Altro che l’anno di Berlusconi…..ma Mattarella che vi ha fatto?

Anche quest’anno, dunque, a leggere i quirinalisti che se ne sono occupati per fornire le solite anticipazioni, Sergio Mattarella avrebbe deciso di pronunciare in piedi il suo messaggio di Capodanno da trasmettere a reti unificate, pubbliche e private. Così fece l’anno scorso, ma in modo, non scontato stavolta, che le telecamere potessero riprendere anche esterni del Palazzo, come per lasciar capire di non vedere l’ora di completare il trasloco che aveva già avviato in vista della scadenza del mandato settennale. Che è già troppo lungo di suo per aspirare a cuor leggero a replicarlo, cioè a raddoppiarlo, come pure molti, anche per strada, lo sollecitavano ad accettare.

Nonostante i suoi ripetuti dinieghi, pubblici e privati, tutti ci mettemmo ad ascoltare quel discorso di un anno fa, volutamente anche di commiato, per cogliere un qualsiasi elemento che potesse fare sperare in un ripensamento del presidente. Che non arrivò anche perché nel frattempo, nella tradizionale conferenza stampa di fine anno,  il presidente del Consiglio Mario Draghi si era messo praticamente a disposizione per succedergli, da “nonno a disposizione delle istituzioni”. A quel punto un cambiamento di posizione del capo dello Stato uscente rischiava di apparire ostile all’uomo che pure lo stesso Mattarella aveva chiamato in servizio per guidare un governo dalle molteplici emergenze, anche a costo di prestarsi all’accusa, sospetto e quant’altro di “conticidio” da parte degli estimatori delll’inquilino di Palazzo Chigi imposto dai grillini e subìto prima dalla Lega di Matteo Salvini e poi dal Pd di Nicola Zingaretti. Il quale si era lasciato convincere addirittura da Matteo Renzi -pensate un pò- ancora iscritto a quel partito a disattendere l’impegno di passare per un turno di elezioni anticipate prima di allearsi col MoVimento 5 Stelle. 

Mattarella tuttavia alla fine accettò di essere rieletto, ma solo dopo che glielo aveva chiesto personalmente, direi anche disperatamente, Draghi in persona per il rischio di vedere arrivare al Quirinale chissà chi e chissà come, aggiungendo alle già troppe emergenze con le quali era alle prese il suo governo anche una di carattere istituzionale. 

Confermato al suo posto con le buone o le cattive, Mattarella non ha trascorso certamente un anno di riposo. Ed ha raddoppiato, oltre al mandato presidenziale, la sua credibilità all’’esterno e all’interno dell’Italia. Quegli interminabili applausi di ringraziamento levatisi verso di lui il 7 dicembre scorso al Teatro della Scala, più lunghi di quelli dell’anno precedente per chiedergli di lasciarsi confermare,  sono stati la manifestazione plastica -direi- della centralità che questo presidente della Repubblica ha saputo conquistarsi e meritarsi pur a Costituzione invariata, e con un governo tornato ad essere guidato da un leader, stavolta finalmente anche di genere femminile, votato dagli elettori, prima ancora che selezionato dal capo dello Stato. 

Non ha torto Stefano Folli a scrivere oggi su Repubblica di “un semipresidenzialismo di fatto”, pur negato dall’interessato per primo, che con Mattarella si sarebbe creato prima ancora che si riesca -se si riuscirà mai- a crearne uno di diritto. E ad aggiungere che “il 22 è anche l’anno di Mattarella”. Altro che l’anno di Berlusconi celebrato da Giuliano Ferrara sul Foglio con spirito di rivalsa su quanti considerano ormai consumato il quasi trentennio del Cavaliere. 

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Nessuna donna dell’anno, neppure la Meloni, ma l’uomo è ancora Berlusconi

Anche a costo di sembrare quello che non è, cioè un misogino, come apparve in una puntata televisiva di Porta a Porta nel gennaio del 2000 strapazzando a tal punto Alba Parietti da indurre il regista a togliergli il collegamento, Giuliano Ferrara non ha voluto riconoscere a Giorgia Meloni la qualifica, il ruolo e quant’altro di donna dell’anno. Neppure -o proprio, chissà- dopo averne sentito o letto i resoconti della sua prima conferenza stampa di fine anno. Che io ho apprezzato per avere saputo la premier mettere in luce, senza neppure il bisogno di denunciarlo esplicitamente, il rapporto ormai di subordinazione del Pd rispetto ai grillini -o grillozzi, come Giuliano li chiama con sarcasmo- di Giuseppe Conte. 

Pensate un pò, anche dopo che la Meloni ha confermato, rispondendo ad una delle 43 domande rivoltele in tre ore, l’accordo con il cosiddetto terzo polo per ripristinare praticamente la prescrizione nella disciplina che porta il nome dell’allora ministro piddino della Giustizia Andrea Orlando, soppressa dal pentastellato Adolfo Bonafede con una supposta introdotta in una legge di altro contenuto; anche dopo questo, lo stesso Orlando e il suo partito non hanno ritenuto di mostrarsi soddisfatti. Essi hanno, al contrario, dissentito per non compromettere ulteriormente la ripresa dell’alleanza con Conte dopo il congresso rifondativo, rigeneratore e non so cos’altro innescato al Nazareno dal segretario irrevocabilmente dimissionario Enrico Letta. Che Ferrara -ahimè- ha dichiaratamente votato nelle elezioni anticipate del 25 settembre scorso scommettendo -presumo- su un risultato non dico positivo, ma non così negativo come quello rappresentato dai sette punti di distacco dal partito della Meloni, già raddoppiati sinora nei sondaggi successivi. 

La Meloni resta, come vedremo, nella visione dello scenario politico del fondatore del Foglio “la più recente testimonianza” -ha scritto- di un fenomeno ancora più dominante dell’Italia nata dalle ceneri giudiziarie e politiche della cosiddetta Prima Repubblica. “La memoria condivisa non darà mai al Cav. quel che è suo” -dice il titolo che Ferrara credo si sia confezionato da sé per il suo intervento di giornata, ieri, su tutta la prima pagina fogliante- ma l’uomo dell’anno è lui”. 

“La verità è che il Cav. -ha spiegato e elencato Giuliano, che non a caso ne fu il primo ministro dei rapporti col Parlamento nel 1994- ci ha dato in successione: l’alternanza, di cui il governo Meloni è la più recente testimonianza, per di più femminile, comunque lo o la si giudichi e per chiunque altro si sia votato; la trasformazione del vecchio e inservibile Msi in altro, un sofisticato riciclaggio ecologico; la costituzionalizzazione della Lega, che a parte la parentesi autolesionistica del salvinismo 2018, è riuscita alla grande nelle regioni e a livello nazionale; il maggioritario, la cui quota incarnata dal governo del 1994, e sopravvissuta in tutte le leggi elettorali successive e in tutte le esperienze conosciute, ha portato il paese che amiamo a essere come adesso, una nazione europea intrisa di normalità istituzionale”. 

Una normalità -mi permetto di osservare- pretestuosamente contestata dalle ricorrenti denunce della presunta anomalia costituita da un presidente del Senato -seconda carica dello Stato- ancora orgoglioso di avere militato nel Movimento Sociale Italiano, e perciò invitato un giorno sì e l’altro pure a dimettersi. Un presidente difeso l’altro ieri da Ferrara in una  felice “stecca” da me segnalata ai lettori del Dubbio, unitamente a quella di Piero Sansonetti sul Riformista, ma in qualche modo corretta ieri in uno degli abituali  e anonimi editoriali del Foglio con l’invito a Ignazio La Russa a “contenersi” perché “il problema -spiega il titolo- non è il Msi, ma le continue esternazioni politiche poco super partes” del presidente del Senato. 

Ma torniamo a Berlusconi “uomo  dell’anno” a sorpresa per segnalare il merito riconosciutogli da Giuliano di avere anche “trasformato un’azienda in partito, spendendo parecchio per trasformare le zucche in carrozze, quando si è visto quanto sia facile, tra vini e consulenze, trasformare una carriera repubblicana in un’aziendina personale, percorso di guadagno forse meno virtuoso”. Feroce, direi, questa allusione a Massimo D’Alema: meno feroce dell’invito pur rivolto alla fine a Berlusconi a “darsi una riguardata” nei rapporti con Putin grazie anche al “vantaggio accumulato” su di lui in credibilità. Ah, questo Cavaliere, per esteso, e questi suoi estimatori dalle imprevedibili energie e fantasie, capaci di dirgli -anche questo ha scritto Ferrara- che “può continuare a sbagliare e stravagare” senza perdere il titolo dell’uomo dell’anno che sta finendo, e forse pure di quello che sta arrivando. 

Pubblicato sul Dubbio

Giorgia Meloni smaschera la subordinazione del Pd nei rapporti con Giuseppe Conte

Offuscata solo dalla notizia della morte di Pelè, il re del calcio che ha entusiasmato generazioni di ogni colore, Giorgia Meloni si è giustamente guadagnata l’apertura di tutti i giornali con la sua prima conferenza stampa di fine anno come presidente del Consiglio. Essa è durata il tempo record di tre ore, durante le quali hanno potuto fare domande 43 giornalisti. 

Le risposte della prima donna alla guida di un governo italiano, fra regime monarchico e repubblicano, sono state liquidate in rosso dal solito, immancabile Fatto Quotidiano come “le bugie di fine anno”. Non contento di questa liquidazione sommaria, Marco Travaglio si è proposto nel suo editoriale di segnalare ai lettori “la bugia più odiosa”, fra quelle della presidente del Consiglio, senza tuttavia riuscirvi perché dalla lettura le bugie sono risultate tutte più o meno ugualmente odiose, soprattutto nella genericità, indeterminatezza e quant’altro degli autori, e quindi responsabili, degli “abusi” , veri o presunti, dei vari diritti -dalle intercettazioni al reddito di cittadinanza- che andrebbero pertanto meglio disciplinati o aboliti. 

Scontatissimo, direi, da parte di un giornale come quello nel quale più si riconosce -penso- l’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte, aspirante guida dell’opposizione di sinistra per lo stato sempre più liquido o gassoso in cui si è ridotto il Pd di Enrico Letta. E ormai di chiunque dovesse riuscire a succedergli nelle primarie congressuali di febbraio fra i candidati già iscrittisi alla corsa e quelli ancora tentati dall’avventura. 

Il ritrovato avvocato pugliese “del popolo” ormai ha la vittoria a portata di mano nell’opa lanciata sul Pd reclamando un nuovo gruppo dirigente meritevole di aspirare ad una ripresa dell’alleanza con i grillini. Lo dimostra, fra l’altro, la reazione contraria, cioè succuba, giunta subito dal Pd alla conferma da parte della Meloni dell’accordo col cosiddetto terzo polo per ripristinare la prescrizione abolita, con l’esaurimento del primo grado di giudizio, per iniziativa dell’allora ministro della Giustizia pentastellata Alfonso Bonafede. Che intervenne con una supposta introdotta in una legge di tutt’altro contenuto, criticata dal Consiglio Superiore della Magistratura ma, nonostante questo, lasciata nella promulgazione dal presidente della Repubblica. Dal quale si sarebbe potuto aspettare, quanto meno, un rinvio alle Camere per un’altra valutazione consentita dalla Costituzione.

Il ritorno alla prescrizione, e l’uscita conseguente dalla “improcedibilità” escogitata dalla successiva ministra della Giustizia Marta Cartabia predisponendo la durata massima dei vari gradi di giudizio con possibilità di allungamenti, significherebbe ritorno alla disciplina della materia che porta il nome di un altro ex ministro della Giustizia: Andrea Orlando, del Pd. 

Ebbene, pur di non compromettere la ripresa di un’alleanza con i grillini, della quale lo stesso Orlando al Nazareno è tra i più impegnati sostenitori, il partito tuttora guidato da Enrico Letta -ripeto- si è schierato contro l’accordo fra il centrodestra e il terzo polo confermato dalla presidente del Consiglio. Figuratevi per gli altri aspetti -a cominciare dalla separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri- della riforma o “tagliando” della giustizia, come ha voluto definirlo la Meloni, su cui sta già lavorando l’”ottimo” -sempre parola della presidente del Consiglio- guardasigilli Carlo Nordio. 

Dalla conferenza stampa di fine anno della Meloni è uscito confermato anche il progetto costituzionale del cosiddetto presidenzialismo, anch’esso naturalmente avversato dal Pd nonostante fosse stato condiviso anni fa da una commissione bicamerale presieduta non da Silvio Berlusconi, allora capo del centrodestra a tutti gli effetti, anche per consistenza elettorale rispetto agli alleati, ma da un onorevole deputato della sinistra di nome Massino e di cognome D’Alema. 

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

L’assai curiosa gara nei soccorsi agli scafisti, piuttosto che alle loro vittime

Le posizioni estreme, si sa, sono spinte dagli eventi a toccarsi e sovrapporsi. Non deve pertanto stupire né “il pugno duro” indicato con soddisfazione da Libero nel decreto legge appena varato dal governo sui soccorsi in mare, né “la misura odiosa” sparata in un titolo da Repubblica. Che nel testo del commento di Carlo Bonini è diventata “odioso cinismo” in un crescendo di sospetti, accuse e insulti anche personali, direi, alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni. 

A causa appunto della premier e dei suoi ministri e collaboratori, a cominciare naturalmente dal prefetto che dirige il Viminale, “potremo addormentarci ogni sera sapendo che abbiamo reso la roulette russa con la vita di chi prende il mare fuggendo dalla disperazione una sfida ancora più impari”. “Che poi saperci feroci non ci avrà reso più forti è naturalmente un dettaglio”, ha aggiunto l’indignatissimo Bonini.

In un altro, precedente passaggio dello stesso commento “l’unico risultato”, se non addirittura il solo obbiettivo del provvedimento è indicato così: “svuotare il Mediterraneo di occhi e orecchie in grado di testimoniare o anche solo di provare a impedire che il nostro mare continui ad essere un immane e silenzioso cimitero di innocenti”. 

Di fronte a tanta odiosa e cinica -essa sì- rappresentazione dei fatti appare persino collusivo col governo, per reticenza o diplomazia, il titolo critico di Avvenire, il giornale dei vescovi italiani, secondo il quale adesso è “più difficile salvare” gente per mare. O quello ugualmente polemico del Riformista su “meno salvataggi, più morti”, addirittura con un un decreto “fuori legge” cui il capo dello Stato dovrebbe quindi negare la firma, per non andare pure lui a letto col rimorso di contribuire al disastro descritto da Bonini su Repubblica. 

Tutto questo si pensa, si scrive, si grida, si denuncia  perché le navi del soccorso volontario in mare -quelle delle ong, cioè organizzazioni non governative, ma battenti bandiere di paesi con tanto di governi in carica; navi che diventano per ciò stesso in mare prolungamenti dei territori nazionali- sono da ora obbligate a prestare un soccorso alla volta, illimitato nel numero di persone da imbarcare, ma non soccorsi plurimi. Che, fra l’altro, prolungherebbero le sofferenze e i pericoli dei naufraghi già raccolti perché li obbligherebbero quanto meno a una navigazione più lunga verso il porto di sbarco. Chi non dovesse ottemperare a questo obbligo non rischierebbe peraltro la galera, ma solo misure cosiddette amministrative: dalle multe al fermo e infine al sequestro della nave. 

Il non detto o il sottinteso di tutto questo -non detto neppure dai critici, e non certo per dimenticanza ma per calcolo, per non indebolire i loro argomenti contrari- è la decisione, l’intenzione, il tentativo e quant’altro di non continuare a fare praticamente gestire l’immigrazione clandestina via mare dai mercanti di carne umana: quelli che chiamiamo  “scafisti”. 

Costoro, remunerati rigorosamente in nero naturalmente, e a tariffe mai scontate, imbarcano con la forza e la disperazione gli sventurati su imbarcazioni  di fortuna, a dir poco, destinate al naufragio in acque dove -guarda caso- sono ad attenderli le navi del soccorso volontario, non governativo. Che dopo un carico ne hanno potuti fare sinora altri e poi reclamare il diritto di scaricare tutti -guarda un altro caso- in un porto esclusivamente o prevalentemente italiano. 

Se poi qualche nave dovesse per una qualsiasi ragione, o accidenti, avvicinarsi ad una costa francese e sbarcarvi i naufraghi, magari in un porto militare ben protetto da sguardi indiscreti o controlli. dovremmo affrettarci a chiedere scusa al presidente di turno a Parigi, e a farci trattare da pezzenti e delinquenti dai suoi ministri o portavoce. 

A me tutto questo sembra assurdo. E non starò lì a consumarmi nei rimorsi reclamati dai Bonini di turno. Ai quali gli scafisti non saranno naturalmente mai grati abbastanza per i soccorsi ricevuti nei loro affari. 

Ripreso da http://www.statmag.it e http://www.policymakermag.it

Le felici stecche nell’assalto al defunto Movimento Sociale in funzione anti-La Russa

Vi sono stecche- non quelle del biliardo ma quelle del cantante o di un orchestrale, o di un giornale o giornalista, che meritano l’applauso in certe circostanze. Quando servono, per esempio, a smascherare il conformismo, o il senso comune di manzoniana memoria travestito da buon senso, come ebbe una volta a dire durante il suo primo mandato al Quirinale Sergio Mattarella.  

Una stecca lodevole, per esempio, ho considerato la decisione del Corriere della Sera di confinare in una lontana pagina interna, senza un minimo richiamo in prima, il “caso” sparato invece come una bomba nell’ordinario conflitto della politica italiana da Repubblica. Sarebbe il caso di Ignazio La Russa, “la seconda carica dello Stato” sottolineata anche in una vignetta di fuoco neppure tanto metaforico, per avere “onorato” a suo modo, tutto elettronico, il defunto Movimento Sociale nel 76.mo anniversario della sua nascita, evocato dalla sottosegretaria Isabella Rauti, ex moglie di Gianni Alemanno ma soprattutto figlia di un defunto -anche lui- esponente notissimo di quel partito, per qualche tempo anche segretario. Egli aveva una concezione  molto forte, diciamo così, della militanza politica finendo anche inquisito e processato per la strage di Brescia, ma assolto su richiesta della stessa accusa. 

Si potrebbe capire il disonore sottinteso al processo mediatico sommario al presidente del Senato, ancora orgoglioso di quello che fu il suo primo partito, se il Movimento Sociale a suo tempo fosse stato dichiarato e messo fuori legge. Ma così non avvenne mai. 

Per quanto esclusi dal famoso “arco costituzionale” inventato dal compianto Ciriaco De Mita  prima ancora di diventare segretario della Dc, i missini -come venivano chiamati dirigenti e militanti di quella forza politica- ebbero rapporti con tutti, ma proprio tutti i loro avversari: a cominciare dai comunisti. Che nel 1958 non si turarono neppure il naso alla Montanelli partecipando con loro al governo regionale siciliano di Silvio Milazzo, pur di “fottere i democristiani”, come ha ricordato Giuliano Ferrara sul Foglio in un’altra stecca sul caso La Russa che merita, secondo me, un applauso. 

Giuliano, in verità, ha ricordato anche il contributo dato dai missini, in un caso persino decisivo, all’elezione di alcuni presidenti della Repubblica facendo i nomi, in particolare, di Antonio Segni e di Giovanni Leone. Ma giovane com’è con i suoi 71 anni da compiere il mese prossimo, almeno rispetto ai miei 84 appena compiuti, il fondatore del Foglio non ha potuto testimoniare sul contributo dato dai missini anche all’elezione al Quirinale di Giovanni Gronchi, nel 1955, nella successione a Luigi Einaudi. In fondo quell’operazione, attribuita come tante altre leggende a Giulio Andreotti dietro le quinte, ma non troppo, fu un improprio antipasto nazionale del milazzismo siculo. 

Non di un antipasto ma di un dessert, per questioni solo di tempo nella sequenza dei piatti, può invece considerarsi lo scrupolo col quale nel 1984 Gian Carlo Pajetta, non certo l’ultimo dei dirigenti delle Botteghe Oscure, si precipitò ad accogliere e proteggere da ogni malintenzionato il segretario missino Giorgio Almirante in arrivo per onorare la salma di Enrico Berlinguer. Erano altri uomini, oltre che altri tempi: mica quelli miserabili di adesso, in cui al Pd così malmesso com’è sulla strada di un congresso che potrebbe persino liquidarlo senza neppure rifondarlo con un altro nome, come altri vorrebbero, è venuta l’idea di rigenerarsi all’opposizione reclamando le dimissioni di La Russa da presidente del Senato perché troppo divisivo.

Ma perché -ha giustamente chiesto Piero Sansonetti sul Riformista, in un’altra stecca da applauso- il comunista Pietro Ingrao non era una figura divisiva quando fu eletto presidente della Camera, nel 1976, precedendo la meno divisiva compagna di partito Nilde Jotti?

Con tutto il suo passato all’Unità, che sta peraltro per riportare nelle edicole, Piero ha ricordato che “il Msi fu un partito vero, di massa, democratico, che diede rappresentanza all’estrema destra e al popolo nostalgico del fascismo. Diede ricchezza alla democrazia. La rese più piena. Fece grandi battaglie. Alcune, credo, giuste. Molte sbagliate e reazionarie. Le perse tutte. Non è un demerito”. 

“La Russa fascista?”, si è chiesto Piero davanti a tanto scandalo gridato per deporlo dalla seconda carica dello Stato. “Forse sì”, ha risposto con franchezza Sansonetti aggiungendo però: “Ha una storia ricca e robusta. Di combattente politico. Non nasce da una colata d’acqua fresca. Come molti leader politici di oggi. E’ una colpa? No, è un merito. L’antifascismo se esiste, è solo questo culto della libertà e della tolleranza. Verso tutti”. Come dare torto a Piero senza arrossire un pò di vergogna? Ve lo chiedo a prescindere dall’amicizia personale con lui. E per una questione culturale, prima ancora che politica.

Pubblicato sul Dubbio

La Repubblica, di carta, insorge contro La Russa e lo mette al rogo

Da corazzata della sinistra come riuscì a farla diventare il fondatore Eugenio Scalfari dissanguando di copie e giornalisti L’Unità e Paese sera, il quotidiano La Repubblica è andato via via ridimensionandosi. Lo storico sorpasso sul Corriere della Sera è ormai un lontano ricordo. Ma una certa vivacità nella rappresentazione dei fatti, ed anche una certa ambizione nel dettare la linea ad altri giornali, nel suo stesso gruppo editoriale e fuori, gli è rimasta, anche a costo di tirare la corda sino a spezzarla. Così credo gli sia capitato oggi sparando su tutta la prima pagina, come un annuncio di guerra, “un caso La Russa”: ripeto, La Russa. Non la Russia della perdurante, feroce guerra in Ucraina.

Ellekappa, la storica vignettista di Repubblica, all’anagrafe Laura Pellegrini, ha messo al rogo “la seconda carica dello Stato”, tra le fiamme del defunto Movimento Sociale, di cui ha voluto elettronicamente ricordare i 76 anni trascorsi dalla nascita alzando fascisticamente il braccio. E ispirando agli spettatori la rima tra il “falò” nel quale meriterebbe di ardere davvero e la Salò capitale della Repubblica sociale fondata da Mussolini agli ordini di Hitler. Altro, quindi, che le dimissioni reclamate dal solito, imborghesito, banale Partito Democratico: è il rogo quello che meriterebbe il presidente del Senato per essersi unito alle celebrazioni del defunto -ripeto- Movimento Sociale aperte dalla sottosegretaria Isabella Rauti. Della quale non si sa se sia più grave il cognome che porta, trasmessogli dal padre Pino, o l’amicizia della presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Che a furia di annunciare pacchie finite di qua e di là, si è vista intestare da Riccardo Mannelli, nella vignetta odierna del Fatto Quotidiano, “l’era fasciopacchiana”. Una carezza, direi, rispetto alla “cattiveria”, sempre in prima pagina, riservata al presidente del Senato e a tutto il centrodestra con queste righe: “La Russa: “Il Msi è stato il partito più democratico di tutti”. La Lega invece è il più colto e Forza Italia il più onesto”. Così  sono stati serviti pure Matteo Salvini e Silvio Berlusconi. 

Ma questa col Fatto di Marco Travaglio è l’unica sintonia visibile a occhio nudo con la mobilitazione antifascista e anti-La Russa di Repubblica. Al Corriere della Sera hanno relegato il “caso” a pagina 10 senza un rigo -dico uno- di richiamo in prima pagina. Alla Stampa invece un richiamo in prima si trova, ma abbastanza piccolo e modesto per “l’ennesima vergogna” lamentata  col supporto dell’ordine “Via dal Senato” gridato a La Russa dalla scrittrice ungherese Edith Bruck. 

Decisamente neutro nella polemica scoppiata sul presidente del Senato il richiamo sulla prima pagina del Giornale di casa Berlusconi: “La Russa ricorda la nascita del Msi. La sinistra chiede le sue dimissioni”. A suo modo più coraggioso o impegnato, come preferite, è il titolo di Libero su più di una colonna: “La Russa osa ricordare il Msi e la sinistra perde la testa”. Un titolo però da ridere rispetto a quelli culturalmente e politicamente più pesanti del Foglio e del Riformista, e alle argomentazioni, rispettivamente, del fondatore Giuliano Ferrara e del direttore Piero Sansonetti. 

“Una visione non retorica delle cose non urla allo scandalo se si ricorda la nascita del Msi”, che “fu un partito orrendo, non un movimentaccio populista”, si è autotitolato Ferrara ricordando peraltro il concorso dei voti missini all’elezione di alcuni presidenti della Repubblica.

“Antifascismo è libertà”, ha titolato Sansonetti, che sta per riportare nelle edicole l’Unità ma ha voluto lo stesso ricordare anche ai suoi ex compagni di partito che “il Msi fu un partito vero, di massa, democratico, che diede rappresentanza all’estrema destra e al popolo  nostalgico del fascismo. Diede ricchezza alla democrazia. La rese più piena. Fece grandi battaglie. Alcune, credo, giuste. Molte sbagliate e reazionarie. Le perse tutte. Non è un demerito”. Parole di Sansonetti, ripeto. 

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Il “bacio” di Dario Franceschini ad Elly Schlein nella corsa al Nazareno

Si sapeva, per carità, che Dario Franceschini fosse schierato nella corsa alla “rifondazione” del Pd con Elly Schlein. All’annuncio della cui candidatura alla segreteria del Nazareno aveva mandato in qualche modo a rappresentarlo la moglie Michela Di Base, in una manifestazione alla periferia di Roma indicativa di per sé del rifiuto di riconoscersi in un partito votato soprattutto nelle zone centrali e più ricche delle città: le famose o malfamate ztl, secondo i cultori della sinistra che se non è pauperista non è popolare, cioè non è sinistra. 

Stanco di nascondersi dietro la consorte, peraltro politica come lui, nelle cronache congressuali del Pd e intenzionato -credo- a rispondere agli attacchi sempre più frequenti dei suoi colleghi ex democristiani di lavorare per fare del Pd una sostanziale riedizione del Pci, Franceschini ha voluto spiegare in una intervista al Corriere della Sera le ragioni del suo tifo per la Schlein. 

“In questo momento -ha detto l’ex ministro della Cultura- il Pd non ha bisogno di continità e tranquillità ma di un punto di frattura……Serve un Pd più radicale nella proposta politica, più netto e coraggioso”. Non un partito che si opponga “a questa destra italiana così estrema proponendo al Paese, come troppe volte abbiamo fatto, pressappoco le stesse risposte con solo una spruzzata di giustizia sociale in più”. E, fra tutti i candidati già emersi o tentati di proporsi magari all’ultimo momento, la Sklein con i suoi 37 anni e l’immagine che avrebbe saputo crearsi più o meno clamorosamente, per esempio iscrivendosi al partito, deiscrivendosi e riscrivendosi daccapo, ma giusto per non farsi invalidare la candidatura a segretaria, sarebbe la più adatta alle esigenze del cambiamento. Di persone come lei -ha aggiunto Franceschini- “ne arriva una ogni 10 anni”.

Immagino la faccia di Pier Luigi Castagnetti a leggere queste cose, avendo appena rilasciato lo stesso Castagnetti interviste e pronunciato discorsi contro il pericolo proprio di una maggiore “radicalità” del Pd. Dove lui ed altri ex democristiani potrebbero pure rassegnarsi a restare, a dispetto dei progetti scissionistici a loro attribuiti da diversi giornali, ma non riuscendo certamente a trattenere anche i voti di tanti elettori, dopo quelli già perduti dal Pd a vantaggio di Giorgia Meloni. Che non è cresciuta negli ultimi anni solo a scapito dei suoi alleati di centrodestra. 

Ad Elly Schlein, incoraggiata in caso di vittoria congressuale a fare una rivoluzione “generazionale” cui è stata risparmiata solo la denominazione di “rottamazione” di memoria renziana, Franceschini ha riconosciuto anche la capacità quasi divinatoria di recuperare l’alleanza con Giuseppe Conte e al tempo stesso di “competere” con lui, diventato il maggiore concorrente a sinistra del Pd. Di questo benedetto Conte il suo ex ministro si vanta ancora di avere favorito l’evoluzione, dopo l’esordio come alleato della Lega di Matteo Salvini, facendolo “venire nel nostro campo”. Dove forse è diventato un pò troppo aggressivo, ma la sua competizione “può essere virtuosa”. E’ una scommessa, certo, ma scommetto a mia volta che in caso di fallimento Franceschini troverà il modo di non sentirsene responsabile, attribuendone la colpa -come faceva la buonanima di Giuseppe Saragat quando il suo partito socialdemocratico non raccoglieva i voti sperati- al “destino cinico e baro”. E si metterà subito all’opera per concorrere all’elezione di un altro segretario ancora del partito quindicenne dove lui non ha mai svolto funzioni solo contemplative. 

Non a caso alla maliziosa intervistatrice del Corriere della Sera che gli prospettava il pericolo di interrompere con l’appoggio alla Schelin l’abitudine, la tradizione e quant’altro di salire “sul carro del vincitore” nelle corse che non si sono certo sprecate al Nazareno, Franceschini ha olimpicamente risposto: “Questa volta è diverso. Sono sul carro della vincitrice”. 

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Natale in casa Pd: il presepe di Enrico Letta come quello di Luca Cupiello

Fra gli accidenti capitati ad Enrico Letta, ben di là dei suoi errori o demeriti, c’è la diabolica coincidenza fra le festività natalizie e il percorso centrale, direi, del congresso da lui ideato, almeno originariamente, per la rifondazione di un Pd pur soltanto adolescente, portando sulle spalle solo poco più di 15 anni. Rifondazione o rinascita, se preferite per stare al passo con i nostri giorni, e con la bellissima rivisitazione del Natale che ha appena appaiato Papa Francesco e Massimo Recalcati. 

Ma più che a Papa Francesco e a Massimo Recalcati il povero Letta -“l’altro Enrico”, come lui stesso ogni tanto dice immaginandosi successore del mitico Berlinguer segretario di un Pci destinato dopo tanti anni a confluire con un alto nome nel Pd- si trova ad assomigliare metaforicamente a Luca Cupiello. Si, proprio il protagonista della più celebre opera di Eduardo De Filippo, che sul letto dove si sta consumando la propria vita si dispera per il presepe che non piace alla moglie Concetta e al figlio Nennillo. Ma alla fine si dà pace lo stesso e si addormenta per sempre tra gli angeli. 

Enrico Letta, per carità, non ha né l’età né gli acciacchi di Luca Cupiello e sopravviverà al presepe che, volente o nolente, ha allestito con le figure del suo Pd, a cominciare da chi si è già candidato a succedergli alla segreteria di un partito che potrebbe addirittura chiamarsi in un altro modo. E assumere connotati così diversi, addirittura “costituenti”, da perdere per ciò stesso altri pezzi. Che potranno essere ben più consistenti di quelli in fase di recupero proprio col tipo di congresso da lui innescato con l’annuncio delle proprie, irrevocabili dimissioni. 

Mi riferisco, naturalmente, agli amici – come Enrico Letta preferirà forse chiamarli, piuttosto che compagni- fuggiti all’epoca del segretario Matteo Renzi per improvvisare al seguito di Massimo D’Alema, Per Luigi Bersani e Roberto Speranza un partitino non proprio premiato alla grande dagli elettori, per quanto ispirato anche nel nome addirittura all’articolo 1 della Costituzione approvata alla fine del lontano 1947. E’ quello che definisce l’Italia ”una Repubblica democratica fondata sul lavoro”, anche di chi non lo ha e neppure lo cerca davvero preferendo il surrogato creato orgogliosamente nel 2018 dal primo governo di Giuseppe Conte, e attribuisce “la sovranità al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.

Più quelli autonominatisi “Articolo 1”, fra i quali sino a qualche giorno fa l’ex eurodeputato Pier Antonio Panzeri, del quale non dirò altro da buon garantista in attesa della conclusione della vicenda giudiziaria nota come Qatargate, si sentono già tornati a casa nel Pd, o come diavolo finirà per chiamarsi, più personalità come Pierluigi Castagnetti, Giuseppe Fioroni, Arturo Parisi e Luigi Zanda, in ordine rigorosamente alfabetico, accomunati dalla provenienza democristiana, si sentono non dico fuori ma quanto meno a disagio. 

Zanda, per esempio, già portavoce di Francesco Cossiga al Viminale, capogruppo del Pd al Senato e tesoriere del Nazareno, si è prudentemente e pubblicamente dimesso dal comitato di ottanta e più benemeriti creato, lungo il percorso congressuale, per riscrivere la carta dei valori e simili del Pd, non valendo più evidentemente quella scritta nel 2007 a quattro mani, secondo la ricostruzione di Castagnetti, da Piero Scoppola per conto della componente post-democristiana e da Alfredo Reichlin per conto della componente post-comunista della formazione politica destinata ad essere guidata per primo da Walter Veltroni. 

Accusato di progettare una scissione del Pd per una sua recente intervista polemica alla Stampa, e successive ad altri giornali, e per un intervento ad un convegno di ex popolari, come per un pò vollero chiamarsi i democristiani dopo l’archiviazione dello scudo crociato negli anni di Tangentopoli e della fine della cosiddetta Prima Repubblica, Castagnetti si è difeso con un monito, secondo me, peggiore di un rifiuto personale di restare in un partito che dovesse cambiare i propri connotati. Egli ha praticamente avvertito che, per quanta pazienza personale potrà continuare ad avere restando, non foss’altro -penso- per allontanare il sospetto già da qualcuno ventilato, per i suoi rapporti di amicizia e di frequentazione di Sergio Mattarella, che ne rifletta l’opinione anche su questo problema; egli ha avvertito, ripeto, che  saranno gli elettori di provenienza democristiana e di convinta fede cattolica a smettere di votare per il Pd, o come vorranno chiamarlo quelli che non si riconoscono più neppure nel suo nome troppo americanizzato e liberista. 

D’altronde, lo stesso Castagnetti fra le varie doglianze espresse a carico dei dirigenti uscenti del partito del Nazareno ha inserito anche la domanda se non fosse il caso di chiedersi se e per quali motivi alcuni dei milioni di voti perduti nel Pd in questi ultimi anni, specie dopo le tante energie sprecate a favore di Giuseppe Conte come “punto di riferimento dei progressisti”, siano andati non a ingrossare il partito ormai maggioritario delle astensioni, né a sopperire alle perdite dei grillini guidati dall’ex presidente del Consiglio, ma più semplicemente e concretamente a far salire nel firmamento politico la stella della orgogliosamente cristiana Giorgia Meloni.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it

In ricordo di Franco Frattini, e dei torti ricevuti in politica

Franco Frattini, il presidente del Consiglio di Stato morto prematuramente di tumore all’età di 65 anni fra il cordoglio generale e meritatissimo, a cominciare da quello del presidente della Repubblica, è il penultimo di una lunga lista di persone perbene onorate solo da estinte. Penultimo, perché questa maledetta lista è sempre provvisoria. 

Non più tardi di un anno fa, proprio di questi tempi, il suo nome compariva ogni tanto tra i possibili candidati al Quirinale per la successione a Sergio Mattarella. Che era ancora contrario ad ogni appello a restare, anche quando si levava dalle piazze, diciamo così, e non solo dal pubblico dei teatri o dagli ospiti di turno delle sale del Palazzo della Presidenza della Repubblica. 

Ma ogni volta che il none di Frattini compariva nelle cronache della corsa al vertice dello Stato si facevano spallucce, a sinistra ma anche a destra, come se egli fosse un intruso, o un uomo dalle smodate ambizioni personali, visto che proprio in quei giorni lui stava scalando anche il vertice del Consiglio di Stato. Dove era tornato da magistrato dopo le delusioni -diciamo la verità- procurategli dalla politica. 

Per ricordare, delle delusioni, solo la penultima -anche quella- gli capitò da ministro degli Esteri dell’ultimo governo di Silvio Berlusconi, che ieri naturalmente si è speso in elogi e rimpianti, di essere commiserato dall’ambasciatore degli Stati Uniti in Italia Ronald Spogli. Che nel 2008 in un cablogramma al Dipartimento di Stato finito dopo molti anni sui giornali rivelò “i rifiuti costanti di Berlusconi dei consigli strategici” del titolare della Farnesina. Che pertanto viveva, già pochi mesi dopo la nomina a ministro degli Esteri, “demoralizzato, privo si risorse e sempre più irrilevante”. Parole, ripeto, dell’ambasciatore americano in Italia, ai tempi di Bush.

Ciò dovette contribuire non poco, e giustamente, a spingere Frattini fuori dal partito di Berlusconi quando se ne presentò l’occasione: dopo cinque anni, allorché il pur senatore a vita Mario Monti, succeduto al Cavaliere a Palazzo Chigi nell’autunno del 2011, s’improvvisò attore della campagna elettorale del 2013 con le liste della cosiddetta “Scelta civica”. Bastò la simpatia espressa per Monti perché si riversassero sull’ex ministro degli Esteri da parte dei fedelissimi del Cavaliere le solite accuse di traditore, ingrato e simili.  

Fra tutte le cariche ricoperte da Frattini nella parte politica e culturale della sua esperienza umana, in Italia e in Europa, in Parlamento e fuori, credo che due -la prima e l’ultima- gli fossero rimaste davvero nel cuore: la segreteria della federazione giovanile socialista e la presidenza della Fondazione Alcide De Gasperi. E aveva tutti i motivi, il buon Franco Frattini, per esserne orgoglioso. 

Ripreso da http://www.startmag.it

L’omelia natalizia di Papa Francesco e la figuraccia di Giuseppe Conte

Non per volerla buttare volgarmente in politica, a più di tre mesi dalla conclusione della campagna elettorale per il rinnovo anticipato delle Camere, e a due da un pur limitato turno di elezioni regionali, ma nel vedere in televisione e sentire le immagini e le parole di Papa Francesco nella Basilica di San Pietro, tornata a riempirsi per la messa di Natale dopo i vuoti spettrali imposti dal Covid, non sono riuscito a togliermi dalla testa il volto fastidioso di Giuseppe Conte. E  ciò non per i “miserabili” comportamenti appena contestati all’ex presidente del Consiglio e agli altri grillini nell’aula di Montecitorio da Roberto Giachetti parlando del tentativo compiuto di appropriarsi di un’assai fantomatica campagna contro l’ennesimo  aumento delle indennità parlamentari, ma per la mania del ricomparso “avvocato del popolo” di attribuire le sofferenze degli umili e degli ultimi a chi gli è succeduto a Palazzo Chigi. E, nella staffetta tra Mario Draghi e Giorgia Meloni, starebbe affamando l’Italia e fomentando la devastante guerra in Ucraina con aiuti anche militari agli aggrediti. Che lui peraltro aveva originariamente approvato, come gli ha appena rinfacciato Draghi.

Con i piedi ben piantati sulla terra, sia pure costretto sempre più spesso a muoversi ormai su una sedia a rotelle, Papa Francesco non si è lasciato sfuggire neppure l’occasione della omelia natalizia per denunciare lo spettacolo così antinatalizio imposto al mondo da Putin: l’Innominato, scriverebbe di lui la buonanima di Alessandro Manzoni. Il Pontefice -ha ben sintetizzato il cronista dell’Ansa– “guarda alla mangiatoia, dove ha scelto di nascere Gesù, e associa l’immagine alla “voracità nel consumare. Perché, mentre gli animali nella stalla consumano cibo, gli uomini nel mondo. affamati di potere e di denaro, consumano pure i loro vicini, i loro fratelli. Quante guerre”. “E il pensiero -ha osservato il cronista- non può non andare all’Ucraina, alla quale il Pontefice in questo anno che sta per finire ha dedicato decine e decine di appelli”: tutti lasciati cadere nel vuoto dal despota del Cremlino, benedetto e incoraggiato a Mosca dal patriarca Cirillo. 

Grazie, Santità.  

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Blog su WordPress.com.

Su ↑