Al Foglio di Giuliano Ferrara sfottono l'”amor loro” Silvio Berlusconi

         Oddio, anche Silvio Berlusconi, “l’amor nostro”, come continuano a chiamarlo in redazione per senso di doverosa riconoscenza ricordando la generosità dalla quale deriva la nascita della loro testata, è incorso nella ironia neppure tanto leggera del Foglio, fondato da Giuliano Ferrara e da qualche anno diretto da Claudio Cerasa. Il quale, quando ne scrive o lo intervista, non nasconde di certo un’empatia inferiore al suo predecessore per l’uomo di Arcore, anche quando questi non si attiene ai consigli “foglianti”, come fece nel 2016 battendosi contro la riforma costituzionale di Matteo Renzi. 

            Il Cavaliere è incorso nello sfottò, diciamo così, del vignettista Marco D’Ambrosio, in arte Makkox, guadagnatosi di recente sul Corriere della Sera una citazione d’oro di Walter Veltroni per il Coronavirus affamato e furente in giro per le strade vuote della città.

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E’ stato un bel gesto -ha commentato in francese il vignettista- ma quei dieci milioni di euro, che pure non sono bruscolini,  offerti e già versati dall’ex presidente del Consiglio per l’allestimento di un nuovo ospedale a Milano standosene prudentemente lontano, ad una trentina di chilometri da Nizza, con la sua nuova e onorevole fidanzata, ospiti entrambi della figlia Marina in una villa assolata e coi fiocchi, hanno fatto storcere il muso, o il naso, a D’Ambrosio. E a chi ne ha collocato la vignetta bene in vista in prima pagina, a colori.

            Per una volta al Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, forse non estraneo al cambiamento di fidanzata del Cavaliere, essendosene la precedente  -Francesca Pascale- guadagnata una benevola attenzione con tanto di intervista, debbono avere invidiato quelli del Foglio. Che sono solitamente declassati dal “Fattaccio”, come lo chiamano gli intimi di Berlusconi, a redattori e collaboratori più o meno parassiti, diciamo così, di un giornale “clandestino” e sostenuto da un finanziamento anche pubblico. 

Mattarella chiede, anzi reclama di tenere aperte le Camere anche nell’emergenza

            E’ a dir poco curioso che si sia dovuto cercare col classico lanternino, pur sulla prima pagina del più diffuso giornale italiano, che è notoriamente e giustamente il Corriere della Sera, generalmente il più pacato ed equilibrato fra i quotidiani del nostro Paese, la notizia istituzionale e politica più importante in questi giorni di Coronavirus. Si trova solo in quello che tecnicamente Corriere.jpegsi chiama “occhiello” del titolo di apertura del giornale l’annuncio della raccomandazione, chiamiamola così, del presidente della Repubblica di tenere aperto il Parlamento, dove peraltro sta arrivando per la necessaria conversione nei sessanta giorni prescritti dalla Costituzione il decreto legge anti-virus o “Cura Italia”. Così ha preferito chiamarlo personalmente il presidente del Consiglio Giuseppe Conte esponendone il contenuto in una rarefatta ed emergenziale conferenza stampa mentre gli uffici di Palazzo Chigi e attigui ancora ne perfezionavano il voluminoso testo per mandarlo alla firma del capo dello Stato.

            Il carattere per niente formale del richiamo, appello e quant’altro del presidente della Repubblica Breda dal Colle.jpegalle Camere, peraltro nel giorno in cui le loro facciate venivano illuminate di tricolore per la celebrazione dei 159 anni trascorsi dall’unità d’Italia, è così spiegato, fra l’altro, proprio sul Corriere dal quirinalista Marzio Breda: “Mentre qualcuno teorizza l’opportunità di “chiudere” il Parlamento e ricorrere all’informatica sia per il dibattito sia per eventuali voti a distanza, è chiaro che il Capo dello Stato non può essere favorevole a ipotesi del genere”.

            Non vorrei esagerare e scivolare sul qualunquismo, ma temo proprio che i parlamentari tentati dalla voglia di confondersi con tutti gli altri italiani esortati dall’emergenza, e persino obbligati, a restare a casa per non partecipare alla diffusione del contagio, possano ben essere paragonati a quei 250 medici “malati immaginari” di Napoli Il Fatto.jpegliquidati giustamente come “disertori” dal Fatto Quotidiano: medici, a parole, che disonorano i loro tanti colleghi e collaboratori che stanno dando anche la vita in altre parti d’Italia per assistere i pazienti e fronteggiare quella che ormai è anche ufficialmente una pandemìa. Le cui vittime nel nostro Paese hanno raggiunto un record che Libero su Conte.jpegnon può essere dignitosamente rinfacciato al presidente del Consiglio, come con polemica avventata cerca di fare in un titolo il giornale Libero confutandogli il merito rivendicato di avere intrapreso un percorso di lotta al coronavirus avvertito come “modello” in altri paesi, pur con tutti i limiti, le contraddizioni e le improvvisazioni via via rivelatesi e corrette, in una successione che non è di certo finita.

         Quel Gazzetta.jpegcarro funebre che il vignettista della Gazzetta del Mezzogiorno si è inventato per le strade d’Italia per diffondere il richiamo a “stare chiusi in casa” anche “contro l’interesse” delle pompe funebri, non può certamente passare metaforicamente anche davanti a Montecitorio e a Palazzo Madama per tutelarne, al rovescio, formale o sostanziale che sia, il vuoto.

 

 

 

 

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Il velleitario inseguimento della figura davvero irripetibile di Aldo Moro

Marco Follini, che peraltro ben lo conobbe guadagnandosene anche l’appoggio ma efficace ai vertici del partito quando fu eletto a 23 anni Marco Follini.jpegsegretario del Movimento Giovanile della Democrazia Cristiana, nel 1977, ha ricordato da par suo Aldo Moro a 48 anni dal tragico sequestro del 16 marzo 1978: una ricorrenza penalizzata mediaticamente, come tante altre cose, dallo tsumani sanitario, sociale e politico del coronavirus.

Giustamente Follini ha sottolineato dello statista democristiano, ucciso 55 giorni dopo il rapimento avvenuto fra il sangue della scorta, l’unicità, irripetibilità e quant’altro di fronte ai tanti, ricorrenti tentativi di imitarlo o di paragonarlo agli uomini politici dei nostri tempi. L’ultimo, di questi tentativi, è stato compiuto domenica scorsa su Repubblica. Dove il fondatore Eugenio Scalfari.jpegEugenio Scalfari, elegantemente o rispettosamente ignorato da Follini, ha riproposto l’immagine di un Giuseppe Conte quasi erede politico di Moro. Che in comune col presidente del Consiglio in carica ha soltanto una parte della terra pugliese d’origine, essendo nato Moro a Maglie, in provincia di Lecce, dove gli hanno peraltro innalzato una statua con una curiosa copia dell’Unità del Pci in tasca, e non del Popolo, il quotidiano ufficiale della Dc, e Conte a Volturara Appula, in provincia di Foggia: un borgo di 400 abitanti, più che un paese.

Di Conte come erede, emulo e chissà cos’altro di Moro si sono in qualche modo invaghiti anche altri, e persino in quella che fu la Dc e poi si è sparsa in tanti rivoli o schegge. Ricordo ancora con un certo sgomento l’entusiasmo col quale qualche mese fa -in un teatro campano dove il presidente del Consiglio aveva accettato di commemorare Fiorentino Sullo su invito e alla presenza di tanti reduci dello scudocrociato, fra i quali l’ex segretario del partito Ciriaco De Mita, che peraltro al povero Sullo in vita aveva creato più problemi che altro, pur avendolo politicamente allevato- l’immaginifico Gianfranco Rotondi Gianfranco Rotondi.jpegiscrisse idealmente Conte alla Dc. E si scusò di non potergli consegnare materialmente la tessera perché con la fine del partito nel 1992 avevano finito di stamparne. E a Silvio Berlusconi, nelle cui file Rotondi è approdato e rimasto con licenza di fare e disfare formazioni personali sempre riconducibili a Forza Italia, non è mai venuta in mente l’idea, almeno sino a questo momento, di fare stampare in qualche tipografia amica tessere quanto meno simboliche di un partito del quale pure il Cavaliere si vanta ancora di avere affisso da ragazzo sui muri di Milano i manifesti nella storica campagna elettorale del 1948.

Eppure, grazie ai capricci del tempo, nonostante la unicità o irripetibilità -ripeto- che Follini giustamente attribuisce ad Aldo Moro, a Conte sta accadendo da qualche tempo di seguire il metodo Giuseppe Conte.jpegtutto moroteo di affrontare i passaggi politici più aggrovigliati con la formula dello “scomporre per ricomporre” le parti in gioco. Moro però lo faceva col suo stile Aldo Moro.jpeginconfondibile, studiato per produrre effetti a distanza, non immediati, per cui riusciva a produrre cambiamenti e  consenso vero. Lo dimostrò  la costruzione che egli fece, oltre che delle varie maggioranze all’interno del suo partito, delle maggioranze di governo: dal centro-sinistra alla cosiddetta solidarietà nazionale. Conte lo fa con l’immediatezza e l’improvvisazione che potrebbero prima o poi complicargli, anziché facilitargli la partita personale che sta giocando in politica, non avendo un vero e proprio partito alle spalle, o avendone dichiaratamente uno -quello delle 5 Stelle- ridotto in uno stato a dir poco confusionale.

Nella scorsa estate Conte scompose e ricompose gli schieramenti parlamentari per passare, praticamente dalla mattina alla sera, da una maggioranza gialloverde ad una maggioranza giallorossa, o rossogialla, per avere rispetto dei colori calcistici della Roma. Poi la gestì  in modo così poco accorto da fare esplodere una crisi nel maggiore partito della coalizione, con le dimissioni di Luigi Di Maio da capo del Movimento e la rimozione da capo della delegazione al governo, e quasi contemporaneamente uno stato di sostanziale belligeranza di Matteo Renzi ed amici.

Ora, con la storia del decreto legge chiamato “Cura Italia” o “anti-virus”, è riuscito a scomporre l’opposizione di centrodestra, divisasi fra le contestazioni dello stesso titolo del provvedimento da parte di Giorgia Meloni, l’insufficienza subito lamentata da Matteo Salvini gustando la spesa fatta il giorno prima con la fidanzata nel centro di Roma, con tanto di scorta in quasi assembramento pro-virus, e un ringraziamento in diretta televisiva, su una rete Mediaset, del direttore Berlusconi.jpegin persona del Giornale della famiglia Berlusconi, Alessandro Sallusti. Che probabilmente ha notizie del Cavaliere più dirette e sicure dei parlamentari forzisti che dovranno poi votare nelle commissioni e nelle aule, peraltro con modalità diventate anch’esse incerte per gli inconvenienti da contagio.

Il terzo governo di Conte, anticipato come “battuta”, formalmente, dal suo portavoce Rocco Casalino, sembrava rientrato nel deposito ferroviario non so di che stazione di Roma ma potrebbe essere rimesso sui binari. se e non appena il coronavirus si deciderà a mollare il monopolio della sinistra attenzione che si è procurato.

 

 

Pubblicato sul Dubbio

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