La misera fine della foto opportunity del Papa col presidente del Consiglio

            Evidentemente il troppo stroppia davvero, anche quando ci si mette il Papa. Che fino a quando ha pregato e benedetto Roma sotto la pioggia, da una Piazza San Pietro svuotata dalla paura e dalle misure di sicurezza contro il coronavirus, è finito giustamente su tutte le prime pagine dei giornali del mondo. Quando invece Libero su Conte e Papa.jpegFrancesco si è rassegnato, concesso e quant’altro al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, ricevendolo nella biblioteca del Palazzo Apostolico, è finito solo sulla prima pagina di Libero, ma solo per essere in qualche modo sfottuto col suo ospite, entrambi indisciplinati senza il metro di distanza prescritto o raccomandato in funzione anti-virus. E meno male che il Vaticano è un altro Stato, dove  nessun vigile o poliziotto ha potuto metterci becco e tentare di elevare agli eccellenti una contravvenzione.

            Per quanto montata dai telegiornali italiani, privati e pubblici, come l’evento della giornata, la ciliegina sulla torta delle curve in discesa del contagio virale, anche se con troppe bare ancora da accatastare negli ospedali per essere poi caricate sui camion militari e destinate alla tumulazione o cremazione chissà dove, l’augusta udienza concessa da Pontefice a Conte è stata letteralmente snobbata -ripeto- dalle prime pagine di quasi tutti i giornali. Persino su Avvenire, il quotidiano Avvenire.jpegdei vescovi italiani, bisognava cercare non la foto ma la notizia col classico lanternino nell’occhiello -come si dice in gergo tecnico- del titolo principale sulla “strada giusta ma dura” delle chiusure e dei vuoti disposti allo scopo di affamare il mostriciattolo che si aggira per aggredire i nostri polmoni.

            La foto del giorno, rispetto alla quale tutto il resto “è rumore”, come ha gridato l’amico più stretto del pur devoto, a suo modo, Silvio Berlusconi sul Giornale di famiglia, è stata quella della benedizione dell’arcivescovo ambrosiano Mario Delpini all’ospedale di 250 letti, anche se contro i quasi 500 annunciati in un primo momento, realizzato in soli 14 giorni nella vecchia Fiera di Milano con la consulenza prestata gratuitamente al governatore leghista della Lombardia da Guido Bertolaso. O Bertolesi, come lo ha irriso Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano raccontandone i malanni fisici precedenti anche al contagio da coronavirus che ha costretto l’ex capo della Protezione Civile al ricovero, togliendo un letto del nosocomio San Raffaele a chissà chi, forse più bisognoso e meritevole di lui. Cui doveva bastare e avanzare il rifugio trovato in Sudafrica dopo le ingiuste disavventure giudiziarie patite in Italia prima di uscirne assolto.

            “Miracolo a Milano” hanno titolato sul nuovo ospedale ambrosiano, con lo stile e quasi gli stessi caratteri del manifesto, i giornali del gruppo Monti Riffeser. Che da qualche tempo contengono anche la storica testata, milanese anch’essa, del Giorno. E’ stato un miracolo, in effetti, in un Paese Schermata 2020-03-31 alle 07.07.53.jpege persino in una regione come la Lombardia, dove l’ordinaria amministrazione è fatta solo di norme contraddittorie e paralizzanti, di ordinanze più di morte che di vita, di burocrazia asfissiante e di magistratura invasiva. Delle cui carte si è appena vendicato un incendio bruciandole purtroppo solo in parte, e risparmiandone abbastanza -hanno assicurato i solerti cronisti giudiziari- per fare soffrire ancora ingiustamente chissà quante persone con processi che ora potranno durare ancora più di prima, visto il perfido  aiuto prestato da quel dannato coronavirus alla prescrizione di rito grillino introdotto come una supposta, tra le inutili proteste e preoccupazioni persino del Consiglio Superiore della Magistratura, nella cosiddetta legge spazzacorrotti. La promessa riforma del processo penale per garantirne davvero la ragionevole durata garantita dalla Costituzione è stata anch’essa contagiata dal virus dilagante.

La cronaca di Giuseppe Conte si è fatta forse storia troppo presto

Il limite politico del pur prestigioso Ernesto Galli della Loggia, con capelli e barba semiargentata che una volta tanto non dilatano ma contengono i 78 anni che compirà in estate, sta nella sua consolidata professione di storico. Che a sua stessa insaputa, per forza di cose, come il granchio che punge la rana compromettendo il percorso verso la propria salvezza sull’altra sponda del corso d’acqua, storicizza troppo presto la cronaca politica che noi giornalisti di strada raccontiamo consumando suole di scarpa e origliando nei corridoi e dietro le porte dei palazzi del potere. Il professore poi interviene con eruditissimi editoriali finendo per innalzare ciò che scende o viceversa.  

            Ciò è successo anche sul Corriere della Sera di sabato scorso a proposito del “ruolo che verrà” per Giuseppe Conte -quello di Volturara Appula, non di Betania, come Lazzaro- dopo Articolo Galli su Conte.jpegil soccorso paradossalmente miracoloso che gli sarebbe stato prestato dall’esplosione dell’emergenza virale.  Il presidente del Consiglio faticava in effetti nella composita maggioranza giallorossa a portare avanti la verifica programmata alla fine dell’anno scorso per mettere a punto addirittura “l’agenda 2023”: quella che avrebbe dovuto portarlo alla fine ordinaria della legislatura uscita dalle urne del 2018, scavalcando la scadenza istituzionale dell’elezione del successore di Sergio Mattarella al Quirinale, nel 2022.

L’emergenza del coronavirus, che ha seminato morte al Nord dell’Italia e conati di rivolta da paura e povertà insieme al Sud, non so -francamente- sino a che punto contenibili con quei quattro miliardi e rotti di euro destinati ai sindaci perché li impieghino in assistenza e beneficenza, avrebbe tolto a Conte, secondo Galli della Loggia, tante castagne dal fuoco di una maggioranza divisa fra la crisi d’identità dei grillini e l’irrequietezza quasi endemica di Matteo Renzi. Gli avrebbe aperto non una ma due nuove prospettive. Una sarebbe quella di profittare dei problemi dei partiti alleati per metterne su uno tutto suo, come fece alla fine del 2012 un altro professore prestato alla politica, Mario Monti, stancandosene però il giorno dopo le elezioni del 2013. L’altra prospettiva sarebbe la più astuta assunzione della funzione di “padre nobile”, non quella pericolosa di “capo”, di uno dei due maggiori partiti del suo governo, o addirittura di entrambi, dando magari più tempo all’uno nei giorni pari e all’altro nei giorni dispari, ma sempre restando a Palazzo Chigi per la necessaria opera di ricostruzione economica, sociale e persino istituzionale del Paese dopo i guasti dell’epidemia virale, se non gli dovesse capitare, anche la fortuna di scalare il Quirinale passeggiando a piedi.

D’altronde, la voglia di un presidente della Repubblica con più poteri di quello attuale e dei suoi predecessori, con o senza un’elezione diretta, è cresciuta in questi ultimi tempi di emergenza. Iva anche detto che i poteri del capo dello Stato sono sempre stati fisarmonici, come dicono non a torto i costituzionalisti, secondo le circostanze e i caratteri degli inquilini del Quirinale succeduti ai Papi e ai Re.

L’inconveniente, o il guaio vero e proprio, per una visione così distaccata e storicistica del futuro di Conte visto dalla loggia dell’editorialista del Corriere della Sera deriva dal sopraggiunto arrivo sulla scena politica, con un semplice intervento sull’autorevolissimo Financial Times, dell’ex presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi. Che, conNerkel e Draghi.jpeg o senza il governo o governissimo di  vera unità nazionale immaginato, auspicato o temuto, secondo i gusti e i casi, sembra obbiettivamente avere più autorevolezza e carte da giocare, rispetto a Conte, sia per trattare e accordarsi sia per rompere Merkel e Conte.jpegcon la cancelliera tedesca Angela Merkel, e dintorni maschili e femminili, per la doppia prospettiva aperta dall’emergenza virale. Che è da una parte una Unione Europea non solo di nome o facciata, come adesso, ma anche di fatto, e dall’altra lo smontaggio o la demolizione di quel che ne resta, vista l’inadeguatezza dimostrata dai successori dei più generosi e avveduti fondatori, usciti personalmente dalla carneficina della seconda guerra con le piaghe sulla loro carne, per cui avvertirono il bisogno vitale di cambiare pagina.

Immagino l’orrore che proverebbero Konrad Adenauer, Robert Schuman, Alcide De Gasperi e Paul-Henri Spaak, non la nipote Catherine italianizzata e felicemente vivente, di fronte alle cronache odierne, tra vertici e video-conferenze, del vecchio continente paradossalmente danneggiato, anziché aiutato dalla caduta del comunismo e della churchilliana cortina di ferro.

 

 

 

Pubblicato sul Dubbio

L’umanità dei vignettisti fra gli sciacalli dell’emergenza da epidemia

            Ah, in questi tempi cupi di coronavirus – pur con le “curve calanti” che consolano scienziati veri o presunti fra un salotto televisivo e l’altro parlando della Lombardia-  ad averne nelle redazioni Coronavirus.jpegdei giornali e dintorni di amici carissimi e validissimi come Massimo Bucchi. Che ha saputo descrivere ai lettori di Repubblica come meglio non si poteva “l’Europsia” con quei due polmoni -chiamiamoli del Nord e del Sud, dei falchi e delle colombe, dei virtuosi del Baltico e dei meridionali straccioni- minacciati entrambi dal contagio ma uno dei quali soltanto meritevole di soccorso e prevenzione.

          Ad averne di vignettisti storici  e ormai in pensione con i loro quasi 90 anni di età, confinati dall’emergenza in un ballatoio come Giorgio Forattini. Che in una telefonata strappatagli dal Tempo di carta  rimpiange gli anni di intensa attività perché talmente deluso da quanti ci governano, o fanno solo opposizione, non li considera meritevoli della sua sarcastica e inventiva attenzione. Da solo, una volta egli era capace di mettere in crisi di identità, oltre che alla berlina, un potentissimo come Enrico Berlinguer in vestaglia da camera, che si accorse di essere fuori posto nella maggioranza di cosiddetta solidarietà nazionale sentendo provenire dalla strada le grida di un corteo di metalmeccanici in sciopero.

          Bucchi, per tornare a lui, di quasi dieci anni meno anziano o più giovane, come preferite, del Forattini che di fronte alla vittoria referendaria del divorzio, nel 1974, trasformò l’allora segretario della Dc Amintore Fanfani in un tappo saltato dalla bottiglia di champagne di Marco Pannella;  Bucchi, dicevo, ci aveva già regalato in questi tempi di coronavirus l’epica trasformazione di una mascherina nella bandiera dei soldati all’assalto del nemico su una collina di morti o moribondi. Erano i giorni in cui la scomparsa delle mascherine dalle farmacie, dagli ospedali, dagli ambulatori e quant’altro non aveva ancora preso la dimensione di massa, diciamo così, che in un altro momento avrebbe già fatto saltare la mosca al naso nelle Procure della Repubblica, con relativi seguiti di avvisi di garanzia, arresti e processi sommari di piazza. I tempi cambiano evidentemente, e pure le abitudini, sia pure per fortuna, verrebbe da aggiungere pensando agli abusi dei riti sommari e delle cacce alle streghe di una ventina d’anni fa, o poco più. Allora le “mani pulite” non venivano reclamate per liberarsi del mostricciatolo virale che vi era approdato.

          Anche in questo scenario surreale di paure e rimpianti Marco Travaglio sul suo Fatto Quotidiano riesce a mettersi in testa la sua corona, per restare all’immagine attuale dell’epidemia. Lo ha fatto La benszina di Travaglio.jpegspendendosi in un editoriale a favore del governo Conte contro “la benzina” e “il fuoco” di critici e avversari, peraltro incuranti del 71 per cento di gradimento recentemente assegnato al presidente del Consiglio dai sondaggi dell’istituto Demos, o del più modesto ma sempre rilevante 56 per cento di Ipsos. Che ha messo in concorrenza per la maglia nera della classifica il reggente pentastellato Vito Crimi, al 21 per cento, e il loquacissimo Matteo Renzi, al 13 per cento, pur sempre tre volte più dei voti potenziali del suo nuovo movimento.

           Per darvi un’idea di quanto Travaglio s’intenda di benzina e di fuoco, ricordo che risale solo a qualche giorno fa un suo poco edificante editoriale contro l’ex capo della Protezione Civile Guido Bertolaso, sfottuto come Bertolesi per i suoi acciacchi, e per il letto dove è finito mentre lavorava da consulente del governatore leghista della Lombardia per allestire un ospedale di emergenza antivirale.

 

 

 

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Il vento rivoltoso del Sud che ha spinto Conte a tornare nelle case italiane

            No. Contrariamente a quanto avrà pensato l’arbasiniana  casalinga di Voghera sentendo annunciare di sabato sera in televisione l’ennesima ma stavolta imprevista conferenza stampa da Palazzo Chigi, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte non ha ceduto a vanità o protagonismo. Non ha voluto cioè essere da meno del Papa, che il giorno prima aveva scioccato il mondo sotto minaccia di infezione e di morte benedicendolo da una spettrale piazza vuota e infine bagnata di San Pietro, o del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Che subito dopo, sistemandosi i capelli alla svelta, aveva voluto parlare in diretta  del coronavirus  agli italiani e a certi governanti europei -tedeschi e affini- impegnati ancora a misurare i nostri debiti prima di decidere se allargare la borsa e ad aiutarci davvero,  prima che sia “troppo tardi” anche per i loro Paesi, sotto attacco virale pure loro.

            Più realisticamente e politicamente Conte è tornato sugli schermi televisivi, affiancato a distanza sanitaria dal ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, spinto da quello che potremmo chiamare “il vento del Sud”, socialmente più minaccioso e pericoloso di quello soffiato sinora dal Nord Italia. Dove il coronavirus ha fatto più morti che nell’originaria Cina.

            A mettere le ali a Conte sono state le notizie sui primi saccheggi  meridionali da paura e povertà, gli appelli disperati dei sindaci e dei governatori, il più convinto ed efficace, pur nella sua simpatica teatralità, rimane sicuramente quello De Luca.jpegdella Campania Vincenzo De Luca, e infine le Lamorgese.jpegconferme di un ordine pubblico in pericolo giuntegli dal Viminale diretto non da un politico a caccia di voti, come poteva essere sospettato ai suoi tempi recenti il “capitano” leghista Matteo Salvini,  ma da una donna di Prefettura arrivata al vertice della sua carriera come Luciana Lamorgese.

              Il professore, aggiungendo un altro “dpcm”, acronimo di decreto del presidente del Consiglio dei Ministri, a quelli già impostigli dal vento del Nord e lamentati da fior di giuristi e costituzionalisti per la scorciatoia in cui si traducono rispetto ad altri provvedimenti che debbono affrontare le Termopoli parlamentari, ha destinato a tutti i Comuni, in anticipo rispetto alla scadenza ordinaria di maggio, 4 miliardi e 300 milioni di euro da investire, praticamente, in soccorsi alla povertà e alla rabbia. Se basteranno, con altri 400 milioni azionati diversamente, a fermare o ridurre il vento meridionale della protesta o della rivolta, al netto delle complicazioni che dovessero subentrare per la diffusione del coronavirus in terre dove gli ospedali non sono paragonabili a quelli del Nord, ed hanno anche l’inconveniente di essere devastati da folle inferocite di parenti e amici di chi vi muore dentro, lo vedremo presto.

            Temo che potremmo aspettare anche meno dei quattordici giorni accordati o presisi dalla cancelliera tedesca Merkel.jpegAngela Merkel per decidere se usare la guerra del coronavirus per costruire davvero l’Europa nello spirito solidale e davvero comunitario concepito dai suoi predecessori o per affondarla con quel nome un po’ troppo ottimista datole chiamandola Unione.

            Conte ha colto l’occasione fornitagli dalla spinta del vento del Sud per assicurare -in polemica con una sortita a sorpresa della presidente tedesca von der leyen.jpegdella Commissione di Bruxelles Ursula Von der Leyen, poi ridimensionata, e in risposta  alle poche domande di giornalisti questa volta ammesse in teleconferenza-  di non voler “passare alla storia” per uno che si è piegato al vento stavolta del Nord d’Europa, non d’Italia. Ma fra il dire e il fare, si sa, di solito c’è di mezzo il mare.   

Mattarella tra il detto e il non detto nel messaggio televisivo a sorpresa

            Premesso che a pensare male si fa peccato ma spesso s’indovina, come scherzava Giulio Andreotti parlando anche di politica, il presidente della Repubblica ha confermato il sospetto di Papa 1 .jpeguna certa delusione per le comunicazioni del capo del governo sull’emergenza virale e per il dibattito che n’è seguito in Parlamento, se ha ritenuto opportuno tornare Francesco.jpegsull’argomento con un suo inatteso messaggio televisivo. Che è peraltro arrivato immediatamente dopo il toccante appuntamento di preghiera del Papa con la piazza deserta di San Pietro e la benedizione con indulgenza plenaria.

            Di Mattarella ha giustamente colpito soprattutto la forte richiesta di una maggiore e più unitaria partecipazione dell’Unione Europea, “prima che sia troppo tardi”, alla difesa dal coronavirus e alla ricostruzione economica e sociale che dovrà seguire a questa specie di guerra. Ma il presidente non ha ripetuto quel “sennò faremo da soli” detto  in videoconferenza ai suoi colleghi europei dal presidente del Consiglio. Il quale “ha tolto la parola di bocca a Salvini”, ha osservato persino Il Fatto, che stima Conte quanto disprezza il sovranista leader della Lega.

          Tuttavia Mattarella nel suo messaggio si è appellato proprio all’opposizione, chiamandola per nome, molto più chiaramente di quanto non avesse fatto il presidente del Consiglio alle Camere. Casini al Corriere  ieri 1 .jpegD’altronde, che sul problema cruciale del rapporto col centrodestra in periodo di emergenza le cose non fossero state per niente chiarite nel dibattito prima a Montecitorio e poi a Palazzo Madama, lo aveva denunciato il senatore Pier Ferdinando Casini parlandone al Corriere della Sera. Cui aveva aveva detto, con allusioni a grillini, piddini e quant’altri, se non  a Conte in persona, che “è fuori dal mondo” chi si ritiene autosufficiente con la maggioranza giallorossa realizzatasi nella scorsa estate.

         Un altro giudizio critico sul dibattito parlamentare e sullo stesso approccio di Conte era arrivato, in una intervista ad Avvenire, da un esponente autorevole del Pd come il tesoriere ed ex capogruppo al Senato Luigi Zanda. Zanda ieri ad Avvenire.jpegIl quale, pur avendo “apprezzato la puntualità” della “descrizione dei provvedimenti del governo”, aveva osservato: “Avrei avuto piacere anche di poter cogliere una visione di prospettiva”. E aggiunto: “come ha fatto Draghi” nel suo intervento sul Financial Times, a molti apparso propedeutico, volente o nolente, alla formazione di una maggioranza e di un esecutivo, prima o poi, di quella vera e propria unità nazionale più volte evocata La blindatura di Conte.jpegdal presidente della Repubblica da quando è esplosa l’emergenza virale. Altro che “la blindatura di Conte” vista nelle parole televisive e intenzioni di Mattarella dal giornale di Marco Travaglio.

       Su questa storia di Draghi, della sua disponibilità e di quando potranno esserne utilizzati a Casini al Corriere ieri 2 peg.jpegPalazzo Chigi il prestigio internazionale e le competenze, il più esplicito è stato il già ricordato senatore della maggioranza, ed ex presidente della Camera, Casini nell’intervista al Corriere della Sera. Eccone le parole: “Sarà il presidente della Repubblica a decidere il percorso. Certo, io penso che le persone che hanno più credibilità difficilmente possano rifiutare la chiamata della patria”, chissà perché al minuscolo nel testo del Corriere.

 

 

 

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Non piace alle 5 Stelle ma cresce la voglia di spingere Draghi a Palazzo Chigi

          L’immagine ormai storica dell’allora presidente della Banca Centrale Europea tra lo sgomento e il divertito, nell’aprile del 2015, mentre una giovane contestatrice saltava sul tavolo di una sua conferenza stampa a Francoforte lanciandogli addosso coriandoli e fogli di carta, è metaforicamente sovrapponibile a quella di Mario Draghi oggi assaltato in qualche modo dai retroscena Draghi di sbieco.jpego dalle manovre politiche che lo candidano alla guida di un governo di unità nazionale in Italia per la gestione dell’emergenza virale, se questa dovesse aggravarsi anziché ridursi. O, nel caso di un fortunato superamento dell’epidemia, per la gestione dell’emergenza recessiva che le sopravviverà, quando bisognerà riparare i danni e ricostruire Draghi e Mattarella.jpegeconomicamente, socialmente e persino istituzionalmente l’Italia. I cui limiti costituzionali, legislativi e burocratici sono impietosamente emersi in queste settimane, dopo tante riforme inutilmente attese o improvvidamente affondate, come quella del 2016 targata Renzi, che avrebbe potuto quanto meno definire meglio i rapporti fra competenze, poteri e quant’altro dello Stato e delle regioni.

            La prospettiva di succedere a Giuseppe Conte, e poi forse allo stesso presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il cui mandato scadrà nel 2022, potrebbe sia lusingare sia terrorizzare Draghi: il pensionato forse più famoso, più prestigioso e più d’oro d’Italia, a “soli” 73 anni da compiere il prossimo 3 settembre.

            Il suo intervento ancora fresco di stampa sul giornale economico più autorevole in circolazione, il Finanacial Times, a proposito dell’unica strada percorribile di un forte indebitamento per fronteggiare una crisi come quella moltiplicata dall’epidemia del coronavirus, ha dato a molti l’impressione, a torto o a ragione, che Draghi, a dispetto della ritrosia manifestata Draghi e Conte.jpegalla fine del suo lavoro a Francoforte, sia interessato o disponibile all’avventura di Palazzo Chigi. Ma va detto, con onestà, che l’ex presidente della Banca CentraleDraghi accademico.jpeg Europea, anche per il tipo di giornale scelto per il suo intervento, potrebbe avere voluto solo spendere il suo peso o prestigio per spingere a livello internazionale verso una ulteriore e decisiva integrazione del vecchio continente, mancando la quale in questa emergenza virale che non riguarda solo l’Italia, anche se per ora l’ha investita di più, rischiano di saltare davvero l’euro e l’Unione, già Repubblica.jpegindebolita dall’uscita manifesto.jpegdella Gran Bretagna. I contrasti appena confermati in videoconferenza fra i capi di governo, che hanno fatto titolare a Repubblica “La brutta Europea” e al manifesto “Una crepa nel muro”, sullo sfondo della porta berlinese di Brandeburgo, fanno venire i brividi.

          Rispetto all’obiettivo superiore di un’Europa più sincera e fattualmente unita e solidale la questione politica del futuro politico di Draghi in Italia appare più forzata che reale leggendo le cronache sull’ipotesi di un suo governo. Che tuttavia -con quel titolone del Giornale della famiglia Berlusconi Il Giornale.jpegsu “Chiamate Draghi”- fa sognare gli oppositori o critici di Conte, come è emerso anche dai richiami appena fatti a lui nell’aula del Senato da Pier Ferdinando Casini e dai due Mattei -Salvini e Renzi- nella discussione sull’emergenza virale. Tremano invece i grillini, il cui ministro degli Esteri Luigi Di Maio  ha profittato della prima intervista a portata di telefono o microfono per liquidare come irrealistico e improponibile un governo diverso da quello attuale anche nello scenario economico e sociale terremotato dall’emergenza sanitaria. E il Pd di Nicola Zingaretti, Goffredo Bettini, Dario Franceschini e compagni o amici? A  capirlo e saperlo davvero….

 

 

 

 

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Conte si barrica nell’emergenza pure al Senato e i grillini provocano l’opposizione

In meno di due anni, quanti ne sono trascorsi dal festoso ma un po’ anche imbarazzato arrivo a Palazzo Chigi, più al seguito che precedendo gli allora due vice presidenti del Consiglio Luigi Di Maio e Matteo Salvini, il professore Giuseppe Conte è diventato più sicuro di sé. Ma forse un po’ troppo, visto il modo in cui ha riferito, prima alla Camera e poi al Senato, con uno stesso lungo discorso, sulla gestione dell’emergenza virale da parte del suo secondo governo. In cui egli non ha vice presidenti e ha potuto sostituire quasi dalla mattina alla sera, nella scorsa estate, la destra leghista con la sinistra in tutte le sue sfumature parlamentari.

            Il presidente del Consiglio ha affidato il giudizio sull’azione del suo governo in queste drammatiche circostanze agli “storici”. Che tuttavia ha finito per declassare citando quel passo dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni in cui si dice che “del senno di poi sono piene le fosse”. O gli archivi e le biblioteche, se preferite.

Dei Promessi Sposi manzoniani in un’altra occasione il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha preferito invece ricordare, quando neppure poteva immaginare il dramma nel quale si sarebbe trovato il Paese col coronavirus, un altro passo relativo -guarda caso- al secolo lontanissimo della peste a Milano, quando “il  buon senso c’era ma se ne stava nascosto per paura del senso comune”.

E’ proprio ispirandosi al buon senso che il capo dello Stato, ad emergenza virale esplosa, ha esortato le forze politiche a ridurre la loro conflittualità per collaborare in uno spirito di unità nazionale. E si è prodigato personalmente perché proprio alla vigilia della prima “informativa” del governo alle Camere –chiamate peraltro alla conversione dei decreti legge già varati dal Consiglio dei Ministri- una delegazione delle opposizioni di centrodestra fosse ricevuta a Palazzo Chigi.

Ebbene, dopo tanto sforzo penso che Mattarella, seguendo dal suo studio in bassa frequenza televisiva, come avviene in queste circostanze, l’intervento parlamentare di Conte, sia rimasto sorpreso dalla mancanza di un esplicito appello alle opposizioni a collaborare. Il che potrebbe avvenire o in una “cabina di regìa”, evocata da Giorgia Meloni, o a “un tavolo” evocatoCasini.jpeg a Montecitorio dal capogruppo del Pd Graziano Delrio. Al Senato invece l’ex presidente della Camera Pier Ferdinando Casini ha proposto, anzi riproposto, il ricorso ad una commissione parlamentare speciale e trimestrale per l’esame ma anche per la preparazione, rispettivamente, dei vecchi e nuovi decreti legge. Gli strumenti insomma non mancherebbero di certo. E le opposizioni si sono dette tutte disponibili a partecipare, pur senza “obbedire”, come ha avvertito la capogruppo di Forza Italia Anna Maria Bernini, o rinunciare al loro ruolo di critica, come ha riconosciuto giusto il capogruppo del Pd Andrea Marcucci parlando al Senato.

Anche all’interno della maggioranza i renziani non hanno certamente rinunciato alla loro peculiarità, sino a ricordare al governo che deve delle “scuse” agli italiani per ritardi e contraddizioni, come ha detto alla Camera l’ex ministra Maria Elena Boschi. E a prospettare, come Renzi al Senato.jpegha Salvini al Senato.jpegripetuto Renzi in persona al Senato, il ricorso ad una commissione parlamentare d’inchiesta, quando si sarà usciti dall’emergenza, per accertare cause e responsabilità di errori. Ma per adesso il partito dell’ex segretario del Pd sosterrà il governo con convinzione, suggerendogli tuttavia -lo ha fatto Renzi rivolgendosi direttamente a Conte con la formula del “caro presidente”- di seguire i consigli appena espressi da Mario Draghi sul Financial Times di spendere tutto il dovuto, senza remore per l’aumento del debito pubblico, come avviene in guerra. Lo stesso hanno fatto Casini e Matteo Salvini, spintosi quest’ultimo a ringraziare l’italiano forse oggi più famoso nel mondo.

Questi plurimi richiami all’ex presidente della Banca Centrale Europea, di un cui possibile governo di vera unità nazionale sono pieni da qualche giorno retroscena e cronache politiche, non sono forse piaciuti a Conte. Non sono certamente piaciuti ai grillini, il cui oratore al Senato, Gianluca Perilli, ha pronunciato un discorso assai duro contro le opposizioni, accusate di “ipocrisia” nella loro dichiarata disponiblità a collaborare. Gli attacchi diretti a Salvini –“monumento all’incoerenza”- e alla Meloni, avventuratasi in un salotto televisivo a definire “criminale” Conte, sono stati tali e tanti che ad un certo punto la Casellati.jpegpresidente del Senato Maria Elisabetta Casellati ha richiamato Perilli dicendogli di rivolgersi a lei, e solo a lei, come da regolamento. Ma l’importante per l’oratore grillino era avere rivendicato di fatto la trazione grillina del governo, per quanto grande sia notoriamente la crisi d’identità e d’altro ancora del Movimento 5 Stelle, fermo intanto come un paracarro, al pari della destra post-missina e della Lega, contro il  ricorso al cosiddetto fondo europeo salva-Stati.

 

 

 

Pubblicato sul Dubbio

Increscioso passo falso di Conte alla Camera sull’emergenza virale

             Giuseppe Conte in ben 50 minuti d’intervento, letto con tono monocorde nell’aula di Montecitorio rarefatta dalle misure  di sicurezza sanitaria, elencando numeri e date di tutti i provvedimenti emiciclo.jpegadottati e cercando di commessi Camera.jpeganticipare quelli che seguiranno, non ha trovato il modo e il momento di coinvolgere le opposizioni. Eppure il Capo dello Stato si era speso perché, proprio in vista delle comunicazioni al Parlamento, e non solo delle prossime misure del governo, il presidente del Consiglio incontrasse a Palazzo Chigi una delegazione del centrodestra desiderosa di dialogo.

            Volente o no, per imperizia politica o superbia, Conte ha dato l’impressione di considerare autosufficiente, anche di fronte ad un’emergenzadi Conte alla Camera 2 .jpegquesto tipo, paragonabile ad una guerra, la sua pur martoriata maggioranza giallorossa. Se n’è mostrato compiaciuto il grillino  Davide Crippa, che rappresentando il gruppo parlamentare più consistente è intervenuto per primo nella discussione. Egli tuttavia ha levato alla fine un monito al presidente del Consiglio: a non spingersi sulla strada europea, alla ricerca di aiuti, sino ad accettare il cosiddetto fondo salva-Stati.

       Su questo punto non certo secondario  la componente pentastellata della maggioranza si è trovata paradossalmente in sintonia con la destra di Giorgia Meloni. La quale, avvolta in una camicetta rossa, dopo Crippa ha gridato in aula che dietro quel fondo ci sarebbe solo la voglia della Germania e di altri paesi di intervenire tra “le macerie” procurateci dall’epidemia per “rubarci l’argenteria”.

           Il senso di autosufficienza di Conte, dichiaratamente convinto che potranno essere  solo “gli storici” a giudicarlo, è stato tale che il capogruppo del Pd Graziano Delrio gli ha chiesto di aprire “un tavolo con le opposizioni” per il prosieguo dell’emergenza. Altri hanno parlato di “cabina di regìa”

           La renziana Maria Elena Boschi, sempre dai banchi della maggioranza, ha riconosciuto Camera con Conte.jpegche il governo deve delle “scuse” per i ritardi e le contraddizioni verificatesi, spingendosi a prospettare una commissione d’inchiesta parlamentare su ritardi e inconvenienti a vari livelli. Più che con Conte, l’ex ministra si è trovata d’accordo con le critiche del leghista che l’aveva preceduta, Guido Guidesi, parlamentare peraltro della cosiddetta zona rossa della Lombardia, apprezzato da Delrio.

          Come in un pugno di mosche, è rimasta a Conte solo la soddisfazione di un intervento del deputato di Forza Italia Roberto Occhiuto inizialmente proteso a prendere una certa distanza dalle altre componenti del centrodestra. Di cui tuttavia il parlamentare azzurro ha dovuto poi condividere le proteste per il mancato appello alle opposizioni e per la costante confusione tra gli annunci del Presidente del Consiglio in queste tormentate settimane e il contenuto dei successivi provvedimenti.

        “La comunicazione è un mezzo, non può diventare un fine”, ha ammonito anche Federico Fornaro, dei liberie uguali, rivolgendosi direttamente a Conte dai banchi della maggioranza.

            Peggio, francamente, non poteva andare per il presidente del Consiglio, su cui si allunga per forza di cose l’ombra di Mario Draghi, appena tornato peraltro a farsi sentire al di fuori del Parlamento.

 

P.S.- Lo spettacolo della Camera si è ripetuto al Senato con l’aggravante di un pesante intervento del grillino Gianluca Perilli contro le opposizioni, accusate di “ipocrisia” nelle loro offerte di disponibilità a collaborare col governo. Gli attacchi sono stati così insistenti e diretti contro gli interessati che la presidente dell’assemblea lo ha dovuto interrompere per invitarlo a rivolgersi solo a lei.

 

 

 

 

 

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La sconcertante indifferenza della carta stampata verso “il caso” Bertolaso

            In attesa dell’esordio parlamentare, in ritardo, del presidente del Consiglio Giuseppe Conte sull’emergenza sanitaria, spinto verso le Camere con le buone o le cattive dalle opposizioni e dallo stesso Capo dello Stato, mi permetto di sottolineare un aspetto apparentemente solo minore del desolante spettacolo dato dal giornalismo italiano della carta stampata persino in queste pur drammatiche circostanze.

            Per “il caso” di Guido Bertolaso, definito così giustamente nella lontana pagina 11 dando notizia del coronavirus che lo ha infettato nell’esercizio dell’opera svolta fra Lombardia e Marche per potenziare le strutture e attrezzature ospedaliere, il Corriere della Sera non ha trovatoBertolaso .jpeg neppure un centimetro di spazio in prima pagina.  E neppure La Stampa, Il Secolo XIX, Libero, Il Mattino, Avvenire, Il Tempo, il Gazzettino, il manifesto, Il Riformista del mio carissimo amico Piero Sansonetti, Il Foglio, La Nazione e -temo- tutti gli altri giornali del gruppo Monti Riffeser, nonchè La Gazzetta del Mezzogiorno, forse distratta dalla notizia del dissequestro dei beni del suo editore Mario Ciancio Sanfilippo. Che è stato disposto finalmente e fortunatamente dalla Corte d’Appello di Catania dopo una rumorosa e dannosa misura preventiva di mafia

            Hanno invece avvertito il bisogno di portare in prima Repubblica 2 .jpegpagina, più o meno in vista, “il caso”- ripeto- di Guido Bertolaso la Repubblica, nel riepilogo dei fatti più significativi dal fronte dell’emergenza, Il Giornale, la Verità, Il Messaggero. Il Quotidiano del Sud e Il Dubbio.

           La sproporzione fra le due liste, ricavate dalla rassegna stampa del Senato, dice da sola quanto curiosa sia, a dir poco, la sensibilità della carta stampata in questo nostro Paese, dove c’è poi gente che cade dalle nuvole quando scopre la scomparsa progressiva delle edicole, magari solo quando perde quella sotto casa.

            In nessuno dei due elenchi ho potuto mettere Il Fatto Quotidiano perché sarei disonesto, dalla mia postazione generalmente critica o diffidente verso il giornale diretto da Marco Travaglio e fondato da Antonio Padellaro, se mi attaccassi alla mancanza di un titolo o titolino esplicito Travaglio.jpegper metterlo, diciamo così, tra gli indifferenti. Di Bertolaso o del suo caso al Fatto Quotidiano si sono occupati per due volte in prima pagina. Me ha scritto personalmente il direttore nell’editoriale, pur di attacco al solo Vittorio Feltri per il suo esasperato salvinismo, aprendolo con queste testuali parole, ironiche ma una volta tanto rispettose: “La Lombardia era perfettamente in grado di tirar su un ospedalino da 300 posti alla Fiera di Milano senza scomodare Bertolaso dal Sudafrica. Ma ora che Mister Wolf, più che creare posti letto, ne ha occupato uno, gli auguro sinceramente di guarire presto: sulla salute non si scherza”.

            Ma nella “Cattiveria” di giornata, che è una rubrichetta di prima pagina dove forse i sentimenti del Fatto diventano davvero irrefrenabili, “il caso” è trattato Il Fatto.jpegcosì: “Guido Bertolaso positivo al Coronavirus. Ora si cerca la massaggiatrice zero”. Che è un modo -ritenuto evidentemente spiritoso da quelle parti- di evocare e riproporre vicende giudiziarie dalle quali l’ex capo della Protezione Civile è tuttavia uscito assolto. Per completezza d’informazione aggiungo che al “positivo”  e “isolato” Bertolaso -isolato prima di essere ricoverato in ospedale – è dedicato un articolo di cronaca quasi asettica a pagina 4.  

 

 

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L’incontro enigmatico fra Conte e il centrodestra a Palazzo Chigi

            Non si è ben capito se più per convinzione, dopo tante telefonate senza risposta da una parte o dall’altra, o per cortesia almeno verso il capo dello Stato, intervenuto personalmente per informazione unanime a favore dell’evento, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha finalmente aperto, o riaperto, Palazzo Chigi ai rappresentanti del centrodestra, smaniosi di riferirgli personalmente e direttamente proteste, dubbi, rilievi e quant’altro sull’ultimo decreto emesso per Schermata 2020-03-24 alle 11.05.13.jpegcombattere l’epidemia da Coronavirus. “Certo, anche sul Colle, dove sono state condivise le misure prese finora, alcuni tentennamenti di troppo e qualche scelta comunicativa di Palazzo Chigi non devono essere piaciute granché”, ha scritto o avvertito il quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda.

            Perché non ci fossero dubbi sull’incontro, avvenuto naturalmente alle debite distanze, misurate -presumo- alla perfezione, con tanto di metro in meno da parte degli addetti non so se alle pulizie o alla sicurezza, è stata scattata anche qualche foto. In cui ho visto purtroppo penalizzato -almeno da quella capitatami sott’occhio- il povero Maurizio Lupi, invitato per la sigla minore del centrodestra insieme col capo della Lega Matteo Salvini, al centro del tavolo, la sorella dei Fratelli d’Italia Giorgia Meloni alla sua destra -e dove sennò- e il vice presidente di Forza Italia Antonio Tajani, già presidente del Parlamento Europeo, a sinistra.

            Un’altra cosa non si è ben capita al termine dell’incontro sponsorizzato -ripeto- dal presidente della Repubblica su richiesta esplicita dell’opposizione di centrodestra: se sia stato un fallimento o una riapertura di dialogo, confronto e com’altro lo si voglia chiamare.  Le dichiarazioni rilasciate in pubblico e in privato dai rappresentanti del centrodestra con tanto di mascherine protettive hanno lasciato aperta la porta ad entrambe le letture. Se ne vedranno gli sviluppi sul piano parlamentare, visto che il presidente del Consiglio si è deciso a riferire alle Camere, dove peraltro almeno i decreti legge -non quelli dello stesso presidente del Consiglio- debbono essere esaminati e approvati, anzi convertiti in leggi, per obbligo costituzionale inderogabile.

            Pur nell’incertezza del bilancio dell’incontro, si è comunque rilevata o confermata, a dispetto delle smentite e precisazioni che arrivano ogni volta che se ne parla, una certa differenza di tono e, direi, persino di comportamento tra Salvini e soprattutto Tajani. Il quale, d’altronde, ha pubblicamente annunciato di volersi impegnare a “spiegare” al capo della coalizione di centrodestra l’utilità di usare, di fronte alle urgenze della guerra virale, lo strumento del MES, tanto inviso all’alleato. Non si tratta naturalmente Paragone.jpegdella marca di un aperitivo prodotto a Bruxelles ma del famoso Meccanismo di Sviluppo Europeo da tempo in attesa di firma,  contrastato anche all’interno della maggioranza dai grillini per obblighi derivanti dal loro programma elettorale, sbandierato ogni giorno dal senatore non più grillino Gianluigi Paragone, espulso dal Movimento prima della guerra del Coronavirus fra le inutili proteste di solidarietà di Alessandro Di Battista, Dibba per gli amici come lui.

 

 

 

 

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