Cronaca semiseria di una giornata di chiusure nell’Italia del Coronavirus

            Il buon umore per fortuna non manca mai dalle nostre parti, anche nei momenti peggiori. C’è sempre un vignettista, un giornale, un attore, un imitatore, un protagonista in carne e ossa, per nulla travestito, che riesce a strapparci un sorriso.

             In questo giorno di chiusure generalizzate -dall’Italia nel suo complesso su tutta la prima paginaGiornale.jpeg del Giornale, che se l’è presa con chi sta al governo, a quella analoga di Repubblica, dalla porta Repubblica.jpegdello stadio vuoto nella quale Emilio Giannelli sul Corriere della Sera ha ripreso il presidente del Consiglio battuto al rigore con la palla del coronavirus allaLa Syampa.jpeg domanda della Stampa se Conte manovri le chiavi con più azzardo o coraggio- quell’inguaribile spiritoso o barzellettiere che riesce a rimanere Silvio Berlusconi ha voluto chiudere anche lui qualcosa.

            E’ toccato alla relazione più che decennale con la giovane Francesca Pascale  che il Cavaliere di Giornalesu Berlusconi.jpegArcore, presidente di Forza Italia, europarlamentare, pluriottantenne all’anagrafe contraffatta, sentendosi in realtà almeno vent’anni Messaggero.jpegdavvero addosso, non di più, ha deciso di chiudere con un comunicato ufficiale del suo partito proprio nel giorno in cui Conte decideva di chiudere altro: scuole, teatri, musei, cinematografi, non ancora però il governo, forse perché il presidente della Repubblica è intervenuto in tempo per impedirglielo.

               La ormai ex fidanzata di Berlusconi c’è rimasta comprensibilmente male, dichiarandosi “stupita”, con Pascale.jpegla t, e togliendosi solo la soddisfazione di scherzare con un po’ di perfidia sulla deputata azzurra che ne avrebbe preso il posto nel cuore e non so cos’altro del Cavaliere cominciando col portare a spasso il cagnolino di casa.

            Ditemi voi se questo non è poi un Paese davvero sorprendente, meraviglioso, imprevedibile, dove il Coronavirus è sbarcato come il marziano dell’omonima commedia di Ennio Flaiano, che dopo avere tanto stupito, più ancora di quanto non si sia appena dichiarata per altri motivi l’ex fidanzata di Berlusconi, dovette rassegnarsi all’assuefazione e all’indifferenza generale. Speriamo che nel frattempo Conte o altri per lui si ricordino di riaprire quello che nel frattempo hanno chiuso: l’inverso di quanto  accadde una volta alla buonanima di Giancarlo Pajetta. Che uscendo dall’aula di Montecitorio, dove parlava da tempo e da solo uno sfigato deputato della maggioranza, gli raccomandò di spegnere, alla fine, le luci.   

 

 

 

Ripreso da http://www.policymakermag.it 

Che cosa (non) vale più purtroppo una famiglia a Napoli…

Per quanto legatovi da ricordi di famiglia e di studio, ho smesso di andare a Napoli da una ventina d’anni: in particolare da quando, incollonato in auto ad un semaforo sulla strada che costeggia il porto, fui rapinato di un orologio in pieno giorno.

Un ragazzo all’incirca dell’età di quello che è stato ucciso in questi giorni da un carabiniere in borghese non ebbe bisogno di puntarmi un’arma, né vera né finta. S’infilò col busto nel mio finestrino dove avevo appena ritirato il braccio sinistro dopo avere spazientemente raddrizzato lo specchietto laterale che mi era stato spostato per la seconda volta lungo la stessa strada, sempre incolonnato nel traffico di punta. E ingaggiò una lotta selvaggia con le mani di mia moglie che, sedutami accanto, cercava di impedirgli, graffiandone il viso, di sfilarmi l’orologio dal polso, senza il timore di vedersi sfilare pure il suo.

La scena si svolse sotto gli sguardi indifferenti dei conducenti delle altre auto, tutti fermi al semaforo, di lato e di dietro. E si concluse a tutto vantaggio del rapinatore, ladro, o come diavolo andava chiamato in gergo penale. Che mi lasciò sulla portiera impolverata tracce che consentirono di lì a poco al custode del garage d’albergo dov’ero appena arrivato la ricostruzione precisa dell’accaduto, nonchè l’assegnazione del numero d’ordine. Era la decima -dico, decima- rapina di quella giornata, probabilmente eseguita dallo stesso ragazzo e da chi l’aveva aiutato, dall’altra parte della strada, facendolo saltare sul motorino per fuggire.

Durante quel mio ultimo soggiorno a Napoli, in galleria e a due passi dalla sede del Mattino dove tanti anni prima il mitico direttore Giovanni Ansaldo mi aveva paternamente consegnato qualche libro da recensire per soddisfare la mia voglia di giornalismo e mettermi alla prova, ebbi un’illuminante chiacchierata con un amico, ex collega di studi, che aveva intrapreso la carriera di magistrato ed era salito abbastanza in alto, e a rischio, per andare in giro scortato.

Ebbene, ad un certo punto il discorso cadde sulla mia disavventura di rapinato o derubato, sempre come preferite. E mi venne un’idea che non mi sono più tolto dalla testa pensando a Napoli e alla sua non gioventù ma fanciullezza rubata, con tutti quei ragazzi -come l’Ugo che ci ha appena rimesso la vita- abituati, aiutati, incoraggiati, coperti e quant’altro dalle loro ragazzo ucciso.jpegfamiglie a delinquere, scommettendo sulla capacità o padronanza di nervi del malcapitato di turno, disarmato o armato e lucido abbastanza per prendere la mira giusta, sparando alle gambe e non al torace o alla testa, pur avendo di fronte in quel momento solo quegli obiettivi, e non potendosi sporgere più di tanto dal finestrino.

L’idea che mi permisi di esporre – povero e ingenuo giornalista ch’ero, e sono rimasto anche in età molto appetibile, a quanto sembra, ai coronavirus che vagano ormai per tutto il mondo, o quasi- era ed è quella di privare della patria potestà i genitori che non sanno o non vogliono esercitarla. O la esercitano alla rovescia, per insegnare a rubare o a devastare gli ospedali e non a studiare o lavorare, spesso trasmettendo ai figli i loro sciagurati mestieri. A costoro i figlioli andrebbero tolti e affidati -dicevo e penso ancora- a mani più avvedute e davvero soccorrevoli.

Non l’avessi mai pensato e detto. Il mio amico magistrato mi guardò torvo come se non ci fossimo mai conosciuti e frequentati. Poi, calmatosi, cominciò a spiegarmi -secondo lui- le ragioni per le quali non ci si poteva né doveva intromettere negli affari familiari degli altri. Se lo facessimo -mi disse ad un certo punto parlando al plurale, come per nome e per conto di tutti i suoi colleghi di toga- ci sterminerebbero tutti. Non si salverebbe nessuno, aggiunse per rafforzare e al temo spesso chiudere il suo ragionamento.

La Napoli che da bambino, raggiungendola di sera in auto con i miei genitori dalla Puglia, mi sembrava una donna con una collana di luci al collo; la Napoli che avevo scambiato per un santuario quando mia madre mi ci portò piena d’ansia e di speranza quasi miracolosa per farmi guarire da una malattia che nessuno aveva prima di allora saputo diagnosticare; la Napoli che al primo anno di Università mi aveva fatto scoprire e ammirare maestri di diritto come Antonio Guarino e Francesco De Martino, le cui lezioni di storia del diritto romano erano semplicemente un incanto, diversamente dalle prove che poi il suo autore mi avrebbe dato come segretario del Partito Socialista, quello del “mai più al governo con la Dc senza l’appoggio dei comunisti”; la Napoli che mi aveva già tradito con la storia giudiziaria del mio amico Tortora facendo comunque in tempo a rimediarvi con l’assoluzione che Enzo meritava, sia pure troppo tardi perché lui se la potesse godere davvero; quella Napoli mi sembrò in galleria, di fronte alla paura del mio amico magistrato di morirvi nell’uso del buon senso, davvero e definitivamente perduta. E non vi ho più messo piede.

 

 

Pubblicato sul Dubbio

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