata da un giornale come Il Foglio, che pure la stima tanto da essersi avvalso in passato -se non ricordo male- della sua collaborazione. “Un seggio col Pd?”, si è chiesto Il Foglio pensando al Parlamento europeo da eleggere fra un anno. D’altronde è una strada già percorsa da altre firme più o meno grandi della tv pubblica.
Nonostante o forse proprio a causa delle carinerie in programma oggi fra la presidente tedesca della Commissione Europea Ursula von der Leyen e la presidente del Consiglio italiana Gorgia Meloni, datesi appuntamento nelle terre romagnole devastate dall’acqua e dal fango non solo allo scopo -spero- di arricchire il già robusto archivio fotografico dei loro incontri, sono partite da Bruxelles le ennesime “raccomandazioni” a Roma tradottesi sui giornali più ostili al governo in bocciature e simili. C’è solo l’imbarazzo della scelta fra la bocciatura, appunto, “su tutti i fronti” gridata da Repubblica e l’elenco scelto dalla Stampa indicando, in particolare, i temi della flat tax, dell’autonomia, delle concessioni balneari e del catasto”.
Fra tutti i giornali più o meno ostili al governo ce n’è uno però che non si schiaccia sulle raccomandazioni, critiche, censure e quant’altro giunto dalla Commissione di Bruxelles. E’ Il Fatto Quotidiano, che ha declassato a “pizzini”, quelli nei quali è specializzata la mafia, i messaggi dell’Unione.
Ma la notizia, chiamiamola così, non è tanto la lettura del giornale diretto da Marco Travaglio quanto il sostanziale avallo datole dall’uomo più esperto, più pratico, più affine agli umori di Bruxelles: Mario Monti. Che proprio per questo si guadagnò in Italia due nomine, da parte dell’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, una propedeutica all’altra: senatore a vita e presidente del Consiglio.
Al nome di Monti si arrese la stessa vittima dell’operazione: Silvio Berlusconi. Che si vantò di averlo mandato lui per la prima volta da Palazzo Chigi a Bruxelles, gli passò quasi allegramente la campanella d’argento del Consiglio dei Ministri e ordinò ai suoi parlamentari di appoggiarlo, salvo passare all’opposizione alla vigilia delle elezioni politiche del 2013, pensando di poterle vincere. Mancò pochissimo che il Cavaliere ci riuscisse. A impedirglielo fu proprio Monti allestendo all’ultimo momento liste di candidati destinati a togliere voti all’ex presidente del Consiglio.
In un lungo editoriale sul Corriere della Sera Monti spiega oggi che i problemi della pur brava Giorgia Meloni a Bruxelles nascono dal permanente e “ambiguo” rifiuto della ratifica del Mes. Che non è una marca di sigarette ma quel trattato sulla riforma del fondo salva-Stati dell’Unione bloccato proprio dalle resistenze italiane. Monti pertanto consiglia alla premier, e alla sua maggioranza, di “fare anche 31 dopo avere fatto 30” per “non dilapidare la credibilità conquistata rapidamente, in Europa e nei mercati finanziari” aggiornando, diciamo così, le originarie ricette economiche, sovraniste eccetera della destra. Dai, Giorgia, fai anche questo passo, è il ragionamento di Monti. Se poi il governo di turno dell’Italia -di un turno questa volta destinato a durare molto più del solito- non ritiene conveniente, a torto o a ragione, quel meccanismo speciale di ricorso a prestiti comunitari, può difendersene non ricorrendovi.
Come al mitico marziano a Roma raccontato nel 1954 da Ennio Flaiano per la reciproca assuefazione fra l’alieno e la città, dove alla fine lui circolava nella indifferenza generale, senza stupire nessuno e stupirsi di niente, così è appena accaduto quasi 70 anni dopo a Beppe Grillo. Che è sceso nella Capitale dalla sua Genova -se non dalle cinque stelle con le quali ancora si chiama il movimento politico da lui fondato nel 2009- passando inosservato. Nessuno lo ha fermato per strada, nessun fotografo ha sprecato per lui uno scatto, neppure al ristorante dove Giuseppe Conte gli ha offerto -come al solito- il pranzo, o la cena, prima o dopo averlo fatto incontrare nella sede del movimento, a due passi da Montecitorio, coi “volenterosi” chiamati uno per uno all’appuntamento.
La cronaca minuziosa di questa surreale giornata romana di un Grillo clandestino nella doppia veste di garante e di consulente retribuito della comunicazione del movimento è stata offerta ai lettori dell’Unità -appena rinata coll’editore Alfredo Romeo e il direttore Piero Sansonetti, e meritevole perciò di tutti gli auguri dovuti a chi nasce o rinasce nel mondo difficile dei giornali- da un informatissimo e impertinente Giulio Seminara. Che debbo naturalmente ringraziare di avermi così rivelato le condizioni, il clima e altro ancora in cui si trova quel quasi partito, ormai, con tanto di iscrizione all’omologa anagrafe necessaria per vivere anche di quel poco o tanto di finanziamento pubblico sopravvissuto alla sua formale abolizione.
Tutto notoriamente evolve e si trasforma, secondo gli antichi insegnamenti di Eraclito, e non necessariamente in peggio come ritengono i pessimisti. Fra i quali si distinse nel 1973 l’allora segretario uscente della Dc Arnaldo Forlani parlando al congresso del suo partito degli accordi appena presi fra tutte, o quasi, le correnti negli uffici dell’allora presidente del Senato Amintore Fanfani per detronizzarlo, nonostante fosse arrivato al vertice dello scudo crociato nel 1969 come suo delfino. “Il diavolo -disse allora Forlani, concludendo un raffinato ragionamento filosofico- è colui che si trasforma”. E girò la mano destra su se stessa.
Ma torniamo alla cronaca di Seminara e ai giorni nostri. “Una fonte interna dice all’Unità- si legge ad un certo punto- che l’incontro di ieri serviva solo “per salutarci con Beppe, lasciarlo parlare un po’ di quello che gli pare per poi tornare a fare come sempre”, cioè senza di lui. Nessuna critica dell’Elevato per il deludente esito delle elezioni amministrative? “Ma cosa si deve dire? Le elezioni locali per il Movimento andavano spesso male anche quando c’era ancora lui”. Ma neanche un consiglio sulla comunicazione? “La nostra comunicazione funziona bene, con Conte siamo al 16%, la sua popolarità è in crescita e noi dobbiamo continuare così”. Anche della consulenza di Grillo, quindi, potrebbe fare a meno in via Campo Marzio.
Non so se continuando ad usare la stessa “fonte” o cambiandola, Seminara racconta poi di “un giovane parlamentare” che così “circoscrive con fare annoiato il ruolo di Beppe: “è il nostro garante e basta. Lo rivediamo con piacere ma la leadership politica è di Conte e tutti siamo con lui”. Forse soddisfatti anche che all’avvocato, professore, ex presidente del Consiglio e ora solo presidente del Movimento, con la maiuscola, manchino i problemi addirittura di Giorgia Meloni. Che “talvolta -riferisce il cronista dell’Unità, non so se in proprio o sempre riportando il pensiero e le parole di altri dell’uditorio di Grillo- si deve guardare dalle iniziative spontanee dei “vecchi” e fieri Fabio Rampelli e Ignazio La Russa”.
Sono passati ormai i tempi in cui sotto le 5 stelle uno valeva uno. E poteva anche sostenere col rispetto obbligato di tutti gli altri, come al teatro in un qualsiasi spettacolo di Grillo, che la terra sia piatta e neppure giri attorno al sole, ma sia il sole a girare attorno ad essa. Questi sono tempi invece in cui anche ex generali, colonnelli, capitani, tenenti, brigadieri e marescialli impossibilitati a tornare in Parlamento per ricandidatura negata o impedita o mancanza di voti, debbono pazientemente attendere o sperare che Conte procuri loro qualche incarico salva-vita retribuibile da quel che resta dei gruppi parlamentari pentastellati. Dove peraltro, anche per fronteggiare questa specie di soccorso agli ex però meritevoli di attenzione, le trattenute ai deputati e ai senatori sono salite da 1000 a 2000 euro mensili.
Del passaggio dei grillini nella stanza dei bottoni rimarranno ormai solo i sogni di sconfitta della povertà, i residui decrescenti del cosiddetto reddito di cittadinanza e la riduzione dei seggi parlamentari non tradottasi, curiosamente, in quella tanto promessa delle spese per il funzionamento delle Camere. Che sono soltanto meno rappresentative di prima, non meno care. Camere, infine, dove i ranghi ridotti sia della maggioranza sia delle opposizioni hanno aumentato, anziché ridurre, le difficoltà dei percorsi parlamentari delle leggi, sempre più prevalentemente costituite peraltro da conversioni dei decreti legge d’immediata applicazione adottati dal governo in un sistema infine diventato di fatto monocamerale. Generalmente ad una Camera è infatti impedito per ragioni sia di tempo sia di opportunità politica avvertita dalla maggioranza, e tollerata dalle opposizioni, di cambiare ciò che ha votato l’altra.
Questo è l’effetto o il bilancio, come preferite, dell’alluvione pentastellata della scorsa legislatura, per stare alle immagini dell’attualità romagnola, senza però la consolazione di ciò di cui si stanno dimostrando capaci la popolazione di quella terra generosa e ottimista e i volontari accorsi da vicino e da lontano.