L’inutile enfasi dello scontro sulla data di approdo della crisi nell’aula del Senato

            Dietro l’enfasi della “prima sberla a Salvini”, annunciata dal Fatto Quotidiano accreditando l’ipotesi che la discussione sulla crisi di governo slitti al Senato dal 14 al 20 agosto, c’è la realtà molto meno anti-salviniana ammessa dallo stesso giornale di Marco Travaglio con quel fotomontaggio in prima pagina in cui si contrappongono, nelle prospettive politiche, due squadre delle quali una è reale e l’altra è virtuale.

            Quella reale è la squadra del centrodestra, già ricompattata dopo la rottura fra leghisti e grillini  e pronta a sottoscrivere un accordo “dal notaio”, come è stato annunciato, per riproporsi al governo nella prossima legislatura. Quella virtuale è la squadra dei grillini, del Pd, rappresentato Gli avvoltoi.jpgperò dal segretario Nicola Zingaretti -e non più ilmanifesto.jpgda Matteo Renzi, tornato ad essere trattato da Grillo come un “avvoltoio”, o “il guastatore” definito dal manifesto– e della sinistra più radicale di Loredana De Petris. Del cui gruppo parlamentare a Palazzo Madama fa parte, fra gli altri, l’ex presidente del Senato Pietro Grasso.

            E’ una squadra, quest’ultima, battezzata da Repubblica  col motto “Insieme per forza contro Salvini” ma, oltre che mutilata Repubblica.jpgdi un Renzi considerato troppo ingombrante, divisa dal modo in cui sottrarsi alle elezioni anticipate: se con un governo o governicchio di massimo un anno, sia pure con l’enfatico nome di “istituzionale”, come vorrebbe l’ex segretario del Pd, o di un governo più lungo e ambizioso, che porti la legislatura alla scadenza ordinaria del 2023, e sia capace di esprimere l’anno prima il successore, o la conferma, di Sergio Mattarella al Quirinale. E’ proprio la problematicità e improbabilità di una simile soluzione che ha forse consentito a Zingaretti di unirsi a questa squadra con un riposizionamento funzionale solo al desiderio, all’interesse, all’obiettivo di ridurre lo spazio conquistato da Renzi nei giorni scorsi sui giornali. E che ha già aggravato la crisi e la confusione fra i grillini, dove si ha poca voglia, e molta paura, di passare dai condizionamenti di Salvini a quelli dell’”ebetino”, come Grillo chiamava Renzi ai tempi di Palazzo Chigi e del referendum sulla riforma costituzionale bocciata nel 2006.

            In questo quadro, e con simili divisioni a sinistra e unità o convergenza d’interessi ritrovata in un centrodestra che anche durante i mesi del governo gialloverde ha continuato a conquistare amministrazioni regionali e comunali, non sembrano francamente destinati a fare la differenza i sei giorni fra il 14 e il 20 agosto per l’approdo della crisi nell’aula del Senato. Dove intanto Conte ha già deciso di annacquare molto la “trasparenza” offerta e al tempo stesso rivendicata orgogliosamente dopo la rottura con Salvini. Egli, pur di rimanere in gioco per qualche soluzione, è disposto adesso a rinunciare alla votazione finale della discussione sulla mozione di sfiducia presentata dai leghisti per dimettersi un attimo prima, secondo i rituali di moda ai tempi della cosiddetta e odiata prima Repubblica. Ai quali volle sottrarsi nella seconda Romano Prodi facendosi battere alla Camera nel 1998 e al Senato nel 2008: la prima volta spianando involontariamente a D’Alema la successione e la seconda liquidando col proprio governo anche la legislatura cominciata due anni prima.  

 

 

 

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I precedenti di questa crisi di governo portano alle elezioni anticipate

Anche se ogni crisi di governo ha una sua storia inconfondibile per circostanze e protagonisti, come soleva ammonire Flaminio Piccoli negli anni in cui di crisi contribuiva a provocarne pure lui come dirigente della Dc e rifiutava di formulare previsioni sul loro esito, questa corsa alle elezioni anticipate innescata da Matteo Salvini e già inciampata in qualche complicazione ricorda almeno quattro precedenti. Dei quali ben tre risalgono alla cosiddetta seconda Repubblica e uno, ma il più clamoroso, alla prima.

Cominciamo dalla coda per risalire alla vicenda più lontana e forse più significativa, per come si stanno mettendo le cose con lo sfratto da Palazzo Chigi intimato dal “capitano” del Carroccio a Giuseppe Conte e, più in generale, ai parlamentari eletti non più tardi dell’anno scorso.

Il 24 gennaio del 2008 Romano Prodi col suo secondo governo di cosiddetto centrosinistra decide, per la stessa “trasparenza” promessa ora da Conte, di farsi battere al Senato con 161voti favorevoli alla sfiducia, provenienti da sinistra e da destra, da Franco Turigliatto a Clemente Mastella, e 156 contrari. Pur rassegnato allo scioglimento delle Camere elette solo due anni prima, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano affida al presidente del Senato Franco Marini un incarico “esplorativo”, alla ricerca di una maggioranza che quanto meno ritardi l’approdo alle urne per non arrivarvi con una legge elettorale malfamata, diciamo così, col nome di “Porcellum” affibbiatogli dal suo autore principale: il leghista Roberto Calderoli.

Marini cerca di sondare anche l’insondabile, esplorando persino gli umori dei sindacati, francamente estranei alla materia di una nuova legge elettorale, e dopo quattro giorni rinuncia “con rammarico”, consentendo al presidente della Repubblica lo scioglimento anticipato delle Camere, cui seguiranno le elezioni vinte per l’ultima volta dal centrodestra guidato da Berlusconi. Che non porterà tuttavia la legislatura alla fine ordinaria, sostituito a Palazzo Chigi nell’autunno del 2011 da Mario Monti, appoggiato per un po’ dallo stesso Cavaliere, prima di cominciare a protestare contro uno dei vari “colpi di Stato” di cui ancora si lamenta nelle ricostruzioni della sua avventura politica.

Nell’autunno del 1998 sempre Prodi, questa volta col suo primo governo, si lascia battere alla Camera in uno scontro col socio/non socio della maggioranza ulivista Fausto Bertinotti. Spalleggiato dal suo vice Walter Veltroni, il presidente del Consiglio dimissionario reclama le elezioni anticipate, sicuro di uscire vincente dalle urne per la frattura provocata con la crisi da Bertinotti anche alla sinistra. Ma Massimo D’Alema, segretario dell’ex Pci, decide di succedere a Prodi con un governo sostenuto, al posto di Bertinotti, dall’immaginifico presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga. Il quale ha allestito appositamente un partito di transfughi del centrodestra da lui stesso paragonato all’armata francese degli “straccioni” che nel 1792 avevano sconfitto i prussiani a Valmy.

A gennaio del 1996 esaurisce il suo compito il governo simil-tecnico formato l’anno prima dal ministro uscente del Tesoro del primo esecutivo di Berlusconi, rovesciato dalla Lega di Umberto Bossi dopo nove mesi di vita difficile. Il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, già in ritardo di almeno sei mesi rispetto alla data delle elezioni anticipate promesse al Cavaliere al momento della caduta, decide per scrupolo costituzionale di verificare le condizioni per un governo di cosiddette “larghe intese” per improvvisare una riforma costituzionale resasi necessaria per i cambiamenti intervenuti col passaggio dal sistema elettorale a quello prevalentemente maggioritario. Esso ha lasciato al capo dello Stato la prerogativa di nominare il presidente del Consiglio tuttavia indicato direttamente dagli elettori persino sulla scheda elettorale, votando per la coalizione che lo ha candidato.

L’incarico di formare un simile governo viene conferito ad Antonio Maccanico, già segretario generale della Camera dei Deputati, della Presidenza della Repubblica e ministro. Il quale le tenta tutte, pazientemente, in una quindicina di giorni del mese di febbraio, peraltro fra i borbottii di Prodi. Che, già incoronato da D’Alema capo dell’Ulivo l’anno prima, teme di essere detronizzato da Palazzo Chigi senza neppure arrivarvi. La spuntano le sue preoccupazioni perché alla fine Maccanico, ostacolato più a destra che a sinistra, in particolare da Gianfranco Fini, che forza la mano ad un Berlusconi tentato da un’intesa, rinuncia all’incarico e sblocca il ricorso alle urne.

Tutt’altro scenario politico è quello della primavera del 1987, quando Bettino Craxi è sfrattato da Palazzo Chigi con una crisi impostagli dal segretario della Dc Ciriaco De Mita, che reclama già da un anno la “staffetta” con un democristiano che il leader socialista non ricorda di avergli promesso. O ricorda di avergliela promessa per la parte residua e ordinaria della legislatura cominciata nel 1983. De Mita invece vuole anticipare di un anno le elezioni, che a quel punto Craxi reclama di gestire con il suo governo. E chiede soccorso al presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Che, per quanto gli sia amico, glielo nega di fronte alle insistenze di De Mita e conferisce l’incarico di formare il governo elettorale ad Amintore Fanfani scomodandolo dalla Presidenza del Senato, dopo i rifiuti opposti per questa operazione dagli allora ministri degli Esteri e dell’Interno, Giulio Andreotti e Scalfaro. Che preferiscono essere leali con Craxi piuttosto che obbedienti a De Mita.

E’ tanto elettorale il governo di Fanfani, per quanto provvisto di un ministro -Gaetano Gifuni- per i rapporti col Parlamento da sciogliere, che il presidente del Consiglio si presenta alla Camera scordando, diciamo così, di chiedere la fiducia. Che tuttavia i socialisti decidono lo stesso di accordargli per cercare di evitare le elezioni anticipate e difendere il regolare svolgimento dei referendum già indetti sulla responsabilità civile dei magistrati e contro la produzione di energia elettrica nucleare.

Per sventare la fiducia a questo punto possibile, e raggiungere gli obiettivi dello scioglimento anticipato delle Camere e del conseguente rinvio dei referendum invisi a De Mita, il gruppo democristiano della Camera arriva ad astenersi nella votazione, cioè a negare il sì al governo pur composto interamente da personalità, politiche e tecniche, dello scudo crociato. Incredibile, ma vero, certificato dai verbali parlamentari, se non vogliamo dire dalla Storia, persino con la maiuscola.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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