La crisi di governo appesa alla corda di un enigmatico Luigi Di Maio

            Quel “Pentrastressato” sulla prima pagina del quotidiano il manifesto rende bene l’idea della crisi appesa -a pochi giorni dalla prevista, promessa, attesa e quant’altro formazione di un nuovo governo di Giuseppe Conte- alla corda di Luigi Di Maio. Che, quanto più viene orgogliosamente indicato dai suoi amici e fidati capigruppo parlamentari  come “il capo” del movimento grillino, reclamandone il rispetto, tanto più appare incerto, nervoso, insicuro. E cerca di nascondere questa realtà alzando la voce e la posta nella trattativa col presidente del Consiglio uscente, pur da Gazzetta.jpglui proposto al capo dello Stato per il reincarico e imposto a un riluttante segretario del Pd rappresentato in canottiera da qualche vignettista. Alza la voce, Di Maio, sino a porre ultimatum, a irrigidirsi sugli “irriunciabili venti punti” del programma del suo partito, a proteggere a sorpresa i decreti  di Matteo Renzi sulla sicurezza in materia di sbarchi degli immigrati dalle contestazioni del Pd, e a minacciare anche lui, come il vice presidente leghista uscente e non rientrante del Consiglio, le elezioni anticipate.

            Di fronte a questa gestione della crisi, e dello stesso movimento che Beppe Grillo gli lascia ancora rappresentare, nonostante alluda a lui come a “un poppante” negli interventi affidati al proprio blog, la Repubblica Repubblica.jpgdi carta ha interrotto il conto alla rovescia delle albe mancanti a quella del governo Conte 2, o bis, come lo definiscono altri, e si è chiesta nel suo titolo di apertura “a che gioco gioca Di Maio”. Sul conto del quale il tesoriere, e altro ancora, del Pd Luigi Zanda non ha dubbi definendolo “poltronista”, attaccato cioè alla carica di vice presidente del Consiglio, che reclama anche nel nuovo governo, e ancora tentato, sotto sotto, dal pur assai improbabile recupero, a questo punto, dell’alleanza con i leghisti.

            Intanto i mercati finanziari hanno cominciato a dismettere la fiducia manifestata di fronte al reincarico di Conte, badando di più alla sostanza della crisi recessiva italiana appena confermata dall’Istat con i dati sul secondo trimestre dell’anno. E lo stesso Conte, pur incoraggiato anche dal Papa Papa e Conte.jpgdavanti alla salma del cardinale Achille Silvestrini, oltre che dal presidente americano Trump e dai vertici uscenti ed entranti dell’Unione Europea, mostra segni di insofferenza, se non di allarme, per le docce fredde che Di Maio gli getta addosso dopo averlo incontrato, salvo magari fargli qualche telefonata di precisazione, mai di scuse, di fronte al putiferio politico e mediatico appena provocato.

            I meglio disposti verso Di Maio, questo enigma ormai della crisi, gli attribuiscono la furbizia, pur rischiosa perché il gioco potrebbe sfuggirgli di mano, di contenere il più possibile una base del movimento in fermento contro il governo nascituro e in procinto di pronunciarsi col solito referendum elettronico in base ad un quesito che sarà peraltro studiato apposta per deviarne attenzione, umori e quant’altro, scommettendo soprattutto  sul nome e sull’immagine di Conte.

            I peggio disposti invece verso il capo ancòra del movimento grillino , oltre a dargli del “poltronista”, come il già citato ex capogruppo del Pd al Senato Luigi Zanda, sospettano che, come Salvini dopo il 34 per cento  conquistato davvero nelle elezioni europee del 26 maggio scorso, egli si sia fatto prendere la mano, la lingua, la testa e chissà quant’altro dai sondaggi di questa fine d’agosto che danno i pentastellati al 24,2 per cento virtuale dei voti, dal 17,4 di metà luglio. Ne ha Corsera.jpgriferito il committente Corriere della Sera con un articolo di Nando Pagnoncelli rivelando anche che i leghisti sono passati, nello stesso periodo, dal 36 al 31,8 per cento, il Pd dal 21,6 al 22,3, Forza Italia dall’8,2 al 6 e la destra di Giorgia Meloni dal 6 al 7,8 per cento delle intenzioni di voto.

 

 

 

 

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Zingaretti contesta l’imparzialità o il terzismo del presidente del Consiglio

            Mentre tutti, o quasi, vedono e indicano nelle tensioni all’interno del movimento grillino le difficoltà Messaggero.jpgdi Conte sulla strada del suo secondo governo, di cui ancora Luigi Di Maio -o Di Moio, come lo chiama sarcasticamente Il Fatto.jpgin una vignetta di prima pagina l’insospettabile Fatto Quotidiano, di casa sotto le cinque stelle- sono giunti al presidente del Consiglio uscente e rientrante segnali dal Pd di cui dovrebbe preoccuparsi.

            Consapevole delle sorprese procurate a quanti, fuori e dentro il suo partito lo avevano lasciato qualche settimana fa fermo sul no ad un governo con i grillini prima di un passaggio elettorale, per cui ora fa i conti con titoli come quello di Libero, che gli dà del “grande buffone”, il segretario Libero.jpgdel Pd Nicola Zingaretti ha contestato il tentativo compiuto da Conte, accettando con la consuete riserva il reincarico, di posizionarsi come “terzo” fra le due parti della costituenda maggioranza giallorossa, o “giallorosa”, come preferisce chiamarla Travaglio per un curioso pudore. “Non è super partes”, ha avvertito Zingaretti ricordando che il professore e avvocato da più di un anno a Palazzo Chigi è lì per designazione dei grillini. E la durata del suo eventuale secondo governo -ha avvertito l’ex segretario del Pd Matteo Renzi, che Zingaretti ha dovuto inseguire e ad un certo punto anche scavalcare nelle Renzi.jpgaperture a sorpresa ai pentastellati- “sarà legata alla qualità della squadra”. Per cui non è detto che Conte possa considerarsi “sereno” sino al termine ordinario della legislatura, per dirla con una parola dello stesso Renzi rivelatasi politicamente fatale all’amico di partito Enrico Letta sei anni fa. D’altronde, anche una “squadra di governo” che parte col vento in poppa, persino nei mercati finanziari, può trovarsi in tutt’altre condizioni lungo la navigazione e fare naufragio, o qualcosa del genere.

            La prudenza, chiamiamola così, del Pd fa il paio con quella che traspare sul Colle dalla corrispondenza di Marzio Breda. Che, pur non smentendo “la fiducia” attribuita il giorno prima al capo dello Stato, mentre si accingeva a conferire l’incarico a Conte, ha avvertito che Sergio Mattarella non considera affatto un “governo del Presidente”, cioè da lui promosso, quello che è in cantiere. E’ un governo tutto “politico”, nato dalle scelte dei partiti che si sono dichiarati disposti a tentarne la formazione, nel programma e nella struttura, pur con la sorveglianza che il capo dello Stato si riserva di esercitare sulla scelta di certi ministri come quelli degli Esteri, della Difesa, del Tesoro, della Giustizia e dell’Interno. Le cui competenze confinano o incrociano con particolare evidenza le prerogative del capo dello Stato. Ora sta a Conte “camminare sulle sue gambe”, ha fatto praticamente dire Breda a Mattarella.

            Il quirinalista del Breda.jpgCorriere della Sera ha probabilmente raccolto ed espresso gli umori, quanto meno, del presidente della Repubblica anche quando si è chiesto se non ci siano da aspettare sorprese dai numeri sempre ballerini della maggioranza al Senato, sia nella versione gialloverde ormai conclusa sia in quella giallorossa in arrivo. Ed ha allungato un filo di preoccupazione  su quello che potrebbe passare per la mente di Matteo Salvini, che sembra il grande sconfitto di questa crisi, quando organizza proteste in piazza e avverte: “Non vi libererete di me”.

           Di tutt’altro avviso sembrano tuttavia nella redazione manifesto.jpgdel manifesto, dove il leader del Carroccio, peraltro sottrattosi personalmente alle consultazioni di Conte a Montecitorio, è stato impietosamente immaginato come un migrante disperato su un gommone in avaria in alto mare, affidato al buon cuore del suo successore al Viminale. Dal quale il Pd, che ne rivendica peraltro l’assegnazione, si aspetta non una correzione ma una inversione di rotta nella gestione dei soccorsi e degli sbarchi dopo i 14 mesi di blocco dei porti, almeno a parole, e salvo interventi della magistratura, sotto la guida leghista del Ministero dell’Interno.

 

 

 

 

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Un Conte, se permettete, senza precedenti, nonostante le apparenze

La lodevole franchezza con la quale Giuseppe Conte, accettando con la consueta riserva l’incarico di formare un suo secondo governo, ha confessato di avere avuto “più di un dubbio” prima di prestarsi a cambiare maggioranza per cercare questa volta un’intesa col Pd, dopo quella dell’anno scorso con la Lega, non sarà sicuramente bastata né basterà nei prossimi giorni a placare Matteo Salvini. E tanto meno a convincerlo che il nuovo governo, come ha annunciato o promesso il presidente del Consiglio uscente e rientrante, non nascerà “contro” nessuno, e quindi nemmeno contro l’ormai ex alleato.

Il leader leghista, scaricato -diciamo così- da Conte in Parlamento già prima dell’apertura formale della crisi con un discorso al Senato che sembrava la requisitoria di un pubblico ministero, variante evidentemente della figura di “avvocato del popolo” vantata all’esordio politico, ha liquidato il suo ormai ex presidente del Consiglio come “un Monti bis”. Che sarebbe stato partorito, prima ancora che dal movimento grillino e ora anche dal Pd, piegatosi dopo una breve resistenza, dall’Unione Europea a conduzione franco-tedesca, come sarebbe accaduto appunto a Mario Monti nel 2011 succedendo all’ultimo governo di centrodestra di Silvio Berlusconi.

Meno male -verrebbe da dire- che Salvini si è fermato a Monti, che gli ha ricambiato la scortesia rinfacciandogli in qualche modo, fra le righe di una dichiarazione formalmente polemica solo verso Conte, di essersi guadagnato l’abbandono del presidente americano Donald Trump. Il quale si è insolitamente intromesso nella crisi italiana di governo sponsorizzando la conferma di “Giuseppi”, il presidente uscente del Consiglio, prima ancora che egli ricevesse formalmente l’incarico di succedere a se stesso. A vederlo e sentirlo davanti ai microfoni e alle telecamere nella loggia quirinalizia delle vetrate, dopo il secondo incontro del presidente della Repubblica con la delegazione della Lega, ho pensato ad un certo punto che Salvini volesse ripetere di Conte quello che Bettino Craxi disse del suo ex braccio destro Giuliano Amato dopo averlo mandato a Palazzo Chigi nel 1992, tra i marosi giudiziari e fisici di Tangentopoli: “un professionista a contratto”.

Craxi si sentì tradito dal suo ex sottosegretario tre volte: quando da Palazzo Chigi tardò a tentare la cosiddetta uscita politica da Tangentopoli varando troppo tardi il decreto legge per la depenalizzazione del finanziamento irregolare dei partiti, lasciandoselo peraltro bocciare dal capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro senza dimettersi e provocare una crisi;  quando ad un convegno di studi a Londra l’allora presidente del Consiglio parlò politicamente al passato del leader socialista, appena raggiunto dagli avvisi di garanzia; quando infine tornò a Palazzo Chigi, nel 2001, raccogliendo la staffetta da Massimo D’Alema.

Naturalmente Conte ha spiegato il superamento degli iniziali dubbi e “perplessità”, ha aggiunto, richiamandosi e mettendosi al servizio degli interessi superiori del Paese, che reclamano “un nuovo progetto politico” e “una nuova stagione riformatrice”, dopo l’infelice epilogo dell’”esperienza” con i leghisti. Ognuno ha naturalmente il diritto di credergli o di diffidarne, non essendosi francamente mai visto un politico, di professione o arrivato da altri mestieri, così eroicamente sincero da confessare l’incidenza non dico di un interesse ma almeno di un’ambizione personale a sostegno di una sua scelta, diciamo così, a sorpresa. Conte, d’altronde, ha il diritto di essere creduto sino a quando i fatti non lo dovessero smentire con una gestione del suo nuovo governo finalizzata solo alla sopravvivenza sino al 2023, per tutta la durata della legislatura cominciata l’anno scorso, o almeno sino al 2022, quando scadrà il mandato dell’attuale capo dello Stato e dovrà esserne eletto il successore. Che potrebbe essere, con i nuovi equilibri che vanno formandosi a chiusura di questa crisi, anche lui. Ma non spingiamoci troppo avanti con la fantasia, cadendo nel tranello delle solite corse al Quirinale cominciate troppo presto, fra retroscena e quant’altro, rispetto alle scadenze istituzionali.

In una cosa tuttavia ritengo che i sostenitori di Conte,  persino a dispetto delle sue attese e dei suoi legittimi interessi politici, facciano male in queste ore di dura fatica per lui, costretto a muoversi tra le solite insidie dei partiti, specie quando essi sono divisi al loro interno, anche dietro la facciata dei voti unanimi, o quasi, della direzione, come nel caso del Pd, e non solo dei grillini. Che hanno il vantaggio o l’inconveniente, come preferite, di non avere organi trasparenti di direzione, consigli nazionali, comitati centrali, congressi e quant’altro ma solo incontri riservatissimi di vertice, messaggi trasversali a distanza e consultazioni elettroniche gestite dall’esternissima piattafforma Rousseau ereditata in casa da Davide Casaleggio.

I sostenitori di Conte fanno male, in particolare, a cercare di coprirlo, proteggerlo, difenderlo confezionandogli a tavolino progenitori politici dai nomi altisonanti come quelli di Giulio Andreotti, Amintore Fanfani, Aldo Moro,  in ordine rigorosamente alfabetico e per restare nei confini della defunta Democrazia Cristiana, o di Romano Prodi spingendosi più avanti e arrivando ai viventi, o ai superstiti della cosiddetta seconda Repubblica.

Di Prodi, francamente, per quanto sia stato prodigo di consigli nei giorni scorsi agli attori e protagonisti di questa crisi, non voglio augurare a Conte di ripetere le due esperienze di governo di cosiddetto centrosinistra, entrambe chiuse anzitempo, e di molto, per fuoco cosiddetto amico, come se fossero stati governicchi, e non i governi delle grandi prospettive e dei grandi propositi inizialmente presentati alle Camere per una fiducia destinata a rivelarsi effimera.

Andreotti, Fanfani e Moro, più volte scomodati nelle loro tombe durante questa crisi come santini per il governo Conte 2, come giustamente Marco Travaglio pretende che sia chiamato  contestando la definizione di Conte bis, sono un po’ troppo lontani dalle condizioni politiche attuali per essere solo immaginati alle prese con un’anomalia come quella del movimento delle cinque stelle. Che essi non potettero neppure immaginare in vita, pur avendo avuto a che fare con fenomeni terribili come quello del terrorismo.

Anche questi, per carità, sono tempi di “odio” da cui uscire, come ha detto il segretario del Pd Nicola Zingaretti. Ma almeno è un odio, almeno sino ad ora, disarmato, fatto di parole e non di pallottole.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

L’incarico a Giuseppe Conte c’è. Manca tutto il resto per la soluzione della crisi

            L’incarico per la soluzione della crisi di governo c’è, con tanto di annuncio dopo il secondo giro di consultazioni al Quirinale, convocazione del premier uscente Giuseppe Conte e conferimento materiale del mandato. Peccato che manchi tutto il resto, a cominciare dal programma della costituenda alleanza fra grillini e Pd: un programma non traducibile in un altro “contratto”, come quello gialloverde dell’anno scorso che Beppe Grillo avrebbe forse preferito ammettendo però sul suo blog che ormai non c’è più il tempo di farlo in un’altra edizione, tra la fretta che ha Mattarella al Quirinale di chiudere questo agosto di fuoco e la scadenza a breve della solita consultazione elettronica degli iscritti al movimento. Essa naturalmente si svolgerà attraverso la cosiddetta piattaforma Rousseau gestita da Davide Casaleggio, che non ne risponde praticamente a nessuno, neppure a Grillo, e tanto meno al capo ancora formale dei pentastellati che è Luigi Di Maio.

            La crisi deve quindi fare ancora i conti con le trattative sul programma che -ha avvertito Di Maio dopo l’incontro con Mattarella- dovrà risultare “omogeneo” non si è ben capito a che cosa: se al programma, a sua volta, non ideologico, “né di destra né di sinistra”, del movimento a 5 stelle o alle sue personali aspettative ed esigenze, ora che la propria leadership è talmente indebolita da costringere i capigruppo parlamentari a ribadirla davanti a microfoni e telecamere, ammonendo i dissidenti a non sottolinearne la precarietà. Che deriva dai sei milioni e rotti di voti perduti in un anno, fra le elezioni politiche e quelle europee, e la crescita esponenziale della figura e del ruolo di Conte nella crisi riproponendone lo stesso Di Maio la conferma a Palazzo Chigi, pur senza la garanzia di poter conservare per sé una vice presidenza.

            Un altro colpo alla cosiddetta – a questo punto- leadership di Di Maio l’ha data l’ormai incontenibile Grillo lanciando nel vuoto sul suo blog, fra le stelle, il tavolo del Consiglio dei Ministri ridottosi, Nota di Grillo.jpgsecondo lui, ad un poltronificio senza meriti e competenze, per cui Conte è stato invitato a mettere a capo dei vari dicasteri solo dei tecnici, che conoscano davvero le loro materie, e lasciare ai politici solo le cariche di sottosegretario.

           Una precisazione seguita ad una telefonata di comprensibile sorpresa, a dir poco, da parte dello stesso Di Maio, ha in qualche modo aggravato anziché ridurre la portata della proposta grillina. Ridurre l’esigenza dei tecnici al vertice dei Ministeri “più tecnici”, come ha appunto precisato il comico, è apparsa polemicamente allusiva, a torto o a ragione, all’aspirazione attribuita a Di Maio, una volta fallita la scalata al Viminale, di spostarsi al vertice del Ministero della Difesa, a meno che il vice presidente del Consiglio e pluriministro uscente dello Sviluppo Economico e del Lavoro non abbia sconosciute competenze militari.

            Per quanto l’informato quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda abbia scritto, dopo il secondo giro di consultazioni e l’annuncio dell’incarico, anzi del reincarico a Conte, di un Mattarella finalmente “fiducioso” e sollevato dall’accordo politico fra grillini e Pd, annunciato da Di Maio solo in riferimento al mandato al presidente uscente del Consiglio, salvo -ripeto- tutto il resto, nella redazione della Repubblica di carta sono stati assai cauti, se non diffidenti, conRepubblica.jpg quel titolo di prima pagina in cui si avverte Conte, pur incoraggiandolo, che “sarà dura”. E dura, probabilmente, sia a far quadrare i conti del programma e degli incarichi ministeriali, sia poi a durare davvero per tutto il tempo lungo che il presidente del Consiglio uscente e rientrante si è proposto di durare già quando fece l’anno scorso l’accordo con i leghisti: per tutto il quinquennio ordinario della legislatura.

            Naturalmente a scommettere poco sulla durata del governo Conte 2, come il direttore del Fatto Quotidiano reclama che si chiami contestando il “Conte bis” rappresentato più diffusamente per via di quella porta girevole di Palazzo Chigi che ha ispirato, fra gli altri, il vignettistaLa Gazzetta.jpg della Gazzetta del Mezzogiorno, è il leader leghista Rolli.jpgMatteo Salvini. Che si è tolta, fra l’altro, la soddisfazione nella Loggia delle Vetrate, al Quirinale, dopo l’incontro di Mattarella con la delegazione del Carroccio, di scaricare la responsabilità delle mancate elezioni anticipate soprattutto su Matteo Renzi. Ai cui amici parlamentari nel Pd ha alluso Salvini  parlando dei cento, fra deputati e senatori, arroccatisi nella difesa dei loro seggi in pericolo sia per l’incognita in sé delle urne sia per la poca voglia, diciamo così, del nuovo segretario del partito di ricandidarli, nell’ottica della “derenzizzazione” del partito che lo ha portato a guidarlo.

            Anche Salvini tuttavia ha rimesso un po’ di penne, cioè di credibilità, quando nella stessa loggia quirinalizia, dopo meno di un’ora, Di Maio ha confermato, con apparente gratitudine e al tempo stesso con l’orgoglio di avergli resistito, di avere ricevuto dal leader leghista la proposta di assumere la guida di un nuovo governo gialloverde, una volta constatata l’improbabilità delle elezioni anticipate reclamate imboccando la strada della crisi. A conclusione della quale si farà fatica ad assegnare il premio, diciamo così, della faccia perduta paragonando le posizioni di partenza, o della vigilia, e quelle di arrivo.

 

 

 

 

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Trump promuove Conte e Grillo scarica Di Maio parlando con Dio

            Se Don Camillo, il felicemente famoso parroco di Giovannino Guareschi, parlava con Gesù dei problemi che gli procurava il baffuto e comunista Peppone, un presuntuoso Beppe Grillo parla della crisi di governo direttamente con Dio dal suo blog personale. E ne ottiene praticamente l’ordine o il consenso, come preferite, a prevenire le consultazioni elettroniche di rito nel suo movimento e a far salire alle stelle Giuseppe Conte, col suo secondo governo, buttando giù il “poppante” Grillo 2 .jpgLuigi Di Maio dalle stelle alla stalla di un capo dimezzato, arroccatosi come un “poppante”, appunto, “che ciuccia” nella difesa della postazione di vice presidente del Consiglio. Che il Pd rivendica invece solo per un suo uomo, non importa chi, volendo restituire alla “grammatica politica”, come dicono non a torto al Nazareno, la formazione dei governi di coalizione. Dove di solito, quando l’alleanza e a due, il vice presidente è uno solo e rappresenta il partito che non dispone della Presidenza, con la maiuscola.  La conferma di Conte a Palazzo Chigi è stata del resto reclamata come condizione irrinunciabile dei grillini per la soluzione della crisi dallo stesso Di Maio, rimasto quindi prigioniero del suo stesso gioco, pensando di potere perpetuare l’anomalia del governo uscente. Che fu costituito poco più di un anno fa con due vice presidenti del Consiglio fingendo di considerare Conte un uomo “terzo”, per quanto già allora designato dai grillini e scelto fra i candidati ministri, e neppure tra i maggiori, di un monocolore pentastellato immaginato prima delle elezioni.

            Adesso Conte, grazie anche -ripeto- a Di Maio con l’approccio Di Maio e Conte.jpgal negoziato col segretario del Pd Nicola Zingaretti, è grillino a tutti gli effetti, politici e mediatici, e un po’ pure capo dello stesso Movimento, scelto con una strizzatina d’occhio dal fondatore, “elevato”, “garante” e quant’altro. E’ comprensibile sul piano umano il disagio in cui può sentirsi il pluriministro uscente Di Maio, già in difficoltà per quei sei milioni e rotti di voti perduti rispetto ad un anno prima nelle elezioni europee del 26 maggio scorso, ma deve essere apparso esagerato anche a Grillo ch’egli abbia scommesso sul Pd -quello da lui liquidato sino a qualche giorno fa come il male assoluto- per puntellare in qualche modo la sua malferma eppure rivendicata leadership.

            Nonostante queste difficoltà di percorso verso la soluzione della crisi continuano i festeggiamenti di Conte, raggiunto addirittura da una certificazione di lealtà, affidabilità e quant’altro del presidente Trump pro Conte.jpgdegli Stati Uniti d’America Donald Trump. Che peraltro continua a declinare simpaticamente  al plurale il suo nome dandogli del “Giuseppi”. In Italia anche la Repubblica di carta, scettica e preoccupata davanti ai primi segnali della trattativa pur auspicata tra grillini e Pd, si è decisa a dare la sua benedizioneRepubblica.jpg laica, e di memoria montanelliana con quel “Rieccolo” già soprannome del democristianissimo Amintore Fanfani, a un governo chiamato “Conte bis”, nonostante le ripetute diffide del Fatto Quotidiano. Che reclama, per distinguerlo meglio dal l Fatto.jpgprimo governo concordato e realizzato l’anno scorso con i leghisti, la denominazione controllata di “Conte 2”. In cui però sembra di capire che anche il giornale diretto da Marco Travaglio cominci a sospettare che ci siano troppi contrasti, visto che nel fotomontaggio di prima pagina ha chiamato “nemici miei” protagonisti e attori dell’operazione che sta per approdare, con le consultazioni al Quirinale, nello studio del capo dello Stato.

            Sono cinque i “nemici miei” scelti da Travaglio nel mazzo dei vincitori, salvo sorprese, di questa crisi definita da varie parti “la più pazza del mondo”: Matteo Renzi, già “ebetino” negli insulti di Beppe Grillo negli anni in cui l’ex sindaco di Firenze era segretario del Pd e presidente del Consiglio, lo stesso Grillo ora in collegamento diretto con Dio, Nicola Zingaretti, Giuseppe Conte e Luigi Di Maio. Buona lotta, più che buona notte, verrebbe da dire.

           

 

 

 

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Zingaretti ha resistito alla conferma di Conte sino a un momento prima di cedere

            Come diceva la buonanima del socialista Fernando Santi dell’allora segretario del suo partito Francesco De Martino, anche a Nicola Zingaretti, segretario del Pd, è toccato in questa crisi agostana di governo di “resistere fino a un momento Conte 2 .jpgprima di cedere” alla conferma a Palazzo Chigi di Giuseppe Conte. Che egli ha dovuto anche incontrare per confermargli a voce la rinuncia al veto posto nei giorni scorsi contro di lui in nome della “discontinuità” della nuova maggioranza e compagine ministeriale rispetto a quelle gialloverdi uscenti.

            Pur convinto di poter ottenere in cambio una forte “discontinuità” nella distribuzione dei dicasteri, Zingaretti si è scontrato anche su questo terreno con forti resistenze del capo formale del Movimento delle 5 Stelle Luigi Di Maio. Che è disposto ad accontentarsi  personalmente di un solo Ministero, rispetto ai due che ora guida per gli affari correnti, quelli dello Sviluppo Economico e del Lavoro, ma non intende rinunciare alla vice presidenza del Consiglio. Egli ha spalleggiato, in entrambi gli incontri avuti con Zingaretti per sbloccare la situazione, la pretesa di Conte, nonostante la sponsorizzazione fattane personalmente da Beppe Grillo, di essere considerato “terzo” fra pentastellati e Pd. Per cui a un vice presidente del Consiglio piddino dovrebbe continuare ad esserne affiancato uno grillino.

            C’è da giurare che il “toto-ministri” continuerà sui giornali, tra retroscena e cronache fatte di dichiarazioni, sino all’ultimo momento, anche oltre l’appuntamento di domani delle delegazioni della costituenda nuova maggioranza al Quirinale con Mattarella per il secondo giro di consultazioni e il conferimento dell’incarico al presidente uscente del Consiglio. Continuerà, il toto-ministri, anche quando Conte porterà la lista al capo dello Stato e dovrà magari cambiarla su richiesta di chi poi deve nominare davvero i titolari dei dicasteri, su alcuni dei quali -per esempio, il Tesoro, la Difesa, la Giustizia e gli Esteri- il presidente di turno della Repubblica è generalmente molto attento sia per il loro rilievo anche internazionale sia per l’affinità delle loro competenze con le sue prerogative e funzioni costituzionali. Il presidente della Repubblica presiede anche il Consiglio Superiore della Magistratura ed  è capo delle Forze Armate, con tutti i risvolti geopolitici che ne derivano.

            Erano largamente prevedibili, di fronte allo sblocco della situazione con la rinuncia di Zingaretti al vetoil Fatto.jpg contro Conte, il sollievo e persino l’entusiasmo di giornali schierati nettamente per una maggioranzamanifesto.jpg giallorossa come Il Fatto Quotidiano – che ha addirittura annunciato “la vendetta” del governo “Conte 2”,  da non chiamare assolutamente “Conte bis”- e il manifesto. Che ha incoraggiato, salvo umorismo, Zingaretti e Di Maio a fare sino in fondo “la cosa giusta”.

            Molto meno soddisfatta e convinta è apparsa la Repubblica di carta con un titolo di apertura che dà praticamente in crisi il nuovo governo, prima ancora della sua nascita, e con un commento la Repubblica.jpgdell’editorialista politico Stefano Folli abbastanza urticante per Conte e gli Folli.jpgaltri protagonisti o attori di questa crisi, liquidata come “un gioco spregiudicato”, finalizzato solo o soprattutto ad evitare le elezioni anticipate. Ma non ad evitare -aggiungerei- le campagne elettorali autunnali e primaverili in regioni molto importanti, come quelle tradizionalmente rosse dell’Emilia Romagna, dell’Umbria e della Toscana.

           Esse erano già in pericolo prima della crisi di governo. Ora una sconfitta diventerebbe per il Pd ancora più rovinosa perché attribuibile direttamente all’intesa “giallorosa”, come la chiama Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano. Cui Zingaretti si è acconciato rinunciando alle elezioni anticipate reclamate anche da lui, come da Matteo Salvini sul versante opposto, e inseguendo nell’inversione di marcia Matteo Renzi. Il cui peso, già notevole nei gruppi parlamentari modellati sulle candidature da lui decise quando regnava al Nazareno, adesso sembra destinato a tornare a crescere anche nel partito. Che potrebbe rischiare davvero, se dovesse resistergli, la scissione attribuita già da tempo ai progetti dell’ex segretario un po’ stretto nei panni del semplice “senatore di Scandicci”, ostentati dopo le dimissioni impostegli dalla pesante sconfitta elettorale dell’anno scorso.

 

 

 

 

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Esagerato il paragone di Conte ad Andreotti, Di Maio a Moro e Zingaretti a Berlinguer

E’ un po’ sfuggito di mano in questa crisi anche l’esercizio, o gioco, delle analogie in cui ci siamo cimentati pure noi del Dubbio discutendo, per esempio, sulla somiglianza di Giuseppe Conte più al compianto Giulio Andreotti o al felicemente vivente Mario Monti, o altri ancora. Abbiamo persino cercato di fare sciogliere il nodo, come ha fatto simpaticamente l’amico Paolo Armaroli allo stesso presidente uscente del Consiglio, che ha preferito tenersene lontano  forse per non compromettere la già difficile partita di Palazzo Chigi che si gioca anche su di lui, almeno sino al momento in cui scrivo.

Michele Brambilla sul Quotidiano Nazionale ha dato, non certo per offenderlo, del Rieccolo di montanelliana memoria a Matteo Renzi per avere saputo tornare sulla scena a sorpresa dal retroscena del progetto attribuitogli, a torto o a ragione, di una scissione del Pd con i suoi quasi comitati civici di ricordo democristiano. Il Rieccolo di Montanelli era Amintore Fanfani, toscano come Renzi, che già si compiacque di essergli paragonato nel 2004, quando da segretario del partito e presidente del Consiglio insieme portò il suo partito al 40 per cento abbondante dei voti nelle elezioni europee. Che, in verità, non c’erano ancora ai tempi d’oro di Fanfani, riuscito a portare a casa quel bottino nel 1958 in un turno  concretissimo di elezioni politiche che i suoi avversari interni non gli perdonarono, detronizzandolo nel giro di meno di un anno da segretario del partito scudocrociato, presidente del Consiglio e ministro degli Esteri.

Renzi si risparmiò la Farnesina nel cumulo d’incarichi del 2014, ma poi pagò ugualmente pegno riducendosi dopo soli quattro anni al ruolo di semplice “senatore di Scandicci”. Che però in questa crisi, eliminate d’incanto tutte le scorte di pop-corn fatte l’anno scorso sventando la medesima operazione, ha voluto e saputo porre sul tavolo per primo,  obbligando il segretario del partito Nicola Zingaretti a seguirlo, o inseguirlo, il problema dell’accordo di governo con i grillini in funzione antisalviniana.

In verità, Fanfani in vita sua -ve lo assicuro- non  aspirò mai alla dieta dei pop-corn, neppure nei momenti più difficili o sofferti della sua lunga milizia politica. E debbo anche dire, con franchezza, che non tornò mai sulla scena rovesciando le proprie posizioni politiche, come ha fatto Renzi passando repentinamente dalla chiusura a più mandate ai grillini all’apertura incondizionata, sino a sospettare congiure, trame e quant’altro dietro ogni difficoltà lungo la strada dell’intesa col Movimento delle 5 Stelle.

L’unica virata che io ricordo di Fanfani fu quella della fine degli anni Sessanta, quando l’allora presidente del Senato contestò la “irreversibilità” morotea del centrosinistra che pure proprio lui aveva perseguito prima ancora di Moro, e quasi gestito come in una gravidanza a Palazzo Chigi con la formula delle cosiddette convergenze parallele con i socialisti. I quali prima si astennero e poi appoggiarono, rispettivamente, un suo monocolore democristiano e un tripartito Dc-Pri-Psdi. Seguì nell’autunno del 1963 il primo governo a partecipazione diretta dei socialisti guidato da Moro.

Curiosamente, a dir poco, in questi giorni di ricerca dì un’intesa fra grillini e piddini al Foglio di Giuliano Ferrara e di Claudio Cerasa hanno pensato di riproporre, non credo a caso ma come una specie di modello cui ispirarsi, il testo integrale del discorso col quale Fanfani presentò nell’agosto del 1960 il monocolore democristiano formato dopo l’avventura del governo scudocrociato di Fernando Tambroni, appoggiato in modo determinante dai missini e sfociato in sanguinosi disordini di piazza.

Vista la proiezione di quel monocolore di Fanfani verso l’obiettivo del centrosinistra, nella gradualità imposta dalle scadenze elettorali e dai passaggi congressuali della Dc gestiti con l’accortezza che era propria di Moro, allora segretario del partito, stento molto a vedere una qualsiasi analogia con i fatti e con la situazione attuali.

Data per scontata la collocazione a sinistra del Partito Democratico guidato da Zingaretti, in discontinuità -si disse anche allora- col moderatismo o addirittura col destrismo attribuito a Renzi prima della sua svolta a favore dei grillini, dovremmo vedere analogie fra i piddini e i socialisti degli anni Sessanta. Ma la sola idea di paragonare, conseguentemente, i pentastellati ai democristiani mi procura, francamente, le vertigini.

E’ vero che sul piano elettorale e parlamentare i grillini l’anno scorso, col loro 33 per cento dei voti, conquistarono la preminenza o la “centralità” che fu della Dc, ma è anche vero che essi l’hanno già perduta nelle elezioni del 26 maggio scorso per il rinnovo del Parlamento Europeo. E poi, via, cerchiamo di non esagerare col gioco, dicevo, delle analogie. E lasciamo riposare in pace i protagonisti della storia di una Dc che peraltro viene recuperata un po’ in ritardo dall’Inferno in cui avevano voluto cacciarla gli aspiranti alla seconda e poi terza Repubblica.

Hanno un bel richiamarsi, per esempio, i sostenitori di un governo Conte 2 con i grillini al monocolore democristiano del 1976 sostenuto dai comunisti per chiedere al Pd di Zingaretti di fare col presidente uscente del Consiglio ciò che il Pci di Enrico Berlinguer fece col pur “destro” Giulio Andreotti. Davvero vogliamo paragonare l’imparagonabile, politico e umano?

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

Ultime ore di suspense -si spera- prima delle nuove consultazioni al Quirinale

            Dalle lingue di fuoco di ieri, ispirate dalla foto del manifesto sull’Amazzonia che brucia, alle acque limacciose di oggi, quando è cominciato per la crisi di governo il conto alla rovescia delle nuove consultazioni al Quirinale. Che Mattarella sembrava addirittura tentato dalla clamorosa decisione di annullare, o quanto meno di ridure al minimo come segno della rassegnazione all’epilogo peggiore per i suoi gusti: lo scioglimento anticipato delle Camere reclamato soprattutto da Matteo Salvini, pur tra contorsioni che hanno obiettivamente compromesso la sicurezza, o spavalderia, ostentata inizialmente dal leader leghista fra spiagge e palchi da comizio.

            Nonostante gli incontri domenicali fra capigruppo ed esperti del Pd su quello che potrebbe essere il programma di governo da trattare con i grillini, la Repubblica di carta ha offerto ai lettori la rappresentazioneRepubblica.jpg pessimistica di una “fumata nera” e di un “futuro grigio”. Eppure il Corriere della Sera ha ricevuto una corrispondenza del solerte Marzio Breda cheCorsera.jpg ha titolato ottimisticamente, o quasi: “Adesso il Quirinale vede uno spiraglio”, per quanto attenuato, ridotto, contraddetto, come preferite, dai “tatticismi” ancora temuti dal presidente della Repubblica. Che pertanto avrebbe avvertito nelle ultime notizie raccolte direttamente o dai suoi collaboratori “poco più che indizi di buona volontà”, presumibilmente da parte soprattutto del Pd. Il cui veto alla conferma di Conte a Palazzo Chigi per l’esigenza della “discontinuità” si è tradotto nel principale ostacolo a un accordo.

            La Stampa, solitamente bene informata, o la più informata tra i giornali italiani delle vicende grilline, ha preannunciato in prima pagina “un jolly” dei pentastellati per Palazzo Chigi, non si sa se teso più a rimuovere la candidatura di Conte -che dal G7 di Biarritz è rimastoConte a Biarritz 2 .jpg in permanente contatto telefonico con Roma scherzando con i giornalisti sul casinò francese dove si svolge il vertice internazionale e sul casino, senza accento, della crisi italiana- o a compensarla con altre concessioni al Pd, come l’esclusione di Luigi Di Maio dal nuovo governo e/o un bel bottino di dicasteri. Ma del Pd si continua a diffidare molto nella redazione del Fatto Quotidiano, pur schierato maggiormente a favore dell’intesa “giallorosa”, come la chiama il direttore Marco Travaglio per renderla forse meno indigesta o allarmante, non solo per i tifosi della Roma,  dell’intesa “giallorossa”.

            La “cattiveria” di giornata del Fatto Quotidiano riguarda proprio il partito di Zingaretti e dice: “Trattare con La cattiveria.jpgil Pd sta facendo apprezzare a Di Maio l’affidabilità di Salvini”, d’altronde tanto generoso ormai col vice presidente e pluriministro uscente, nonché capo formale del movimento grillino, da avergli proposto la presidenza del Consiglio,  negatagli l’anno scorso,  pur di riesumare la maggioranza gialloverde.

            In una partita così intrecciata di ambizioni e di intrighi personali, e non solo di partiti, fra i quali si stenta a capire chi è più dilaniato all’interno fra il movimento di Grillo e il Pd, forse c’è solo da stringere i denti e sperare che finisca presto, in un verso o nell’altro. Ma il guaio è che c’è il rischio che finisca né in un verso né in un altro, con una soluzione provvisoria: il solito compromesso che non ci mandi a votare ma neppure ci risparmi una campagna elettorale permanente, già calendarizzata del resto con le elezioni regionali in programma fra l’autunno di questo mancato anno “bellissimo” di Conte e la primavera del 2020.

 

 

 

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Conte si rimette in gioco da Biarritz e complica ulteriormente la crisi

            Più che all’Amazzonia, da cui proviene la foto, le lingue di fuoco sulla prima pagina del manifesto potrebbero essere rapportate dagli occhi e dalla fantasia dei lettori del quotidiano orgogliosamente comunista alla crisi di governo italiana: “la più pazza del mondo”, è stata definita da alcuni osservatori e anche da alcuni dei protagonisti. Che ne contendono la gestione ad un presidente della Repubblica così sfiduciato, secondo qualche retroscena, da essere tentato di rinunciare al secondo giro di consultazioni annunciato troppo ottimisticamente per martedì e procedere allo scioglimento delle Camere con un esecutivo di garanzia, essendo quello uscente e dimissionario il meno adatto allo scopo per la presenza al Viminale del leader leghista Matteo Salvini, il “mostro” di turno del teatro romano della politica.

            A complicare ulteriormente le cose è intervenuto da Barritz, ospite del G7 a presidenza francese, il quasi ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte rilanciando la propria candidatura alla conferma, già posta con qualche problema da Luigi Di Maio sul tavolo della trattativa col segretario del Pd Nicola Zingaretti. Egli ha praticamente rivendicato il merito di avere rotto con i leghisti, di considerare davvero finita l’esperienza gialloverde, di badare solo al programma del nuovo governo e di avere quindi tutti  i requisiti per garantire la “discontinuità” reclamata dal possibile nuovo alleato dei grillini. Fra i quali peraltro la popolarità del presidente uscente, per quanto insidiata dall’”ortodosso” presidente della Camera Roberto Fico, molto apprezzato dalle parti del Pd, è cresciuta perché ritenuto abbastanza credibile per consentire al Movimento così fortemente penalizzato dai risultati delle elezioni europee del 26 maggio, con la perdita di sei milioni di voti in un solo anno, di recuperare terreno dopo avere rotto con Salvini.

            Con un entusiasmo o una fiducia tutta da verificare negli sviluppi della trattativa in corso fra Pd e Di Maio senza la rapidità, la concretezza e la chiarezza reclamate dal presidente della il Fatto.jpgRepubblica, col “forno” leghista  ancora aperto o socchiuso, nonostante le diffide di Zingaretti, nel frattempo rafforzatosi col consenso di Matteo Renzi -però venuto poi a mancare- al veto posto contro la Zingaretti.jpgconferma del premier dimissionario, il Fatto Quotidiano ha annunciato e festeggiato su tutta la sua prima pagina “il ritorno di Conte”. Un cui nuovo governo -ha spiegato con tono quasi da costituzionalista Marco Travaglio nell’editoriale- non meriterebbe di essere chiamato, anzi declassato a “Conte bis”, quale sarebbe se conservasse la stessa maggioranza, ma andrebbe chiamato “Conte 2”, essendo di tutt’altro tipo politico, discontinuo pur nella continuità del pilota. E giù a pescare, da parte del direttore del Fatto Quotidiano, precedenti nella storia politica della Dc, recuperata in questa occasione dall’Inferno cui era stata condannata con la fine della cosiddetta prima Repubblica.

            A dare una mano in qualche modo a Travaglio ha provveduto dalla Repubblica, quella di carta, il fondatore Eugenio Scalfari nel suo appuntamento domenicale con i lettori, e col ceto politico, Scafari.jpgvedendo nel “Conte 2” del Fatto Quotidiano quel “governo forte” di cui avrebbe bisogno “un’Italia nuova”. Esso dovrebbe basarsi sul binomio Conte-Enrico Letta, il presidente piddino del Consiglio detronizzato dall’allora segretario del partito Matteo Renzi, ancora fresco di elezione, dopo un invito a “stare sereno” che è ormai entrato nella letteratura politica come l’espressione emblematica del tradimento, doppio gioco e simili.

            Scalfari non lo ha scritto in modo esplicito, ma ha dato l’impressione di pensare ad una successiva promozione di Conte a presidente della Repubblica, quando scadrà il mandato quirinalizio di Sergio Mattarella, nel 2022, per riportare a Palazzo Chigi Enrico Letta, con le funzioni anche di ministro degli Esteri, avendo alle spalle un Pd nel frattempo maturo per raccogliere nelle urne dell’anno dopo, in combinazione con qualche cespuglio, qualcosa come il 40 per cento dei voti.

           Tuttavia, allo stato delle cose, da un sondaggio del 25 agosto pubblicato sulla prima pagina del Sole-24 Ore, il quotidiano della Confindustria, il Pd è valutato attorno al 24 per cento, il Movimento delle 5 Stelle attorno 24 Ore.jpgal 16,6 per cento e la Lega del pur vituperato Salvini attorno al 33,7 per cento. Che è meno del 38 per cento di qualche giorno fa, prima che si aprisse la crisi e se ne vedesse la complessità, ma sempre pari, o quasi, al 34 per cento raccolto nelle urne, quelle vere, delle elezioni europee di fine maggio.

 

 

 

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Le trattative di governo fra grillini e Pd si guastano tra cena e dopocena

             Saranno pure mancati nell’incontro fra i capigruppo parlamentari dei grillini e del Pd “problemi insormontabili”, come gli interessati hanno annunciato mandando gli italiani a cena, ma proprio a cena i capi dei due partiti, Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti, ospiti dell’ex democristiano d’area mastelliana e ora pentastellato Vincenzo Spadafora, si sono scontrati rovinosamente sul nome di Giuseppe Conte. Che Di Maio ha riproposto per la guida del nuovo governo, in cui i piddini dovrebbero sostituire i leghisti, ma che  Zingaretti ha escluso per ragioni di “discontinuità”. Senza la quale l’elettorato del suo partito gli esploderebbe in mano, nonostante la disponibilità dell’ex segretario Matteo Renzi ad accettare o concedere qualsiasi cosa, forse anche questa, per ricacciare Matteo Salvini all’opposizione.

            Il trionfalistico annuncio della “resistenza” di Di Maio sulla prima pagina del Fatto Quotidiano, dove Il Fatto.jpgevidentemente tifano per la conferma di Conte, specie dopo l’attacco sferrato al leader della Lega nell’aula del Senato prima di dimettersi per chiudere l’esperienza gialloverde, è ben diverso dalle campane quasi a morto suonate dalla Repubblica di carta. Dove si sprecano i titoli non proprio Repubblica.jpgincoraggianti sulle trattative fra il Movimento 5 Stelle e il Pd: “Ultimatum per rompere”, “La nuova alleanza è già in un vicolo cieco”, “Cronaca di una fineRepubblica 2 .jpg annunciata”. E tutto alla faccia dei “problemi insormontabili” mancati nell’incontro fra i capigruppo parlamentari dei due partiti, Folli.jpgavventuratisi a trattare, in particolare, sulle misure compensative della riduzione del numero dei parlamentari, reclamata dai grillini come misura quasi igienica, senza prima accertarsi della reale praticabilità del percorso avviato.

            Sarà un caso, per carità, ma la resistenza di Di Maio è seguita alle insistenti aperture ai grillini da parte di Salvini, ora tollerato, se non ben visto, sotto le cinque stelle anche da uno come Alessandro Di Battista, Dibba per gli amici.  Che qualche settimana fa, tra un esercizio e l’altro di apprendista falegname, aveva sprezzantemente invitato il leader leghista a “tornare” nella fogna, come la considerano i grillini, di Silvio Berlusconi.

            Sarà stato disinvolto, e ancora più indigesto al Cavaliere, convinto di potere ancora essere il regolo di quello che fu il centrodestra anche dopo la trazione leghista uscita dalle urne del 4 marzo dell’anno scorso, per non parlare delle successive elezioni regionali affrontate insieme da Forza Italia e dal Carroccio; avrà sbagliato i tempi troppo agostani della crisi, come gli rimprovera abbastanza chiaramente e insistentemente l’amico e collega di governo uscente Giancarlo Giorgetti, l’unico ad essere stato amichevolmente elogiato al Senato la settimana scorsa da Conte prima di andare a dimettersi al Quirinale, ma bisogna pur riconoscere che Matteo Salvini ha quanto meno saputo disseminare di mine il percorso delle trattative, prima sotterranee e ora palesi, fra grillini e piddini per il ribaltone estivo di questo 2019 che il presidente del Consiglio aveva previsto e promesso “bellissimo” con i colori gialloverdi.

            Il leader della Lega nel momento in cui ha saputo e voluto guadagnarsi il primato della inimicizia politica di Renzi, impopolarissimo sotto le 5 stelle, dove ancora lo ricordano come “l’ebetino” Rolli.jpgdegli spettacoli di Beppe Grillo nei teatri e sulle piazze, ha creato altri problemi non piccoli, e ben poco sormontabili, nel movimento di cui è riuscito a dimezzare i voti nelle elezioni europee del 26 maggio scorso. Il suo “forno” fa ancora una certa concorrenza a quello del Pd, dove peraltro si fa fatica a stabilire il prezzo del pane da vendere.

            Sarà uno spettacolo da “turarsi il naso”, e coprirsi gli occhi, direbbe la buonanima di Indro Montanelli, ma pur sempre uno spettacolo in questa estate che neppure il generale Ferragosto è riuscito a mettere in riga, o a difendere, come preferite, dalla crisi di governo ora gestita, in attesa di tornare nelle mani del capo dello Stato, dalla “strana coppia” Di Maio-Zingaretti, come l’ha definita il manifesto offrendola in una foto d’archivio ai lettori.

 

 

 

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