Il selciato giudiziario del congresso del Pd

C’è solo l’imbarazzo della scelta del bersaglio nella curiosa vicenda del governatore pugliese Michele Emiliano. Che da concorrente di Matteo Renzi, di Andrea Orlando e di Carlotta Salerno a segretario di ciò che è rimasto del Pd dopo la scissione da sinistra, è diventato in circostanze di assai dubbia casualità anche testimone in una indagine giudiziaria in cui sono coinvolti il padre dell’ex presidente del Consiglio, Tiziano Renzi, il ministro renziano Luca Lotti e il loro amico imprenditore Carlo Russo.

L’indagine giudiziaria, cominciata a Napoli e poi diramatasi in un troncone a Roma, porta il nome della Consip: una società per azioni del Ministero dell’Economia preposta agli acquisti per la pubblica amministrazione. Gli occhi e le orecchie della magistratura campana caddero l’anno scorso su un affare da 2 miliardi e 700 milioni conteso dall’imprenditore napoletano Alfredo Romeo, amico del già citato Carlo Russo, amico a sua volta di Tiziano Renzi: da non confondere -questo Romeo, di cui è ascoltato consigliere l’ex deputato finiamo Italo Bocchino- col quasi omonimo Salvatore, ex capo della segreteria della sindaca grillina di Roma Virginia Raggi, anche lui indagato ma per tutt’altre faccende.

L’inchiesta di Napoli fu disturbata, diciamo così, da una fuga di notizie contestata a Lotti, al comandante dell’Arma dei Carabinieri e ad un altro generale: una fuga che permise ai vertici della Consip, secondo gli inquirenti, di disattivare le intercettazioni disposte dalla magistratura.

Che c’entra con tutto questo -mi chiederete- Michele Emiliano? Nulla, ma ce lo ha fatto entrare nella scorsa settimana Il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, mentre si consumava la scissione del Pd. E ciò grazie a quella che si potrebbe chiamare una indiscrezione, se non la si vuole definire una soffiata, a sua volta frutto di un’altra.

È accaduto, in particolare, che il giornalista del Fatto Marco Lillo, il quale -bravissimo, beato lui- sa o intuisce delle vicende giudiziarie più di tutti noi messi insieme, ha chiesto ad Emiliano, fra una intervista e l’altra dell’attivissimo governatore pugliese nella scalata alla segreteria del Pd, se fossero vere voci o notizie su rapporti da lui avuti con Carlo Russo e Tiziano Renzi. “Don Michele”, come qualcuno chiama rispettosamente Emiliano dalle sue parti, non si è fatto cogliere impreparato. Ha tirato fuori non solo dalla sua memoria ma anche dall’archivio, chiamiamolo così, dei suoi messaggi elettronici, i famosi sms, quelli sulla sostanziale raccomandazione di Carlo Russo fattagli dall’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio Lotti, nel 2014. Di messaggi ne ha raccolti anche per i tentativi di Tiziano Treu di incontrare l’allora sindaco di Bari, non ancora governatore della regione, mentre l’amico Russo cercava di realizzare un ingente affare nel Salento.

Chissà quanti continueranno a mandare sms a Emiliano, ora che se n’è appresa l’abitudine di conservarli per anni. Prudente ed avveduto, questo magistrato in aspettativa. Che naturalmente non si è tirato indietro quando alla Procura di Roma, dopo lo scoop del sempre tempestivo giornale di Travaglio, gli inquirenti lo hanno chiamato a testimoniare domani, mercoledì, volendo prendere visione anche loro degli sms e valutare i rapporti fra Carlo Russo e il padre di Renzi. Il passato evidentemente serve agli inquirenti per valutare meglio il presente, o il recente. Ma soprattuto si è ripetuto quello spettacolo del giornale che chiama e della Procura che risponde, o viceversa, più volte lamentato dall’ex presidente della Camera Luciano Violante auspicando che prima o dopo si arrivi alla separazione almeno delle carriere dei magistrati e dei giornalisti.

A questo punto, volente o nolente, a causa dell’approdo di Emiliano come teste nelle indagini in cui si trovano coinvolti il padre e alcuni amici di Renzi, il governatore pugliese ha fatto intrecciare il percorso dell’inchiesta giudiziaria Consip, non foss’altro per le sue inevitabili ricadute mediatiche, e quello del congresso del Pd: un congresso peraltro al quale lo stesso Emiliano aveva prospettato di arrivare con l’uso delle “carte bollate”, quando lui sospettava che Renzi volesse sottrarvisi, salvo lamentarne, anzi denunciarne il “rito abbreviato” quando il segretario lo ha accelerato dimettendosi.

Resta da capire o verificare, come si è accennato all’inizio, chi potrà o dovrà trarre il maggiore vantaggio o danno dal percorso alle primarie del Pd sullo sdrucciolevole terreno delle cronache giudiziarie, intriso inevitabilmente di velenosi sospetti, e non solo di notizie.

Renzi dovrebbe essere quello destinato a rischiare di più, nonostante egli si sia appena affrettato ad esprimere fiducia nei magistrati, già occupatisi del padre a Genova per altre vicende, prosciogliendolo dopo tre anni. Egli ha inoltre ribadito nel salotto televisivo di Fabio Fazio la solita necessità, puntualmente disattesa da anni, che i processi si svolgano “nei tribunali e non sui giornali”.

Ma non meno di Renzi potrebbe rischiare, a ben vedere, il suo concorrente politicamente più qualificato: Andrea Orlando. Che sia per la sua funzione di ministro della Giustizia sia per la sua nota e apprezzabile fisionomia di garantista non potrà certo inseguire e tanto meno scavalcare Emiliano nell’assalto a Renzi sul terreno morale. Gli basta e avanza avergli dato politicamente del “prepotente” nel lungo braccio di ferro avuto con le minoranze prima della scissione, alla quale il guardasigilli non si è associato.

Ciò significa che il governatore pugliese potrebbe superare Orlando nella corsa alla segreteria grattando grillinamente la pancia ai giustizialisti, forse non per vincere la partita, vista almeno la sicurezza ostentata a ragione o a torto dall’ex segretario e dagli amici, ma quanto meno per sentirsi alla testa della minoranza nei rapporti di forza col vincitore del congresso.

Non è francamente uno scenario consolante, come accade sempre quando la cronaca o la lotta politica s’intreccia torbidamente con la cronaca giudiziaria.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio di martedì 28 febbraio 2017

Le bischerate di Berlusconi ed Emiliano

Oltre che a sinistra, dove i partiti si contendono sempre più numerosi un elettorato sempre più ristretto o recalcitrante, acque agitate anche a destra. Dove Silvio Berlusconi ne ha combinata un’altra delle sue facendo saltare la classica mosca al naso al già sospettoso e irrequieto segretario del Carroccio Matteo Salvini.

Il presidente di Forza Italia ha confermato in persona le voci che gli avevano già attribuito la voglia di sponsorizzare il governatore leghista del Veneto Luca Zaia per la leadership di un nuovo centrodestra, nel caso in cui lui non facesse in tempo a recuperare la candidabilità prima delle elezioni, anticipate o ordinarie che siano: cioè, in autunno o nei primi mesi dell’anno prossimo, essendo ormai impossibile un anticipo a giugno.

Zaia si è nuovamente tirato indietro, sapendo quanto a quel ruolo tenga Salvini. Che, dal canto suo, stanco dei rifiuti opposti tante volte da Berlusconi alla prospettiva delle primarie tenacemente perseguita dai leghisti e dai Fratelli d’Italia, ha colto questa occasione per moltiplicare i dubbi che già aveva sulla proposta appena formulata da Giorgia Meloni di tentare liste e candidature comuni di centrodestra per le elezioni amministrative della primavera prossima. Dovranno andare alle urne circa dieci milioni di italiani per rinnovare i consigli comunali, fra l’altro, di Genova, La Spezia, Alessandria, Asti, Cuneo, Como, Monza, Lodi, Parma, Piacenza, Padova, Verona, Belluno, L’Aquila, Pistoia, Lucca, Rieti, Frosinone, Lecce, Taranto, Catanzaro, Palermo, Trapani e Oristano.

Si tratta dello stesso turno elettorale che Renzi ha voluto precedere col congresso del Pd per evitare che un insuccesso fosse cavalcato dai suoi avversari interni per precludergli davvero una conferma a segretario.

Non mancano certamente precedenti di elezioni amministrative, e regionali, costate moltissimo a leader che sembravano forti. Massimo D’Alema ci rimise nel 2000 la presidenza del Consiglio e Walter Veltroni nel 2009 la segreteria del Pd, anche se ha cercato nell’intervista di domenica scorsa a Eugenio Scalfari di dare un’altra motivazione alle sue dimissioni, sostenendo di avere mollato per il gioco paralizzante e tossico delle correnti. Che d’altronde è proseguito anche dopo di lui.

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Alla sortita di Berlusconi il segretario leghista non si è limitato a riproporre per la leadership le primarie invise all’ex Cavaliere e a candidarvisi personalmente. Egli ha anche accusato Berlusconi di volere “seminare zizzania fra noi”, cioè fra i leghisti.

Questa accusa non va sottovalutata perché somiglia terribilmente a quella che Umberto Bossi nell’autunno del 1994 rivolse all’allora presidente del Consiglio. Che ai primi cenni di insofferenza dell’allora leader della Lega, scatenato contro la riforma delle pensioni messa in cantiere dal ministro del Tesoro Lamberto Dini, cercò di dividere le truppe parlamentari del Carroccio. L’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni, per esempio, si espresse contro una crisi di governo.

Fu proprio a quel punto che Bossi, intimando allo stesso Maroni le dimissioni, fece precipitare la situazione e, favorito dall’avviso a comparire mandato a Berlusconi dalla Procura di Milano a mezzo stampa, durante una conferenza dell’Onu a Napoli sulla lotta alla malavita internazionale, ne volle e provocò la caduta.

Ci vollero più di cinque anni e la sconfitta elettorale del 1996 perchè Berlusconi riuscisse a ricucire i rapporti con la Lega e a vincere le elezioni del 2001. Ora, a parte il quadro politico del tutto cambiato, per esempio con la presenza dei grillini, è anche umanamente o anagraficamente difficile che Berlusconi possa avere tanto tempo a disposizione per rimediare ad una vera rottura con Salvini. A meno che egli in cuor suo non abbia più in testa il centrodestra.

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A sinistra fa notizia il telefonino, o cos’altro è il cellulare di Michele Emiliano. Che non è più caldissimo come nei giorni in cui il governatore pugliese era incerto se seguire gli altri concorrenti alla segreteria del Pd sulla strada della scissione o rimanere per continuare a mettere in croce nel partito, come si compiaceva di dire agli amici, il segretario falsamente dimissionario Matteo Renzi. Falsamente, perché l’ex presidente del Consiglio, in realtà, si è dimesso dalla guida del Pd non per ritirarsi, come gli avversari speravano o reclamavano per il bene dell’unità del partito.

Secondo i soliti retroscenisti maliziosi sarebbe letteralmente crollato sul cellulare del governatore pugliese, in particolare, il traffico degli sms, vista l’abitudine di Emiliano, appena appresa leggendo le cronache giudiziarie, di conservarli per anni e utilizzarli nelle circostanze che dovessero rivelarsi utili. E’ ciò che è accaduto al ministro Luca Lotti e, si presume, anche al padre di Renzi, Tiziano, che fra il 2014 e il 2015 mandarono messaggini all’allora sindaco di Bari su cui Emiliano è stato chiamato a testimoniare domani negli uffici della Procura di Roma dagli inquirenti di una vicenda, in verità, successiva a quegli sms. Che tuttavia potrebbero aiutare i magistrati a capire i rapporti fra Lotti, Tiziano Renzi e l’imprenditore Carlo Russo, coinvolti a vario titolo in una inchiesta sugli appalti della Consip: una società del Ministero dell’Economia che gestisce acquisti e forniture della pubblica amministrazione per importi miliardari.

Al di là delle stesse intenzioni di Emiliano, chiamato a testimoniare in Procura dopo avere parlato dei messaggini del 2014 e 2015 a un cronista del Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio, le ricadute mediatiche della sua testimonianza e degli eventuali sviluppi delle indagini giudiziarie potrebbero interferire nella campagna congressuale del Pd. Lo dimostra, fra l’altro, la tempestività con la quale Roberto Speranza, pur dalla tolda del partito nato dalla scissione piddina, ha aggiunto alle vecchie accuse a Renzi quella di una gestione “familistica” della politica. Familistica, naturalmente, da famiglia. Per cui molti hanno avvertito, a torto o a ragione, un’allusione all’inchiesta giudiziaria che ha coinvolto il padre dell’ex presidente del Consiglio con l’accusa di traffico d’influenze illecite.

Questa storia purtroppo è entrata ormai a gamba tesa nelle già arroventate e velenose polemiche sul passato e sul futuro politico di Matteo Renzi.

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Matteo Renzi tra sfide e gaffe

Matteo Renzi non ha voluto lasciargliela passare a Walter Veltroni, che accusandolo di non aver fatto abbastanza per evitare la scissione del Pd gli aveva in qualche modo opposto l’esempio da lui dato nel 2009: quando l’allora segretario del partito aveva preferito rinunciare davvero alla carica, senza riproporsi al successivo congresso, per non comprometterne l’unità.

Ospite di Fabio Fazio a Rai 3, e fresco della sua breve trasferta in California, Renzi ha risposto sotto traccia, e neppure tanto, dichiarando di apprezzare altri passaggi dell’intervista di Veltroni a Scalfari, per esempio quello sulla “scissione dell’atomo” della sinistra, ma precisando di avere voluto rimanere in pista per ragioni “ideali”, non di potere o di pura ambizione personale. E ciò anche perché, secondo lui, il libro o il disegno della scissione era stato già scritto da Massimo D’Alema.

Nel riaffermare il diritto di portare avanti la sua battaglia, ripeto, “ideale” Renzi ha chiamato in causa anche i figli e, più in generale, la famiglia con cui si è consultato prima di rinunciare al proposito, espresso durante la campagna referendaria sulla riforma costituzionale, di ritirarsi dalla politica se avesse rimediato una sconfitta. Che è stata peraltro peggiore, per dimensione, di ogni cattiva previsione.

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La risposta di Renzi a Veltroni, pur nel contesto -ripeto- di un giudizio positivo su altri passaggi dell’intervista del suo amico Walter, deve considerarsi valida naturalmente anche per Roberto Speranza, il segretario in pectore del nuovo partito a sigla rovesciata -Dp anziché Pd- annunciato come movimento.

Anche Speranza, qualche ora prima dell’arrivo di Renzi nello studio televisivo di Fazio, aveva accusato, anzi riaccusato l’ex presidente del Consiglio di essersi dimesso “egoisticamente” da segretario del partito per finta, e non davvero, come avevano fatto “generosamente” Veltroni nel 2009 e Pier Luigi Bersani nel 2013. In una sequenza -debbo dire -un po’ lugubre per un partito, vista la capacità o addirittura il diritto rivendicato così dalle minoranze di turno di abbattere i segretari liberamente eletti dai congressi e dalle primarie, senza lasciare loro altra possibilità che il ritiro definitivo dalla scena: una strana concezione della democrazia in un partito. Dove invece Renzi ritiene che la minoranza debba accettare il confronto e contendere la guida del partito misurandosi con l’avversario di turno.

“Vieni e vediamo chi ha più voti”, ha detto Renzi da Fazio sfidando inutilmente D’Alema, l’autore -ripeto- del libro già scritto della scissione.

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Alle sfide tipiche del suo stile, fra le quali quelle della riduzione dell’Irpef e dell’introduzione del “lavoro di cittadinanza”, al posto del parassitario “reddito di cittadinanza” proposto dai grillini -e condiviso da Roberto Speranza in nome del primo articolo della Costituzione, centrato però sul lavoro e non sul reddito- Renzi ha aggiunto una gaffe grande come una casa. Della quale credo che si sarà affrettato a chiedere scusa a Sergio Mattarella.

In particolare, pur di tirarsi fuori dalle polemiche sulla volontà attribuitagli a lungo di volere le elezioni anticipate, anche dopo essersi dimesso temporaneamente da segretario del partito, Renzi ha detto che la materia è ora di competenza del presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. “Deciderà lui”, ha detto testualmente.

Peccato, per Renzi e per lo stesso Gentiloni, se gliene dovesse venire davvero la voglia, che l’articolo 88 della Costituzione dia le chiavi dello scioglimento anticipato delle Camere solo al capo dello Stato, “sentiti i loro presidenti”.

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Due parole infine sulle indagini per gli affari miliardari della Consip in cui è stato coinvolto anche il padre di Renzi, Tiziano, oltre al fedele ministro Luca Lotti e all’amico imprenditore Carlo Russo: indagini alle quali è stato appena chiamato dalla Procura di Roma a contribuire come testimone il governatore pugliese, e anche lui candidato a segretario del Pd, Michele Emiliano.

Renzi ha reclamato, giustamente, “processi nei tribunali e non sui giornali”, ha evitato giudizi sul doppio ruolo di candidato e di testimone del suo avversario Emiliano ed ha assicurato di “fidarsi dei magistrati”.

Personalmente non ho visto fare a Renzi , a quel punto, scongiuri di alcun tipo. Che sarebbero stati del resto troppo clamorosi. E forse anche troppo rischiosi, per sé e per il padre. Decisamente meglio così.

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Veltroni resta nel Pd ma scarica Renzi

 

Intervistato da Eugenio Scalfari, che lo aveva già convinto a partecipare all’ultima riunione dell’assemblea nazionale del Pd eletta nel 2013, Walter Veltroni ha commentato con un’immagine apocalittica il fallimento del tentativo compiuto di evitare la scissione del partito che gli capitò di fondare una decina d’anni fa, e di guidare per meno di due.

L’ex sindaco di Roma, oltre che ex segretario del Pd, nonchè ex segretario dei Ds all’epoca del primo governo di Massimo D’Alema, ex vice presidente del Consiglio con Romano Prodi, ex ministro dei beni culturali, sempre con Prodi, e prima ancora ex direttore dell’Unità, con la quale ha ripreso generosamente a collaborare di domenica anche per scongiurarne l’ennesima uscita dalle edicole, ha definito “scissione dell’atomo” quella che si è appena consumata nel suo partito.

Scalfari, come si è notato nel video della sua Repubblica, ha sorriso all’immagine mescolandosi forse ai più che, considerate solo le dimensioni dell’atomo, pensano che sia una cosa ridicola cercare e riuscire a spaccarlo. E invece la scissione dell’atomo, signori miei, produce tali e tante energie da sfociare nella bomba atomica.

Non so se volesse alludere anche a questo il buon Veltroni, come temo considerando l’apocalittico quadro politico ch’egli ha giustamente descritto, dal suo punto di vista, come effetto della frantumazione della sinistra. Che in una settimana si è spaccata e ritrovata in cinque partiti, se non ne seguiranno altri nei prossimi giorni. Tutto ormai è possibile da quelle parti.

I cinque partiti di sinistra, l’ultimo dei quali porta la vecchia sigla DP di Mario Capanna, chiamandosi però non Democrazia Proletaria ma Democratici e Progressisti, con tutte le maiuscole naturalmente al loro posto, combinati col ritorno al sistema elettorale proporzionale faranno tranquillamente raggiungere al movimento 5 Stelle di Beppe Grillo il primo posto nella graduatoria delle forze politiche. E il conseguente diritto a rivendicare e a ottenere dal capo dello Stato l’incarico di tentare la pur improbabile -assai improbabile- formazione del nuovo governo nella diciottesima legislatura. Improbabile, a causa della “diversità” che impedirebbe ai grillini di allearsi con altri per fare maggioranza in Parlamento.

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Solo un miracolo potrebbe consentire il sorpasso elettorale su Grillo ad opera di quello che fu il centrodestra, anch’esso però terremotato dal sistema elettorale proporzionale. Che consentirebbe alle varie componenti di presentarsi ciascuna per conto suo, salvo il diritto del partito più votato di indicare il premier, come ha appena proposto Silvio Berlusconi augurandosi naturalmente che la sua Forza Italia raccolga più consensi della Lega di Matteo Salvini.

Riesce tuttavia difficile immaginare come e quando, dopo le elezioni, il presidente della Repubblica potrà trovare in quello schieramento una persona alla quale affidare l’incarico di presidente del Consiglio. Per fare quale governo, con chi altri -perché in ogni neppure il centrodestra sarebbe autosufficiente- e con quale programma ?

L’idea “forte” di Berlusconi per tenere unito con le buone o le cattive il suo vecchio mondo politico e trovare appoggi esterni è quella di far girare gli italiani con due tipi di moneta in tasca: l’euro e la lira, come i nostri padri e nonni dopo la seconda guerra mondiale furono per un po’ abituati dalle truppe statunitensi di occupazione a fare con le lire e le am lire. Am come americane.

Non dico di più perché, pur avendo Berlusconi garantito ai suoi l’esistenza di tecnici ed economisti convinti che questa strada sia praticabile, mi viene francamente più da sorridere che da riflettere.

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E’ meglio tornare, restando con i piedi per terra, alle riflessioni di Veltroni nell’intervista a Scalfari per rilevare una novità -almeno così mi è apparsa- rispetto al discorso da lui pronunciato all’assemblea nazionale del Pd.

Allora ebbi la sensazione, magari sbagliata, ch’egli tirasse più per Renzi, appena dimessosi da segretario per avviare il percorso del congresso, che per i suoi avversari interni, decisi ad andarsene, come Pier Luigi Bersani e l’assente Massimo D’Alema, o tentati dal rimanere per continuare a fargli la guerriglia, anzi la guerra interna, come ha finito per decidere Emiliano. Che al ruolo di candidato alla segreteria ha appena aggiunto quello ancora più pesante di testimone nelle indagini in corso alla Procura di Roma, dove mercoledì egli mostrerà e spiegherà gli sms conservati dal 2014 -pensate un pò- sui rapporti con l’attuale ministro renziano Luca Lotti, con l’imprenditore Carlo Russo e col padre di Renzi, Tiziano, tutti indagati per gli acquisti miliardari della pubblica amministrazione gestiti dalla Consip.

Ora che la scissione è avvenuta, pur deplorandola e rimanendo nel Pd, Veltroni ha detto di Renzi, figlio naturalmente, che “doveva fare molto di più per impedirla”. In particolare, par di capire che dovesse fare come lo stesso Veltroni nel 2009, quando l’allora segretario del Pd dimettendosi davvero, non per cercare di essere poi confermato, preferì al la sua carriera politica -egli ha detto- l’unità del partito.

In effetti il Pd allora rimase unito ma per finire, dopo un breve interregno di Dario Franceschini, nelle mani di quel Bersani che nella campagna elettorale del 2013 si propose di “smacchiare” così bene il “giaguaro” Berlusconi da fargli sfiorare la vittoria. E soprattutto non si accorse dalla valanga grillina, che egli cercò poi -povero illuso- di contenere con l’offerta, sdegnosamente respinta dal comico genovese, di un appoggio esterno, o qualcosa di simile, ad un governo “minoritario e di combattimento”. Un governo che naturalmente Bersani voleva guidare, ma che l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano non gli permise.

Ricordo tutto questo per la cronaca. Non parlo di storia perché sarebbe troppo. E non tanto per i fatti in sé, sicuramente notevoli, ma per le persone.

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Michele Emiliano corre per la segreteria del Pd con gli sms galeotti contro Renzi

Qualcuno comincia ad accorgersi, non lasciandoci più soli su Formiche.net, dell’operazione scattata per mescolare il percorso del congresso nazionale del Pd con quello delle indagini giudiziarie nelle quali è stato coinvolto il padre di Matteo Renzi, Tiziano. Che è alle prese col reato di traffico d’influenze sugli acquisti miliardari della pubblica amministrazione gestiti dalla Consip.

“Scoppia il caso di Emiliano” ha titolato in prima pagina Repubblica riferendo del nuovo ruolo assunto dal governatore pugliese. Che, oltre a contendere a Matteo Renzi la segreteria del partito, insieme col ministro Andrea Orlando e con la torinese Carlotta Salerno, è ora testimone nelle indagini sul padre dell’ex presidente del Consiglio.

Alla Procura di Roma il governatore, candidato segretario del Pd e testimone giudiziario sarà sentito “presto”, ha annunciato in prima pagina con motivata soddisfazione Il Fatto Quotidiano. Motivata, perché a stimolare l’attenzione degli inquirenti è stato proprio il giornale diretto da Marco Travaglio riferendo di alcuni messaggi elettronici mostrati dallo stesso Emiliano ad un cronista. Essi contengono informazioni scambiate nel 2014 fra lo stesso Emiliano e l’allora sottosegretario renziano Luca Lotti, oggi ministro di Paolo Gentiloni, a proposito di Carlo Russo, l’amico di Tiziano Renzi coinvolto anche lui nella vicenda giudiziaria della Consip. Che vede peraltro indagato pure Lotti, accusato col comandante generale dei Carabinieri e un altro alto ufficiale di avere danneggiato l’inchiesta, allora gestita solo dalla Procura di Napoli, rivelando agli interessati di essere intercettati.

E’ insomma un grande e inquietante pasticcio, di cui ha scritto anche Fiorenza Sarzanini sul Corriere della Sera riferendo dell’ingresso di Emiliano nell’elenco dei testimoni per via dei suoi messaggini elettronici. Alcuni dei quali – secondo le cronache del Fatto- riguarderebbero anche i contatti con Emiliano tentati o avuti dal padre di Renzi in persona.

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In questo contesto giudiziario e politico potrebbero assumere un certo peso, si vedrà se giocando contro o a favore di Renzi per l’eco mediatica che potrebbero avere le indagini, i tempi congressuali appena fissati dalla direzione del Pd, meno brevi o più lunghi -come preferiti- di quelli originariamente previsti.

In particolare, le primarie per la scelta del segretario sono state fissate per il 30 aprile, e non per il 9, come si era detto attribuendo la data più vicina, a torto o a ragione, alle richieste o alle pressioni di Renzi. Che da segretario dimissionario, anzi da ex segretario, si è tenuto fisicamente lontano dagli adempimenti della direzione del partito con una trasferta di studio e di relazioni in California.

Sul piano più strettamente politico, l’allungamento dei tempi congressuali rende assai più difficile, diciamo pure irrealistica, la prospettiva delle elezioni anticipate a giugno, come ha tenuto a sottolineare Piero Fassino, in polemica però con le minoranze uscite o rimaste nel Pd, che avevano accusato Renzi di propositi opposti.

D’altronde, lo stesso Emiliano, nell’intervento a sorpresa svolto domenica scorsa all’assemblea nazionale del partito, quando cominciò a staccarsi dal cartello degli scissionisti pur rimanendo critico col segretario dimissionario, parlò di un “equivoco” insorto con Renzi sul progetto di elezioni anticipate a giugno. Egli arrivò addirittura a scusarsene.

Ma l’effetto politico più importante del pur breve allungamento dei tempi congressuali – a prescinder, ripeto, dalle complicazioni quanto meno mediatiche che potrebbero derivare alla corsa di Renzi per il ritorno alla segreteria dagli sviluppi delle indagini giudiziarie sugli affari della Consip- sta nei nuovi spazi che si sono aperti alla candidatura di Andrea Orlando.

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E’ accaduto, in particolare, che Massimo D’Alema, che può ben essere considerato il grande regista della scissione in corso del Pd, ha annunciato che un’elezione di Orlando a segretario, per il modo in cui il ministro si è proposto, denunciando la “prepotenza” di Renzi, suo ex socio politico di maggioranza nel partito, e per le sue origini, provenendo egli dal Pci, potrebbe consentire ai fuoriusciti di tornare indietro: a casa o, come dice Pier Luigi Bersani, nella “ditta”.

Ciò significa che, sentendosi ancora della partita con Orlando in corsa, al netto dei voti che potrebbe sottrargli Emiliano con la storia delle indagini giudiziarie sul padre di Renzi, il guardasigilli potrebbe contare nelle primarie, notoriamente aperte, per partecipare alle quali basterà versare due euro, sulle truppe dalemiane, bersaniane e di ogni altra matrice. Queste si sarebbero sentite invece estranee se il concorrente di Renzi fosse rimasto solo il governatore pugliese, ormai inviso agli scissionisti per averli abbandonati per strada.

Una cosa comunque è certa: la partita renziana si è fatta più difficile, o meno scontata di quanto forse l’ex presidente del Consiglio riteneva sino a qualche giorno fa. Continua tuttavia a fare concorrenza a Renzi, quanto a problemi, la sindaca grillina di Roma Virginia Raggi. Che, stressata anche dalla gestione del progetto del nuovo stadio giallorosso da costruire a Tor di Valle, ha dovuto ricorrere ai medici di un ospedale chiedendo a Beppe Grillo -secondo una irriverente vignetta di Vauro comparsa sul pur insospettabile Fatto Quotidiano- di dire il classico trentatré chiestole da chi la visitava.

 

 

Diffuso in rete da Formiche.net sabato  25 febbraio 2017

Primo articolo del blog

Questo è un pò un diario politico, in cui annoto fatti e personaggi che affollano partiti e istituzioni. Prima di disprezzarla, la politica va conosciuta. E per essere conosciuta va raccontata, senza pregiudizi, tenendo sempre presente che essa non è né peggiore né migliore di chi la giudica. Ne è più semplicemente o banalmente lo specchio. Buona lettura.

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