Grillo tra Mussolini e Berlinguer alla testa di ciò che resta delle 5 Stelle

Dal blog di Beppe Grillo
Beppe Grillo

Tutto sommato, da buon comico Beppe Grillo avrebbe potuto vantarsi di questa legislatura ruotata quasi per intero attorno alla “centralità” del suo MoVimento 5 Stelle, aggiudicandogli il merito di avere ridotto, e non di poco, i seggi del Parlamento, di avere imposto alla vecchia, avara, cinica Europa -così almeno sostiene Giuseppe Conte parlando della sua esperienza a Palazzo Chigi- la svolta solidaristica del finanziamento al piano italiano di ripresa e resilienza, di avere introdotto il cosiddetto reddito di cittadinanza, sia pure senza la sconfitta della povertà, e di avere contributo in modo decisivo a quel 6 per cento di aumento del pil, vantato da Mario Draghi, con la spinta all’edilizia grazie ai bonus delle facciate, e simili, pur disciplinati come peggio, francamente, non si poteva. 

Grillo sul suo blog
Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano

Invece Grillo -diavolo di un comico- ha deciso di uscire da questa legislatura sul suo blog come da un lager nazista, mescolandosi con i sopravvissuti. E dopo avere imposto a Conte -liberatoriamente definito “stronzo” sul Fatto Quotidiano da Marco Travaglio in persona, dopo tante lacrime per la estromissione omicida da Palazzo Chigi- il divieto di deroga al limite del doppio mandato. Con ciò egli ha ripreso di fatto la guida di ciò che resta del movimento ridotto ormai ad una scissione continua. Ed ha scopiazzato Benito Mussolini ed Enrico Berlinguer, che così diversi fra loro solo lui poteva mettere in qualche modo insieme.

Di Mussolini, già imitato qualche giorno fa per il motto di “molti nemici molto onore”, Grillo ha riproposto anche quel “Vincere” che da bambino, a guerra già finita e perduta, vedevo ancora scritto in nero a caratteri di scatola sulle case cantoniere ed altri edifici. Anche il MoVimento 5 Stelle può, deve ancora vincere la sua guerra, con Grillo sempre alla testa, garantito solo dalla capacità già dimostrata una volta al volante di un’auto di buttarsi fuori in tempo per salvarsi, lasciando morire nel precipizio gli ospiti. 

Berlinguer e Craxi
Berlinguer e Moro

Di Berlinguer il comico ha copiato a sua insaputa la “diversità” del Pci rivendicata rispetto a tutti gli altri partiti dal segretario reduce dal tentativo fallito di un “compromesso storico” con la Dc, anche nella versione assai ridotta della “tregua” parlamentare negoziata con Aldo Moro nelle due versioni dell’astensione e della fiducia ai governi monocolori di Giulio Andreotti. Ma Moro morì di quella tregua, sequestrato fra il sangue della scorta sterminata in via Fani il 16 marzo 1978, a poca distanza da casa, e ucciso pure lui il 9 maggio. Della “diversità” imboccata come una strada suicida secondo valutazioni pure di compagni che gli volevano bene, come Piero Fassino che ne avrebbe poi scritto in un onesto libro autobiografico, Berlinguer sarebbe morto nel 1984 in un comizio elettorale contro il governo presieduto dall’odiato Bettino Craxi. Che pochi mesi prima al congresso nazionale del Psi non si era unito ai fischi levatesi contro l’ospite comunista solo perché non sapeva fischiare, aveva detto con baldanza di cui si sarebbe pentito piangendo l’avversario caduto  sul campo. Sono vicende che a ricordarle viene ancora la pelle d’oca. 

AldoGrasso sul Corriere della Sera
Danilo Toninelli

A Grillo che vanta la diversità sua e del suo popolo, chiamiamolo così, ha in un verto senso risposto oggi Aldo Grasso sul Corriere della Sera occupandosi dell’ex ministro pentastellato e riccioluto Danilo Toninelli, orgoglioso di provare il divieto del terzo mandato e autore, l’anno scorso, di un libro agiografico dell’uomo qualsiasi, o qualunque, come si dichiarava la buonanima di Guglielmo Giannini. “La qualsiasità non ha nulla da perdere”, ha osservato Grasso spiegando la felicità di Toninelli. 

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Grillo denuda Conte negandogli le deroghe al limite del doppio mandato sotto le 5 stelle

Il dramma dei grillini -ma non di Beppe Grillo, che li ha fregati tutti producendo un altro spettacolo dei suoi senza dover neppure pagare l’affitto di un teatro- sta tutto in una foto e in un telefonino. 

La foto è quella scattata in un androne durante l’ultima e infausta missione di Grillo a Roma in veste di “garante” del MoVimento 5 Stelle: una missione che doveva essere d’ordine, ma si ridusse in disordine, per cercare inutilmente di mettere nella testa dei suoi che non si potesse provocare la crisi del governo Draghi per un inceneritore a Roma, sommersa dai rifiuti destinati ai cinghiali.

Titolo del Riformista

Conte e Grillo, nell’immagine, sorridono  ostentando amicizia, simpatia, allegria e quant’altro. Ma il sorriso di Grillo è rivolto ad altri fuori scena, cui sembra voler dire che l’altro non ha capito niente di quello che gli sta capitando. E gli è in effetti capitato: una mezza decapitazione, scusate il bisticcio di parole. Non è esagerato il titolo riservato oggi dal Riformista al divieto imposto dal comico alle deroghe già promesse da Conte come  presidente del MoVimento ai “grandi” -si fa per dire- arrivati al capolinea statutario del secondo mandato: “Grillo accantona Conte e riprende il comando”. Si vedrà poi per farne che cosa. 

Dalla prima pagina del Corriere della Sera

Il telefonino è quello dello stesso Conte, che -secondo cronache sinora non smentite- ha chiamato una per una le vittime di Grillo per consolarle, assicurare di “avercela messa tutta” per evitare l’accaduto e chiedere, testuale: “Ce l’hai una professione? In che modo posso aiutarti?”. Domande che dimostrano l’improvvisazione del movimento attorno alla cui “centralità” ha ruotato quasi per intero la legislatura uscita nel 2018 dalle urne. Domande alle quali una vignetta che ho visto non ricordo più dove ha attribuito a Luigi Di Maio il merito di essersi personalmente sottratto con qualche anticipo promuovendo la scissione – che è in fondo all’origine vera della crisi governativa e dello scioglimento anticipato delle Camere- e cercando di tornare in Parlamento grazie a qualche passaggio, in autostop. 

Paola Taverna, vice presidente del Senato

Immagino la faccia e le parole della vice presidente romana del Senato al telefono con Conte,  Paola Taverna, se davvero chiamata: lei, abituata a “sfonnare” l’indesiderato di turno. Che nel 2013 fu addirittura Silvio Berlusconi, praticamente espulso dal Senato, appunto, a scrutinio palese imposto dall’allora presidente dell’assemblea Pietro Grasso in applicazione retroattiva della cosiddetta legge Severino dopo una condanna definitiva per frode fiscale: lui, a sua volta, sempre il Cavaliere, tra i maggiori, se non il maggiore contribuente italiano. 

L’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede

Poiché c’è spesso qualche eroe, o almeno scampato, ad un dramma, non può stupire la notizia data dal Foglio a proposito dell’ex guardasigilli Alfonso Bonafede, con due mandati sulle spalle, e in più la responsabilità di avere portato Conte nel movimento e a Palazzo Chigi, sino al trauma della sostituzione con Mario Draghi. 

Dal Foglio

“Bonafede -ha raccontato Il Foglio– si è già rimesso a fare l’avvocato a Firenze. Solo che prima di essere stato Guardasigilli al massimo si opponeva alle multe dei vigili urbani. Ora invece ha uno studio megalattico con doppia sede, a Firenze e a Milano. Come diceva Longanesi: cercava la rivoluzione e trovò l’agiatezza”.

Marco Travaglio ieri sul Fatto Quotidiano
Titolo del Fatto Quotidiano

Tra gli sconfitti o vittime di Grillo c’è anche Marco Travaglio. Che, per carità, non ha perduto né Il Fatto Quotidiano né la direzione, tanto da aver fatto subito consolare Conte con la solita intervista in prima pagina a favore del suo terzo polo “giusto e aperto alla società civile”. Ma non più tardi di ieri lo stesso Travaglio concludeva il suo editoriale dedicato alle vicende pentastellate scrivendo: “Conte corre da solo con i 5Stelle. E Grillo, dopo 18 mesi di impegno indefesso per affossarli, pare minacci di fare finalmente qualcosa per loro: andarsene”. Dal sarcasmo al peccato di disinformazione, o di presunzione, come preferite.

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Putin spara razzi contro l’Ucraina e migranti contro l’Italia

Titolo della Stampa

Neppure una smentita del sottosegretario ai servizi segreti Franco Gabrielli, già capo della Polizia, ha fermato La Stampa nella campagna avviata contro Matteo Salvini. Che a fonti appunto dei servizi segreti sarebbe risultato in contatto con l’ambasciata russa a Roma non solo per organizzare il noto e saltato viaggio a Mosca, con tanto di biglietto già pagato dalla stessa ambasciata, e poi rimborsato dal leader leghista, ma anche per ricevere sollecitazioni a provocare la crisi del governo Draghi facendone uscire i ministri del Carroccio. La crisi poi è arrivata, ma senza l’uscita dei ministri leghisti, e in curioso concorso con i forzisti di Silvio Berlusconi e i grillini di Giuseppe Conte, sempre con i ministri rimasti al loro posto nel governo chiamato a questo punto a gestire le elezioni anticipate. Ma al Cremlino, si sa, hanno festeggiato lo stesso.

Titolo della Verità

La Stampa è sicura delle sue informazioni e ha continuato anche oggi a reclamare chiarimenti, accusata tuttavia dalla Verità di Maurizio Belpietro di averle rubato uno scoop di alcune settimane fa rivelatosi nel frattempo falso, visto che il giornale di destra difende Salvini. Beh, sono cose che accadono nei e fra i giornali. Sarà difficile liberarsi di questo pasticciato giallo in campagna elettorale sia nella versione di Avvenire, il giornale dei vescovi italiani che ha titolato “La Russia nelle urne”, sia nella versione del manifesto, che ha servito ai lettori “insalata russa”.

Dalla prima pagina di Repubblica
Titolo di Repubblica

Presi tutti da questo giallo, rischia di sfuggire o di passare in second’ordine una notizia certa, di cronaca, amplificata col titolo “l’arma dei migranti” dalla Repubblica. Che in una brevissima sintesi ha raccontato in prima pagina: “Una mano ha aperto il rubinetto umano della Cirenaica. Dalle coste della Libia sotto il controllo delle milizie del generale Haftar, supportate dai mercenari russi del Gruppo Wagner, stanno partendo molti più migranti rispetto a quanto rilevato nello stesso periodo degli ultimi due anni”. 

“Una mano”, ripeto, dice Repubblica. Quella di Putin si può presumere col riferimento dei “mercenari russi” che sostengono il generale Haftar, ma forniscono il loro contributo anche alla guerra della Russia contro l’Ucraina. Possiamo quindi dire, senza volare tanto con la fantasia, che Putin cinicamente spara razzi contro l’Ucraina e migranti contro l’Italia di Draghi, che aiuta anche militarmente il paese aggredito e nel frattempo candidatosi all’ammissione all’Unione Europea. 

Matteo Salvini appena sbarbato

Questi migranti, che hanno fatto letteralmente scoppiare i centri italiani di accoglienza, sono provvidenziali per la campagna elettorale di Salvini. Il quale ne cavalca da sempre il disagio e la paura che portano con sé e diffondono fra gli italiani, ma questa volta ancora di più in funzione di contenimento dell’emorragia di voti procurata alla Lega da Giorgia Meloni. Che ormai da sola raccoglie più voti di forzisti e leghisti messi insieme ed ha prenotato in caso di vittoria del centrodestra Palazzo Chigi. Da dove magari rimanderà Salvini al Viminale, con tutte le sue tute  o giubbotti di Polizia, Vigili del Fuoco e quant’altro, ma continuerà a mandare armi all’Ucraina, come ha appena annunciato facendo andare di traverso a Putin anche i medicinali che trangugia per le sue misteriose malattie. 

Ammesso e non concesso che abbia fatto davvero ciò che La Stampa gli attribuisce, non si sa a questo punto fino a che punto sia convenuto a Putin spingere Salvini contro Draghi. Egli rischia di trovarsi fra poco più di due mesi a Palazzo Chigi una peggiore di Draghi, dal suo punto di vista. Una alla quale Salvini, nel frattempo sbarbatosi per avere perduto con Berlusconi una incauta scommessa contro le elezioni anticipate, potrà creare -presumo- meno problemi che al presidente del Consiglio ancora in carica per la cosiddetta ma per niente ordinaria amministrazione. Infatti stanno per partire dall’Italia altre forniture  militari per l’Ucraina. 

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L’amministrazione per niente ordinaria del governo Draghi nell’emergenza anche elettorale

Titolo del Dubbio

Non si è dovuto aspettare molto, neppure l’apertura formale della campagna elettorale con la presentazione delle liste e la definizione quindi concreta delle alleanze più o meno “tecniche”, come dice il segretario del Pd Enrico Letta parlando delle sue, per vedere gli effetti concreti, sociali e  anche politici, della decisione di Sergio Mattarella di lasciare il governo di Mario Draghi al suo posto sciogliendo anticipatamente le Camere. Al suo posto -precisò di fatto il capo dello Stato- per un’amministrazione “ordinaria” di nome ma per niente di fatto in tempi che ordinari non sono, con tutte le emergenze che ci assediano. 

Draghi, continuando a governare davvero, pur non candidato a niente nel nuovo Parlamento, dove altri se le stanno dando e dicendo di santa ragione dietro e davanti alle quinte per contendersi seggi ridotti e cariche, è rimasto il convitato, o addirittura il protagonista di pietra di questa stagione elettorale, per la prima volta d’estate nella storia della Repubblica. Egli continua ad essere una risorsa per i partiti, direi a loro dispetto, visto che molti di essi hanno cercato di liberarsene anzitempo con una crisi pazza quanto l’intera legislatura finita nei suoi marosi. 

La guerra in Ucraina

Sul piano internazionale, il più congeniale per il presidente del Consiglio a causa della sua notorietà e autorevolezza ben oltre i confini italiani, gli eventi stanno dando ragione alla linea da lui adottata all’apertura della feroce guerra d’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. La linea cioè del sostegno anche militare all’Ucraina per proteggerla, e proteggere con essa l’intera Europa, dal nuovo imperialismo di marca zarista dell’ex o post- sovietico Putin. Che forse ha festeggiato con troppo anticipo l’incidente politico, diciamo così, occorso a Draghi, senza rendersi conto che al novanta per cento delle probabilità la sua linea di contrasto alla Russia continuerà anche senza di lui, e per il rimante dieci per cento ancora con lui a Palazzo Chigi. 

I giochi di Putin col gas, il cui prezzo è salito alle stelle, hanno reso ancora più attuale e stringente il problema posto da Draghi in un’Europa per un bel pò parzialmente riluttante di prendere anche su questo aspetto il toro per le corna. 

Ma passiamo ai problemi interni occupandoci del nuovo decreto legge in arrivo  per gli aiuti su cui si è appena svolto con i sindacati un confronto a tutto vantaggio di quel Draghi scambiato da Giuseppe Conte per quello che sotto le cinque stelle avevano sempre ritenuto che fosse, una specie di Dracula, prima che Grillo in persona, incontrandolo e parlandogli, lo scoprisse per quello che è: un uomo di governo avveduto nel momento del pericolo.

Giuseppe Conte

Pur nell’avarizia del suo linguaggio da sindacalista quando deve riconoscere qualcosa alla controparte di turno, il “rosso” Maurizio Landini, il segretario generale della Cgil col quale Conte si era messo in concorrenza nelle scorse settimane reclamando “discontinuità” e “cambio di passo” in un documento sventolato  sul tavolo del presidente del Consiglio, ha detto dell’incontro avuto col governo a Palazzo Chigi che esso “ha prodotto alcune prime risposte nella direzione da noi richiesto. Credo che la strada sia giusta. Valuteremo l’entità”, ha aggiunto.

Maurizio Landini alla Stampa di ieri

Più generosi o espliciti sono stati i segretari generali della Cisl, Luigi Sbarra, e della Uil, Pierpaolo Bombardieri. “La valutazione -ha detto quest’ultimo- è positiva. Il governo si è impegnato con noi a fare interventi strutturali sulla decontribuzione per aumentare il netto in busta paga dei lavoratori dipendenti e ad anticipare la rivalutazione delle pensioni prevista per gennaio. Era quello che avevamo chiesto. Stop ai bonus, ma interventi strutturali”.

Il segretario generale della Cgil Maurizio Landini

Landini, in verità, non ancora dimagrito  abbastanza, ha preferito continuare a tenersi in esercitazione con dimostrazioni di piazza annunciandone di nuove per l’8 e il 9 ottobre a prescindere, neppure lui sa esattamente contro chi perché in quei giorni il Parlamento eletto il 25 settembre non si sarà ancora insediato. Ma difficilmente Conte credo che gli potrà fare compagnia con quel che avrà raccolto nelle urne a capo del “terzo polo” -“giusto”, “incomodo” e quant’altro-  anticipato in questi giorni fra una telefonata e l’altra a Beppe Grillo. Che reclama altre vittime da sacrificare al suo passato di fondatore e al suo presente di garante del MoVimento 5 Stelle, dove uno deve continuare a valere uno e nessuno deve potere scommettere su deroghe al divieto di più di due mandati. Un divieto, anzi, che deve diventare legge dello Stato perché tutti i partiti diventino come il movimento grillino, cioè un mezzo manicomio. Dove il primo che si alza si mette in testa una padella e recita da re, anzi da imperatore. 

Pubblicato sul Dubbio

La calda settimana di Passione, fuori stagione, di Silvio Berlusconi

Massimo Franco sul Corriere della Sera
La presidenza del vertice del centrodestra alla Camera

Chi conosce davvero Silvio Berlusconi, magari anche per avere lavorato con lui, sa bene quanto debba essergli costato non solo e non tanto accettare la regola, reclamata da Giorgia Meloni, del diritto del partito più votato nel centrodestra di indicare al capo dello Stato, in caso di vittoria, il nuovo presidente del Consiglio, quanto dovere avere rinunciato all’abitudine di giocare in casa, diciamo così. Cioè di trattare gli alleati come ospiti, riunendoli in qualcuna delle sue ville, fra Arcore e Roma, tutti seduti attorno a lui e alla quasi consorte. Stavolta gli è toccato andare in una sede “istituzionale”, anch’essa imposta dalla Meloni, cioè in una saletta di gruppo alla Camera. Dove, prima di acconciarsi col sorriso di circostanza a un comune tavolo di presidenza, il Cavaliere è arrivato per niente allegro dopo un viaggio in auto dalla sua abitazione sull’Appia Antica. Le foto stanno lì a dimostrarlo, con una didascalia che potrebbe essere presa dalla nota politica di Massimo Franco sul Corriere della Sera, in cui il soggetto è la leader della destra italiana incoronata per ora solo dai sondaggi: “Nella “sede istituzionale” dell’incontro, alla Camera invece che nella villa di Silvio Berlusconi, ha prevalso dunque la sua linea. Per Salvini e il Cavaliere è uno schiaffo che fingono di trasformare in concordia”.

I festeggiati
Gorgia Meloni alle festa di Gianfranco Rotondi, o viceversa

L’unico onore, riguardo e quant’altro negato da Berlusconi alla sua ex ministra è stato, il il giorno prima, quello di accorrere con la presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati Alberti, la vice Paola Taverna -sì, la grillina che in romanesco stretto “sfonna” tutti quelli che gli sono antipatici- e un’infinità di ospiti abbienti di danaro e incarichi a una festa in onore di Giorgia Meloni organizzata in un casale di Monte Mario, vicino allo Stadio Olimpico, dal deputato forzista Gianfranco Rotondi. Che ha democristianamente finto di celebrare soltanto il proprio, sessantaduesimo compleanno.

Titolo del Foglio

Una scrupolosa, e un pò irriverente, cronaca di Salvatore Merlo sul Foglio dà bene l’idea di quanto sappia essere generoso il cosiddetto “generone romano” quando si ritrova con chi è in odore di successo politico: tutti pronti ad omaggiare, a fare complimenti, a dare informazioni e suggerimenti e -i più sfacciati- a proporsi. Figuriamoci se Berlusconi poteva accettare anche il supplizio di aggiungersi a questo spettacolo. Ha solo telefonato al momento più o meno giusto a Rotondi sentendosi amichevolmente rimproverare per l’assenza, cioè per il rifiuto dell’invito, e giustificandosi per il gran lavoro che lo impegnava  a casa in preparazione del vertice del centrodestra del giorno successivo. E alla maliziosa osservazione di Rotondi che si avrebbe potuto preparare ancor meglio partecipando alla sua festa, il Cavaliere ha ricordato che avrebbe in quel modo fatto un torto a Matteo Salvini. Il quale -chissà- forse era accanto a lui, a predisporsi alla resa a Meloni nella “sede istituzionale” della Camera. 

Titolo di Repubblica sul vertice del centrodestra

Berlusconi, si sa, usa dire di se stesso con compiacimento di sapere essere concavo o convesso, secondo le circostanze. Ma forse questa volta gli tocca imparare ad essere anche piatto, o più furbescamente sperare in qualche incidente di percorso della sua ex ministra: magari, un’esitazione del presidente della Repubblica a nominarla davvero alla guida del nuovo governo in caso di vittoria elettorale del centrodestra. E’ anche  o soprattutto su Mattarella -penso- che cerca di premere la Repubblica, quella di carta, con la campagna antimeloniana avviata in questi giorni, in sintonia col suo ex editore Carlo De Benedetti, sceso in campo ieri sul Corriere della Sera, non bastandogli Domani, il suo nuovo giornale. Il titolo di oggi di Repubblica, su una foto della Meloni comiziante, è “la falange”, anticamera    -o qualcosa del genere-  del fascio. 

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L’esordio del Conte rosso, col suo “campo giusto” o “terzo incomodo”

Avvistato dalle parti del Gargano da solo, senza la compagnia né della fidanzata né del portavoce, consigliere e aspirante senatore Rocco Casalino, in un Parlamento dove però i pentastellati rischiano di non tornare neppure, tanto sono messi male, Giuseppe Conte ha trovato il tempo, la voglia e persino il coraggio di esporre la sua ultima, o penultima ambizione, direbbe forse il suo strano, anzi stranissimo amico Beppe Grillo. Che da quando gli ha concesso la presidenza del MoVimento 5 Stelle, dopo una sfuriata sbollita davanti a un branzino, gli alterna abbracci e sgambetti, aperture e chiusure, come quella appena  opposta alle deroghe al divieto di un terzo mandato parlamentare. Di cui invece l’ex presidente del Consiglio -sempre che, ripeto, riesca ad approdare personalmente alle Camere e a portarsi appresso qualcuno- avrebbe bisogno per soddisfare almeno a livello di candidature i tanti impegni presi con i suoi sostenitori in quella tonnara che è diventato il movimento. 

Giuseppe Conte al Corriere
Dalla prima pagina del Corriere della Sera

Intervistato dal Corriere della Sera, che lo ha riportato in prima pagina, Conte ha contrapposto um suo “campo giusto” al campo largo o aperto che gli ha improvvisamente chiuso il segretario del Pd Enrico Letta, impegnato adesso a cercare alleati nell’area di centro, e naturalmente al centrodestra di Berlusconi, Meloni e Salvini, in ordine per ora solo alfabetico. Un “campo giusto”  che vorrebbe essere “il terzo incomodo” di questa corsa alle nuove Camere: un campo più rosso di quello che si è proposto il Pd inseguendo Carlo Calenda e i transfughi di Forza Italia, e forte programmaticamente di quei nove punti di “discontinuità” e “cambio di passo” inutilmente proposti prima della crisi al presiedente del Consiglio Mario Draghi. Che fu tanto poco riguardoso politicamente e personalmente da non citarne neppure nel discorso della verifica parlamentare pronunciato la settimana scorsa al Senato il documento presentatogli da Conte in persona.

Ancora Conte al Corriere
Ancora Conte al Corriere della Sera

Incalzato dall’intervistatore generosamente sulla strada francese di Mélenchon, che da sinistra ha creato a Macron problemi forse maggiori della destra lepenista, l’ex avvocato del popolo ha cercato di sottrarsi dicendo genericamente che la sua “agenda” -perché c’è anche la sua, oltre a quella di Draghi vantata in qualche modo dal Pd- “punta a ridurre le disuguaglianze sociali”. Se non è Mélenchon,  insomma, poco gli manca pur in un’area ristrettissima, costituita dai cespugli, o poco più, di sinistra refrattari al Pd, e da un Alessandro Di Battista auspicabilmente recuperato dai suoi viaggi in America Latina e in Russia al MoVimento abbandonato per protesta contro la partecipazione dei grillini al governo Draghi un anno e mezzo fa. “Non ci sentiamo da tempo, ma lo faremo presto”, ha detto Conte di Di Battista, appunto, lusingandolo con la promessa che “la collocazione euro-atlantica” vissuta con tanta sofferenza dal metaforico guerrigliero romano sarà “senza inginocchiamenti” agli odiati Stati Uniti. 

De Benedetti al Corriere della Sera
Carlo De Benedetti

C’è tuttavia chi ancora spera, nel Pd e dintorni di sinistra, che nella sua versione rossa Conte possa essere ancora recuperato ad una vasto schieramento anti-destra. E’, per esempio, Carlo De Benedetti. Che, anche lui intervistato dal Corriere della Sera, facendosi portavoce di “mie fonti nel Dipartimento di Stato”, secondo cui “l’amministrazione americana considera orripilante la prospettiva che questa destra vada al governo in Italia”, dove “Berlusconi non c’è più” perché “ci sono le sue badanti che rispondono a Salvini e c’è la Meloni”, ha detto che i 5 Stelle, pur “finiti”, andrebbero imbarcati nella carovana dell’anti-destra “in una logica di Cln”. “Nel Comitato  di Liberazione nazionale -ha ricordato De Benedetti- c’erano tutti, comunisti e monarchici, azionisti e cattolici perché bisognava combattere un nemico comune, Mussolini”. Che starebbe evidentemente tornando in un altro sesso, con gli stivali di Giorgia Meloni. 

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Le furbizie di Silvio Berlusconi e l’ostinazione di Giorgia Meloni nel centrodestra

Titolo di Repubblica
Clemente Mastella al Corriere della Sera

Giorgia Meloni per mettersi in allarme e lanciare il “diktat” attribuitole da Repubblica nel titolo di apertura a sostegno, praticamente, della propria candidatura a Palazzo Chigi in caso di vittoria elettorale del centrodestra e di sorpasso dei suoi fratelli d’Italia sulla Lega e su Forza Italia, non aveva certamente bisogno dell’avvertimento lanciatole da Clemente Mastella. Che, per quanto oggi contenuto nella fascia tricolore di sindaco di Benevento, rimane il politico più navigato di quelli sopravvissuti alla cosiddetta prima Repubblica. “Giorgia, non ti illudere. Salvini e Berlusconi ti fregheranno comunque”, le ha detto in una intervista al Corriere della Sera

Parole di Berlusconi
Intervista di Berlusconi al Corriere della Sera

Anche Berlusconi, con ben altra evidenza naturalmente, si è fatto intervistare dal Corriere della Sera per dire, fra l’altro, testualmente: “Giorgia Meloni sarebbe un premier autorevole, con credenziali democratiche ineccepibili, di un governo credibile in Europa e leale con l’Occidente. Allo stesso modo lo sarebbero Matteo Salvini o un esponente di Forza Italia”: non necessariamente lui quindi, all’età che ha e pur con l’impegno confessato nella ricerca di autorevoli e validi esponenti dell’eventuale prossimo governo di centrodestra, come se dovesse provvedervi da presidente del Consiglio. 

Anche se Berlusconi fa un pò il finto tonto a dichiararsi “non appassionato” al problema del candidato del centrodestra, come neppure alla presidenza del Senato propostagli o offertagli da amici di cui ha apprezzato la considerazione che hanno per lui, rimane quanto meno sospetta la ritrosia, la resistenza, la contrarietà per ora -chiamatela come volete- a confermare la regola delle precedenti elezioni reclamata dalla giovane leader della destra. E’ la regola, peraltro condivisa ancora, almeno a parole, da Salvini che l’ottenne nel 2018, secondo la quale il partito che nel centrodestra vincente raccoglie più voti ha il diritto di prelazione su Palazzo Chigi, sempre che naturalmente la designazione sia accolta dal presidente della Repubblica. Al quale la Costituzione non ha ancora tolto il diritto di nominare il capo del governo e, su sua proposta, i ministri. 

Mario Draghi

Perché Berlusconi elude il problema? Perché o anche perché -ha detto lo stesso Cavaliere- neppure l’altra parte, cioè la coalizione che sta tentando di formare il segretario del Pd Enrico Letta, finalmente senza i grillini di cui ha scoperto la inaffidabilità, ha definito o indicato il suo candidato a Palazzo Chigi. Dove in effetti lo stesso Letta potrebbe essere interessato a tornare, dopo esserne stato allontanato bruscamente, a dir poco, nel 2014 dall’allora segretario del Pd Matteo Renzi. Ma dove Carlo Calenda, che alla nuova coalizione di centrosinistra, chiamiamola così, ha deciso di concorrere aprendone le porte anche a quanti sono usciti o stanno uscendo da Forza Italia, ha appena proposto di confermare Mario Draghi. 

E’ proprio l’incertezza, a dir poco, dell’altra parte di fronte al problema di chi dovrà fare il presidente del Consiglio che dovrebbe fare avvertire a Berlusconi l’opportunità di una indicazione da parte del centrodestra come garanzia  di maggiore serietà e chiarezza d’idee. O no? Lo chiedo tanto più di fronte alla coraggiosa posizione presa dal Cavaliere di fronte alla campagna “di fango” fascista che gli avversari del centrodestra hanno già avviato contro la Meloni, provvista invece secondo Berlusconi -ripeto- di “credenziali democratiche ineccepibili”, in Italia e all’estero.

Titolo ancora del Foglio
Titolo del Foglio

C’è qualcosa che obiettivamente non torna nel ragionamento del conte di Montecristo cui amichevolmente Berlusconi è stato paragonato sul Foglio da Giuliano Ferrara. Che ha confermato di voler votare per il Pd ma è anche pronto a festeggiare il ritorno di Berlusconi al Senato, questa volta come presidente -o vice di Mattarella in caso di impedimento- dopo l’ignobile cacciata nel 2013. 

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La necessità e urgenza di un Consiglio europeo di difesa comune

Titolo del Dubbio

In un saggio di geopolitica di una settantina di pagine pubblicato da Castelvecchi, giustamente elogiato nella prefazione da Romano Prodi perché “breve, intelligente e ben motivato”, Adolfo Battaglia e Stefano Silvestri hanno proposto un Consiglio Europeo di Sicurezza e Difesa come “risposta -dicono anche nel sottotitolo- a pericoli e declino” del vecchio continente, specie ora che è stato investito dalla guerra in Ucraina. Una guerra, in verità, non ancora scoppiata quando i due autori avevano persino terminato di scrivere il loro pamphlet, come deduco dalla data della prefazione di Prodi: il 2 gennaio scorso. Ma che Battaglia e Silvestri hanno fatto in tempo a inserire poi nelle loro motivazioni scrivendone all’inizio con tempestività giornalistica e dedicandole il titolo: “Guerra in Europa”.

Adolfo Battaglia

“Anche se moltissime cose sono cambiate -hanno osservato, anzi esordito l’ex ministro repubblicano dell’Industria e l’ex sottosegretario alla Difesa, fra gli anni rispettivamente della mai abbastanza rimpianta Prima Repubblica e i primi della seconda- l’Europa ha vissuto una volta di più l’esperienza dei carri armati russi inviati a ricondurre all”ordine” un Paese al quale Mosca riconosce “una sovranità limitata dai propri interessi”. “In questo caso l’Ucraina, un tempo -hanno ricordato gli autori- l’Ungheria, la Polonia o la Cecoslovacchia”, in una sinistra continuità fra la Russia sovietica e quella post-sovietica di Putin sulle tracce non più di Stalin e successori ma, ancor prima di loro, di Pietro il Grande. 

Stefano Silvestri

“Questa volta -si legge nel pamphlet- l’intervento è stato accompagnato da tali intimidazioni e violazioni del diritto internazionale da ricordare ad alcuni, sebbene la Storia non si ripeta mai, la buia stagione della Conferenza di Monaco, che nel 1938 segnò l’inizio dell’aggressione hitleriana all’Europa”. E poi, osservo più modestamente  io, c’è ancora chi contesta gli aiuti militari dei paesi europei e degli alleati atlantici all’Ucraina così ferocemente aggredita dalla Russia. 

La formazione di un Consiglio Europeo di Sicurezza e di Difesa è proposto nel saggio di Battaglia e Silvestri “fra un certo numero di nazioni, fortemente integrato, strettamente collegato alla Nato e all’Ue, ma esterno e indipendente da ambedue”. “E con l’introduzione dell’indispensabile principio del voto a maggioranza, accompagnato forse dalla “valvola di sicurezza” già individuata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: un possibile diritto di veto che rappresenterebbe un “bilanciamento” utile tanto per motivi politici quanto per ragioni giuridiche di possibili obiezioni costituzionali”.

Un’immagine emblematica della solidarietà europea all’Ucraina aggredita dalla Russia: il viaggio di Draghi, Macron e Scholz a Kiev

Questa soluzione, pur essendo “una formula di compromesso” rispetto ad altre più stringenti ed immediate ma di difficile realizzazione, “avrebbe il vantaggio di stabilire subito la volontà comune di raggiungere un obiettivo ambizioso”, senza peraltro limitarsi a “condurre insieme alcune operazioni militari”, ma procedendo “anche a forme di integrazione degli strumenti, riducendo drasticamente le attuali duplicazioni nazionali a vantaggio di comandi e organizzazioni multinazionali”. “E’ illusorio -spiegano gli autori- porsi oggi l’obiettivo difforme di armate europee perfettamente integrate in un’unica realtà, ma dovrebbe essere possibile integrare il loro funzionamento e le loro programmazioni”.

Un Consiglio Europeo di Sicurezza e di Difesa risponde anche alla necessità di non proseguire nella situazione attuale da alcuni riconducibile persino allo “schema ben noto nella difesa europea di “ognuno per sé e gli Usa per tutti”, che ha caratterizzato la Nato negli anni della Guerra Fredda, ma che oggi sembra essere definitivamente condannato a entrare in crisi”. Uno schema peraltro che consente la degenerazione delle polemiche, nel caso della vicenda dell’Ucraina, sino alla rappresentazione di guerre “per procura”. Tale sarebbe quella che Zelensky condurrebbe, secondo gli avversari e critici, per conto degli americani, sulla pelle del proprio Paese.

La strada verso una comune difesa, come quella già percorsa della moneta unica, consentirebbe all’Europa di uscire anche dal cono d’ombra lamentato da Prodi in una sua autobiografia dell’anno scorso, e ricordato con una certa condivisione da Battaglia e Silvestri a proposito delle sue conferenze e lezioni in Cina e negli Stati Uniti. “Nel periodo iniziale del mio insegnamento – aveva ricordato Prodi, ex presidente, non dimentichiamolo, della Commissione Europea, e non solo del Consiglio dei Ministri italiano- tanto gli studenti cinesi quanto quelli americani mi chiedevano con insistenza di tenere lezioni sull’Unione Europea. Col passare del tempo l’Europa ha interessato sempre meno i miei studenti dell’Est e dell’Ovest. Oggi, poco o nulla”. 

La strada verso una comune difesa europea e il progresso dell’economia nell’Unione, che egli ha vantato “a differenza dei due autorevoli autori” del saggio, potrebbero far tornare “gli studenti cinesi e americani”, come li ha chiamati nella prefazione Romano Prodi, a “dedicare almeno un minimo di attenzione al vecchio continente”. 

Pubblicato sul Dubbio

Berlusconi passa dall’incidente Draghi a quello Brunetta. Quale sarà il prossimo?

In questa campagna elettorale che, fra tutte in settantasei anni di storia della Repubblica è insieme la più breve e rovente, Silvio Berlusconi rischia di perdere sul terreno che più gli dovrebbe essere più congeniale, conoscendo la sua competenza quasi maniacale in tema di comunicazione, d’immagine e simili. 

Dalla prima pagina del Corriere della Sera

Mi rendo conto che l’ex presidente del Consiglio non potrebbe separarsene così presto dopo tutto quel chiasso mediatico attorno alla cerimonia quasi nuziale con la deputata forzista Marta Fascina. Una cerimonia già sfortunata di suo sul piano politico con quel giudizio del quasi sposo sull’ospite Matteo Salvini come “l’unico, vero leader d’Italia”. Che fu obiettivamente uno schiaffo ai tanti che nella sua Forza Italia già soffrivano per le prestazioni del capo della Lega e alleato. Tanti, fra quali il più misurato, se non ricordo male, era il ministro Renato Brunetta. Che però questa volta non è riuscito a trattenersi lasciando rumorosamente il partito condizionato a tal punto dagli umori e dagli interessi di Salvini da avere partecipato alla finzione di fiducia, in realtà sfiducia per fuga dall’aula, a Mario Draghi dopo la discussione di “verifica” al Senato disposta dal presidente della Repubblica. 

Berlusconi con Marta Fascina

Mi rendo conto, dicevo, che non potrebbe separarsene così presto, ma la quasi nuova consorte ha fatto a Berlusconi un guaio grosso come tutte le sue case messe insieme, quasi una città, aderendo alla campagna forzista contro Brunetta in groppa alla derisione del nano. Il quale “è una carogna di sicuro perché ha il cuore troppo vicino al buco del culo”, dice un verso scurrile di una vecchia canzone di Fabrizio de Andrè rilanciata dalla quasi consorte -ripeto- di Berlusconi condividendo telematicamente un attacco per tradimento al ministro. Il quale sarà pure nano, tappo, o il “manganello tascabile” una volta affibbiatogli da un Massino D’Alema più urticante del solito, ma non è un fesso. Tutt’altro. 

Sin quasi a farsi ancora più basso di quello che è, il ministro cogliendo in fallo la famiglia allargata del Cavaliere si è avvolto nella tela della vittima in televisione, a Rai 3, procurandosi simpatie e, forse fra qualche settimana, dovunque o con chiunque intende candidarsi, voti che sino all’altro ieri avrebbe potuto solo sognare. E ciò persino fra i dipendenti della pubblica amministrazione che come ministro, sempre sino all’altro ieri, lo hanno contestato di brutto per la sua ostinata volontà di farli lavorare davvero, o comunque più di quanto fossero abituati. 

Berlusconi con Licia Ronzulli

E brava la signora deputata -ripeto- Marta Fascina, per quanto la donna, anch’essa parlamentare, politicamente ancora più vicina a Berlusconi, e graduata, la senatrice Licia Ronzulli, abbia tenuto a descriverla, in una intervista a Repubblica, “persona buona”. Che “non credo avesse l’intento di offenderlo”, ha detto parlando rispettivamente della quasi signora Berlusconi, appunto, e di Brunetta.  

Ciò che non era riuscito a fare Maurizio Crozza del mio amico Renato con le sue imitazioni, è riuscita Marta Fascina: dargli tutti quei centimetri negatigli dalla natura e trasformarlo da nano a gigante. Complimenti. E grazie. 

Ripreso da http://www.policymakermag.it e www,startmag.it

Grillo taglia a Conte quel poco d’erba che gli è rimasto sotto i piedi

Povero Conte, verrebbe voglia di dire, nonostante i guai da lui combinati nella offensiva contro Draghi prima che gli dessero sorprendentemente una mano anche Silvio Berlusconi e Matteo Salvini. Povero Conte, dicevo, che verrebbe voglia di consolare dopo l’altra terra che gli ha scavato sotto i piedi Beppe Grillo commentando l’infausto epilogo della legislatura ruotata attorno alla “centralità”, addirittura, del MoVimento 5 Stelle. 

Finalmente staccatosi da quel pur metaforico telescopio spaziale James Webb esibito per giorni sul suo blog per ammirare le stelle ben più reali, numerose e lontane delle sue, il fondatore, garante, “elevato” e via sproloquiando ha rilanciato come proposta di legge dello Stato il limite massimo dei due mandati stabilito per il proprio movimento. In deroga al quale, invece, Giuseppe Conte stava lavorando nella valutazione una volta tanto realistica dei danni derivanti dall’improvvisazione di una classe dirigente e parlamentare selezionata senza meriti ed esperienza. E ciò, per giunta, nella prospettiva di elezioni come quelle del 25 settembre, che i grillini dovranno affrontare da soli, cacciati praticamente fuori dal “campo largo” di Enrico Letta e del Pd. 

Titolo del manifesto

Da soli, in verità, i grillini avevano corso anche nel 2018, ma in condizioni ben diverse, vincendo -o quasi- grazie al fatto che nessuno li aveva davvero sperimentati. Ora che essi hanno potuto dimostrare di cosa fossero e siano tuttora capaci, facendo aumentare per esempio la povertà che avevano baldanzosamente annunciato dal balcone di Palazzo  Chigi di avere eliminato col reddito di cittadinanza, sarà impossibile ripetere la lotteria di quattro anni e mezzo fa. Adesso davvero rischiano di essere “mandati a quel paese”, come dice il titolo felice del solito manifesto giocato appunto sui mandati reclamati da Grillo nel numero di due e non di più. 

Vignetta del Secolo XIX
Beppe Grillo sul suo blog

Anche dove e quando ha voluto dare spazio agli umori, stupori e quant’altro di Conte, per esempio a causa dell’”aggressione” di cui il movimento sarebbe vittima per gli attacchi che riceve da ogni parte, Grillo ha finito più per danneggiarlo che aiutarlo reclamando orgoglio e non paura. “Sono tutti contro di noi. Siamo appestati”, ha convenuto il “garante” prendendosela anche con “i bulli della stampa”, ma per aggiungere: “Ciò significa una sola cosa: vuol dire che abbiamo ragione. Non fatevene un problema. Noi siamo antibiotico e se perdiamo questo perdiamo il baricentro in cui collocarci”. E’ un pò la versione farmaceutica del famoso motto di Benito Mussolini “molti nemici molto onore”. Che il vignettista Stefano Rolli su un giornale che dovrebbe essere di casa per Grillo -il genovese Secolo XIX- ha felicemente tradotto nella follia di andare con allegria “contromano in autostrada”. 

Altro titolo dalla prima pagina di Repubblica
Titolo di Repubblica su Enrico Letta

A proposito di Mussolini e dintorni, il giornale che più vistosamente e rapidamente si è schierato a favore del Pd – la Repubblica- ha molto valorizzato, facendone l’apertura, l’alternativa gridata da Enrico Letta: “O noi o Meloni”. Il cui partito è ormai prevalente nel centrodestra, anche se Berlusconi non gli vuole perciò riconoscere la prenotazione di Palazzo Chigi in caso di vittoria, sostenendo che debbano poi essere i parlamentari eletti nelle sue liste a designare il candidato a presidente del Consiglio prima delle consultazioni del capo dello Stato per la formazione del nuovo governo. 

Ma più ancora di quel “noi o Meloni”, pur messo graficamente sotto il titolo -ripeto- di apertura di prima pagina, vale per la campagna elettorale e ciò che accadrà dopo questo vistoso richiamo di un articolo all’interno: “Il passato che non passa. L’anima nera del neofascismo di Fratelli d’Italia”. Eppure siamo solo agli inizi, e neppure formali, di questa breve e rovente campagna d’estate per il rinnovo autunnale delle Camere nel formato ristretto, voluto dai grillini con la complicità di tutti gli alleati di turno, di 600 seggi, contro i 945 uscenti. 

Ripreso da http://www.policymakermag.it

Ripreso da http://www.startmag.it il 25 luglio

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