Il compleanno di Berlusconi disturbato da notizie forse più di cortile che di corte

Dalla prima pagina della Stampa

 Anche se scritta e firmata a quattro mani da giornalisti solitamente ben informati come Ilario Lombardo e Francesco Oliva, con tanto di richiamo premiale in prima pagina sulla Stampa, mi sembra francamente più da cortile che da corte la notizia della “grana” scoppiata in Forza Italia. Dove Silvio Berlusconi, tra i festeggiamenti del suo ottantaseiesimo compleanno, avrebbe deciso di “gelare” il suo vice Antonio Tajani sulla strada delle trattative con Giorgia Meloni per la formazione del nuovo governo. 

Antonio Tajani

“Adesso tratto io”, sarebbe sbottato l’ex presidente del Consiglio raccogliendo proteste, malumori e altro di amici e collaboratori per il troppo spazio che l’ex presidente del Parlamento europeo si sarebbe preso, essendo peraltro direttamente interessato alla partecipazione al governo, pur se si è scritto di lui sui giornali anche come presidente della nuova Camera per i suoi trascorsi fortunati a Strasburgo. Sempre che la candidata a Palazzo Chigi non si imponga nel centrodestra con la tentazione di destinare per ragioni di galateo istituzionale e opportunità politica il vertice di Montecitorio all’opposizione: più in particolare al Pd, dove da una vita -si fa per dire- smania di arrivare Dario Franceschini, arrivatovi ad un palmo nel 2013, quando all’ultimo momento l’allora segretario del partito Pier Luigi Bersani gli preferì l’alleata di sinistra Laura Boldrini. 

I malumori, sospetti, sgambetti e simili non  mancano mai attorno ai leader, specie quando si è in un partito in difficoltà. E Forza Italia lo è, al di là delle smentite, perché perché è diventata elettoralmente l’ultima delle tre formazioni che più visibilmente la compongono. Solo centomila voti ormai la separano, all’esterno del centrodestra, dalla concorrenza del cosiddetto terzo polo di Carlo Calenda e Matteo Renzi, dove sono state appena rielette le ministre ex berlusconiane Mara Carfagna e Maria Stella Gelmini: le “traditrici”, “ingrate” e quant’altro, come gridato ad Arcore e dintorni all’annuncio del loro abbandono per protesta contro la fiducia appena negata al Senato al governo di Mario Draghi, insieme con i leghisti e i grillini di Giuseppe Conte. 

Dalla prima pagina del Corriere della Sera

La rappresentazione d’un Tajani allargato anche sul piano politico, oltre che ingrassato, stride obiettivamente col racconto da lui stesso appena fatto al Corriere della Sera degli incontri e colloqui telefonici con Giorgia Meloni. Di sé e delle sue ambizioni egli ha testualmente detto, anche a costo di un pò troppa retorica:. “Posso fare qualsiasi cosa. Ho fatto tutto nella vita. Farò quello che è utile, nell’interesse del Paese. E con la Meloni volutamente non ho fatto nomi. I nomi li farà Berlusconi alla fine”. 

Tajani al Corriere della Sera

”Di sicuro questo governo”, ha concluso  Tajani, come se davvero lo stesse vedendo nascere, “non cambierà politica estera. Resteranno strategiche le relazioni con Washington, Bruxelles e la Nato”. E sarà Berlusconi a concordare evidentemente con la Meloni i nomi da proporre al presidente della Repubblica per i Ministeri soprattutto degli Esteri e della Difesa. 

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Ben tornato a Umberto Bossi in Parlamento, per carità, ma non da santo

Titolo del Dubbio

Meno male. Il recupero elettorale di Umberto Bossi ci ha risparmiato la telenovela  già intonata dall’immaginifico Matteo Salvini di un laticlavio riparatore di una esclusione  del fondatore della Lega Nord dopo 35 anni di presenza in Parlamento. Sarebbe stato davvero troppo, pur con tutto il rispetto, la comprensione umana, la solidarietà che merita, per carità, quello che a cavallo tra la prima e la seconda Repubblica fu scambiato un pò troppo generosamente per il profeta di un’altra Italia. Che -si disse anche questo- avrebbe potuto mettere a ferro e a fuoco ma si accontentò solo di insozzare di vernice nera i ponti autostradali del Nord per inneggiare alla forza potenzialmente risolutrice dell’Etna al Sud.

L’impatto con quella specie di barbaro  che mi apparve il senatur fu per me traumatico nella civilissima Milano, dove ero appena arrivato per dirigere Il Giorno e mi vidi denunciato da lui per diffamazione e associazione a delinquere avendone scritto criticamente, nello stesso numero, con altre firme del quotidiano allora dell’Eni. Alla richiesta di archiviazione avanzata da un pubblico ministero di origini meridionali come le mie seguì una distesa di manifesti a sfondo sostanzialmente razzista affissi per la città. 

L’orrore della Lega di Bossi

A Silvio Berlusconi, col quale me ne  ero lamentato sapendolo incuriosito del personaggio, ma anche a Cesare Romiti, l’amministratore delegato della Fiat che aveva appena dichiarato la tentazione di votare Lega se solo avesse potuto farlo senza la residenza anagrafica lontana dai territori del Carroccio, la cosa non era apparsa di particolare gravità. In fondo -mi si disse- era solo e tutta politica: un’escrescenza destinata a sgonfiarsi col  nuovo che ormai avanzava e avrebbe cambiato l’Italia. Mi feci il segno della croce. Ne è passata di acqua sotto i ponti, non solo del Po. Ne ho viste di passioni sfumare, di speranze svanire, di rabbie sbollire, di vite spegnersi nel suicidio, di sogni infrangere in Parlamento e fuori. Ma lui rimarrà al suo posto, per fortuna soltanto eletto, non santificato.  

Pubblicato sul Dubbio

Non sarà certo la portineria del Viminale la destinazione di Matteo Salvini

Quel Matteo Salvini al Viminale, ma in portineria a verificare se c’è il ministro di cui ha chiesto il visitatore di turno è naturalmente soltanto la rappresentazione vignettistica e paradossale di Stefano Rolli -sul Secolo XIX- delle cronache politiche sulla preparazione del governo, fra incontri, telefonate, visite e missioni segrete, in cui è impegnata Giorgia Meloni. Che peraltro con Salvini si è già vista e chissà quante volte anche sentita o messaggiata per telefono, senza dover attendere per questo il conferimento formale dell’incarico di presidente del Consiglio, quando la nuova legislatura diventerà agibile per le iniziative e decisioni del Capo dello Stato.

Matteo Salvini

Escludo, a occhio e croce, che la Lega, per quanto attraversata da una crisi interna ancora più grave di quella esplosa quando Umberto Bossi fu costretto a lasciarne la guida, potrà o vorrà arrivare al suicidio dell’appoggio esterno al governo per ritorsione contro un eventuale rifiuto del Viminale oppostogli non solo e non tanto dalla candidata a Palazzo Chigi ma dal Presidente della Repubblica di fronte alle pendenze giudiziarie ancora aperte per il suo primo passaggio proprio al Ministero dell’Interno. 

Va bene che l’uomo oggi tutto rosari, medagliette e simili proviene dall’esperienza del centro sociale di via Leoncavallo a Milano, sgomberato con la forza d’estate ai tempi del sindaco Paolo Pillitteri e puntualmente rioccupato fra le inutili proteste degli incolpevoli abitanti. Ma, vivaddio, La Lega non è ancora ridotta a quello stato. In un modo o in un altro da questo pasticcio uscirà fuori senza vanificare la vittoria elettorale del centrodestra. Persino Carlo Calenda, quello che ancora non crede del tutto in questa vittoria pur ammessa a parole, pensa che il governo nascerà e scavalcherà il Capodanno. 

Dalla prima pagina di Repubblica

Con le buone o con le cattive, in una tuta o in un’altra, con barba com’è tornato dopo avere accontentato Silvio Berlusconi che gli aveva chiesto di tagliarsela o di nuovo senza, Salvini farà partire la legislatura: E un pò meglio -credo o spero- di come fece decollare quella del 2018 con i grillini eredi addirittura della “centralità” che era stata della Dc durante la cosiddetta prima Repubblica. Si  troverà per lui una postazione più realistica della portineria del Viminale. Come nel Pd, all’opposizione, riuscito incredibilmente a prendere  con una legge elettorale da manicomio meno parlamentari della Lega pur avendo ottenuto più del doppio dei suoi voti,  credo che il segretario dimissionario non finirà come nella portineria dell’obitorio immaginato ieri da Francesco Piccolo su Repubblica. “Rimanga Letta e via gli altri”, ha gridato oggi, sempre da Repubblica, il vecchio Sergio Stajno. Di cui immagino le lacrime -alla sua età- a vedere i compagni inseguire Giuseppe Conte a sinistra. Roba da capogiro.  

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Berlusconi regista ispirato sul set da Franco Zeffirelli….

  Silvio Berlusconi ha dunque deciso di cambiare ruolo in politica, o nel suo “teatrino”, come l’ha sempre chiamato, ben prima che ci si mettesse dentro, o vi scendesse dall’alto dei suoi affari e della popolarità guadagnatasi -bisogna dirlo- da solo, riversandone un po’ anche su altri, non tutti abbastanza grati. Alcuni, anzi, per niente.

Da protagonista del centrodestra improvvisato nell’ormai lontano 1994, fra le macerie della cosiddetta prima Repubblica e le prime ispezioni giudiziarie d’avvertimento nelle sue aziende; da promotore addirittura della fine della guerra fredda, alla quale avrebbe dovuto seguire un’alleanza politica e militare estesa dall’Atlantico agli Urali, per quanto il suo ministro della Difesa Antonio Martino nutrisse qualche dubbio già allora su Vladimir Putin; da allenatore di delfini tutti miseramente destinati a rivelarsi privi del quid necessario a crescere davvero, il  quattro volte ex presidente del Consiglio tra seconda e terza Repubblica ha deciso di fare il regista. E di uno spettacolo davvero inedito: la nascita e la sopravvivenza -spera almeno l’interessata- del primo governo italiano a guida femminile: “la signora Meloni”, come lui  la chiama da qualche tempo non so se con più ansia o più soddisfazione per averla aiutata a crescere anche con i dolci e le marmellate dei cuochi sparsi nelle sue ville. 

Il compianto Franco Zeffirelli
Giuliano Ferrara sul Foglio di ieri

Ne avrà da fare come regista il Cavaliere- “tra una minchiata e l’altra” rimproverategli  dall’amico Giuliano Ferrara sul Foglio- con gli 86 anni che gli cadono oggi sulle spalle, per quanto assistito sempre da un folto gruppo di collaboratori e, sotto i soffitti della sua magione romana sull’Appia Antica, dallo spirito di Franco Zeffirelli. Che vi dimorò a lungo come ospite lasciandovi il segno. I voti di Forza Italia non sono più quelli di una volta. Da incassatore di voti è un po’ diventato erogatore, come dice Alessandra Ghisleri pure di Matteo Salvini. D’altronde, in un convoglio anche il fanalino numerico di coda è d’obbligo.

Pubblicato sul Dubbio

Se bastasse un sorriso alla sinistra per sognare una rivincita chissà quando….

Francesco Piccolo
Dalla prima pagina di Repubblica

Neppure piccolo di fatto sembra possibile quel “sorriso” che Francesco Piccolo, con la maiuscola del suo cognome, in un articolo forse troppo ingenuo su Repubblica ha esortato la sinistra a opporre fiduciosamente alla sua sconfitta elettorale, storica secondo alcuni ma per niente secondo altri come Francesco Boccia, del Pd. Che, orgoglioso dell’alleanza  con i grillini sopravvissuta nella sua Puglia governata spavaldamente da Michele Emiliano, preferisce considerare l’accaduto un incidente: una sconfitta e basta, come tante che si possono subire in politica per circostanze sfortunate o errori riparabili. Fra i quali andrebbe  annoverato anche quello compiuto dal segretario piddino Enrico Letta di non perdonare a Giuseppe Conte, e a quel che è rimasto del MoVimento 5 Stelle, di non avere neppure sfiduciato ma solo negato l’ultimo voto di fiducia a Mario Draghi nel tratto conclusivo della ormai scorsa legislatura. 

Vignetta della Stampa
Vignetta del Corriere della Sera

Tra un Letta finito come una tigre scuoiata sotto la scrivania del Nazareno nella vignetta di Emilio Giannelli sul Corriere della Sera, e un’Italia immaginariamente di sinistra che, secondo Sergio Stajno sulla Stampa non sa se essere   “orgogliosa” o “incazzata” per la donna in arrivo per la prima volta alla guida di un governo classificabile come il più a destra nella storia nazionale dopo quello di Benito Mussolini, ci sarebbe in realtà ben poco da ridere, o solo da sorridere. O da riconoscersi in quella fotografia festante d’archivio del Pd scelta nella redazione culturale di Repubblica per corredare “le idee” di Piccolo. Che con semplicità persino imbarazzante, in una versione aggiornata della vecchia protesta di Luca Ricolfi contro una sinistra a vocazione “antipatica”, ha esortato la sua parte politica a diventare “popolare” dopo tanta indigestione di “populismo”. Che è stata fatta inseguendo gli alleati di turno: ultimi proprio i grillini del Parlamento tagliato e della povertà sconfitta in una notte d’estate a Palazzo Chigi -ricordate?- giocando sui decimali di uno sforamento dei parametri europei di bilancio e  su un reddito di cittadinanza a toccare il quale si rischierebbe -ha appena avvertito Conte col dietino alzato in una conferenza stampa a Montecitorio- una incontenibile guerra civile. 

Ad una sinistra “responsabile da sempre”, con convinzione quasi togliattiana, per tornare a sorridere e a vincere basterebbe, secondo Piccolo, una miscela fatta di “un pò di leggerezza e di idee grandi”. Una parola, verrebbe da dire assistendo al sostanziale avvio del dibattito congressuale nel Pd avvenuto con l’annuncio delle dimissioni del segretario e della indisponibilità a ricandidarsi per non compromettere -è sembrato di capire- la ripresa dei rapporti con un partito, quello delle 5 Stelle, che dalle urne è uscito gareggiando nelle perdite con la Lega di Matteo Salvini: il primo alleato dei grillini e di Conte- non dimentichiamo neppure questo- nella legislatura scorsa. 

Lettera di Umberto Ranieri al Foglio di ieri
Umberto Ranieri

Ho sentito sollevarsi nel Pd contro tanta rassegnazione alla resa, piuttosto che al sorriso, solo la voce, a Napoli, di Umberto Ranieri: un migliorista della scuola comunista del vecchio Giorgio Napolitano. Era stato anche l’unico, nell’aula di Montecitorio negli anni Ottanta, quando Bettino Craxi diventò presidente del Consiglio, a chiedere ai compagni che gli sedevano accanto perché mai un socialista non dovesse essere considerato di sinistra. E sorridergli, piuttosto che sognarlo forse già allora in galera. 

Il ritorno di Conte all’Opa di Beppe Grillo sul Pd, nel 2009

Dal Fatto Quotidiano di ieri
Dal Fatto Quotidiano di ieri

In quell’Enrico Letta che “si ritira” e Giuseppe Conte che “si allarga” nella titolazione del Fatto Quotidiano sugli effetti dei risultati elettorali, evidentemente considerati più importanti sul fronte dell’opposizione che del governo di centrodestra, c’è tutto il paradosso della situazione politica. Che sembra tornata improvvisamente indietro di 13 anni, quando Beppe Grillo d’estate tentò d’infilarsi nel Pd iscrivendosi alla sezione sarda di Arzachena per scalare addirittura la segreteria abbandonata da un Walter Veltroni troppo assediato dalle solite correnti. 

Titolo del Dubbio

Il Pd, retto allora da Dario Franceschini in attesa di un congresso che sarebbe stato vinto da Pier Luigi Bersani, respinse con forza il comico genovese. Che reagì improvvisando il suo MoVimento 5 Stelle, portandolo in Parlamento già quattro anni dopo, umiliando  Bersani nel tentativo di formare con l’aiuto dei grillini un governo “di minoranza e combattimento” e infine vincendo le elezioni successive, nel 2018. 

Sembra incredibile, ma la storia in qualche modo si ripete con la sostanziale opa appena lanciata da Conte sul Pd reclamando le dimissioni di Enrico Letta, ottenendole e mettendosi a capo di un’opposizione “non dura ma durissima”, in attesa di giudicare il “nuovo gruppo dirigente” del Nazareno e di decidere -praticamente- se condizionarlo dall’esterno o vaporizzarlo. E tutto questo, sempre da parte di Conte, con Grillo stordito che certamente non lo considerava capace di tanto, alla testa di un movimento uscito dalle urne più che dimezzato rispetto alle elezioni precedenti., avendo perso per strada quasi sei milioni di voti. E un Pd che, per quanto malmesso, per carità, si è piazzato meglio dei pentastellati.

Bettini al Fatto Quotidiano
Gofredo Bettini

L’ìmpareggiabile Goffredo Bettini, che  dall’interno del Pd, aveva già promosso Conte l’anno scorso a “punto di riferimento altissimo” dei progressisti, ha avvertito in una intervista, naturalmente al Fatto Quotidiano, “gruppi editoriali e salotti” a non pretendere di scegliere loro il novo segretario. Potrebbe  forse bastare e avanzare lo stesso Conte.

Pubblicato sul Dubbio

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Oddio, no. La campagna elettorale è finita, la “centralità” di Conte pure

La buonanima di Amintore Fanfani nei momenti, diciamo così, di stanchezza o defilamento, fra un ritorno e l’altro, distribuiva matite e pennelli tra il suo tavolo d’artista per disegnare e dipingere e la scrivania di professore per segnare di blu e di rosso le parole di cui si nutriva il dibattito politico. Parole “magiche” -diceva- che servivano solo a confondere le acque. Se la prese una volta, in particolare, contro il “confronto” che Aldo Moro, caduto in disgrazia nell’estate del 1968 dopo quasi cinque anni a Palazzo Chigi ogni tanto interrotti da una crisi di assestamento del suo centrosinistra “organico”, opponeva ai metodi spicci attribuiti all’altro “cavallo di razza” della Dc, come entrambi venivano chiamati da Carlo Donat-Cattin.

Magica, per esempio, più apparente che reale, insomma più falsa che vera, è la “centralità” che, ospite di Enrico Mentana in televisione, il mio amico Paolo Mieli ha voluto attribuire più volte a Giuseppe Conte commentandone ieri sera una conferenza stampa appena svolta dall’interessato per vantarsi di un risultato elettorale del MoVimento 5 Stelle pur dimezzato rispetto a quello del 2018. Più che dimezzato, anzi: dal 33 a poco più del 15 per cento, che tuttavia gli darebbe il diritto -a sentirlo- di rimanere protagonista quanto meno dell’opposizione. Attorno alla quale l’ex presidente del Consiglio ritiene debba evidentemente svolgersi la nuova legislatura, pur essendo state le elezioni vinte dal centrodestra ormai di Giorgia Meloni, “pienamente legittimato” a governare, ha ammesso -bontà sua- l’uomo di Volturara Appula.

Se la matematica non è diventata  anch’essa un’opinione, il 15,4 di Conte alla Camera e 15,5 al Senato sono inferiori, non superiori, rispettivamente, al 19 e al 19,9 del Pd di Enrico Letta. Cui andrebbe riconosciuto per ragioni appunto di matematica di essere uscito meglio di  Conte dalle urne, aumentando peraltro e non diminuendo il 18 virgola qualcosa del 2018, nonostante la scissione subita successivamente ad opera prima di Matteo Renzi e poi di Carlo Calenda. Che insieme hanno appena guadagnato il 7,7 per cento. 

Titolo del manifesto
Enrico Letta al Nazareno

Ma il Pd -mi direte- è in dichiarata crisi con l’annuncio delle dimissioni del segretario e di un congresso al quale egli ha giù escluso di ricandidarsi. Conte invece è al riparo adesso anche dalle bizze di Beppe Grillo e si gode la letterale scomparsa dal Parlamento di Luigi Di Maio, il suo ex capo, benefattore e infine “traditore”, forse destinato a non rientrare neppure come il più semplice dei pastori nei presepi di Fuorigrotta, fra qualche mese. 

Quella di Conte a Giorgia Meloni sarà  un’opposizione “non dura ma durissima”, ha annunciato minacciosamente l’interessato: minacciosamente anche verso il Pd, che gli si dovrà accodare e non affiancare sino a quando non uscirà dal congresso previsto in gennaio un “nuovo gruppo dirigente”. Che riscatti il Nazareno dal ruolo ancellare svolto per più di un anno e mezzo verso Mario Draghi e la sua più o meno mitica “agenda” di politica internazionale e interna. Non un cenno di resistenza, di obiezione, di amor proprio -si diceva una volta- si è levato dal Pd, in cui sembra prevalere più la rassegnazione che la rivendicazione di una “centralità” un pò più concreta all’opposizione. Che nel suo complesso, quindi, con quel 15 per cento -ripeto- di polveri di stelle uscite dalle urne, non mi sembra francamente destinata a creare tantissime difficoltà al governo della prima donna in Italia. Attorno alla quale, non  per galanteria ma per le emergenze perduranti in vari campi, finirà per crearsi una catena di sostegno riconducibile ad un presidente della Repubblica che non a caso -come annunciato da notizie delle scorse settimane non smentite- ha già avuto due incontri personali con la leader della destra dopo lo scioglimento delle vecchie Camere, e durante la campagna elettorale.

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Mario Draghi troppo adatto agli Esteri per andarvi davvero…

Titolo del Dubbio

Fra le immagini dei leader al seggio per votare quelle che mi hanno colpito di più sono di Mario Draghi. Che è stato formalmente il più estraneo alla campagna elettorale ma ha finito per contrassegnarla di più a causa della fiducia che ha saputo infondere sull’Italia  all’estero anche in questa occasione, avvertito come il più affidabile dei suoi connazionali. “Un gigante in confronto ai nani della politica che non conoscono né dimostrano il suo senso del dovere”, ha scritto su Domani Curzio Maltese riconoscendogli il merito di avere “tracciato un sentiero fondamentale per il nostro paese che alcuni leader proveranno  a ripercorrere, anche se lui non ci sarà più a guidarli. Per nostra fortuna continuerà ad avere un ruolo importante in Europa”. Lo credo anch’io.

Il presidente del Consiglio uscente

In un Paese minimamente normale, che non si invaghisca del guitto di turno e che non si strappi le vesti per un risultato elettorale sgradito, gridando -per esempio- che Giorgia Meloni “si prende l’Italia” come in un colpo di mano, per farne chissà cosa,, quanto meno un’altra Ungheria secondo il vaticinio del Foglio, Draghi sarebbe in tutti i totonomi del novo governo come possibile ministro degli Esteri. Se lo aspetterebbe persino quel drammatico svitato ormai di Putin a Mosca, pur dopo avere brindato alla notizia delle sue dimissioni da presidente del Consiglio nell’estate politica più pazza che abbia vissuto l’Italia.

Curzio Maltese su Domani

Ma più guardavo la faccia di Draghi al seggio di Roma dove ha votato e più mi convincevo, la notte scorsa, che mancherà un simile passaggio nella lunga crisi che ci aspetta fra l’insediamento delle Camere, la formazione dei gruppi parlamentari, le consultazioni di rito al Quirinale, il conferimento dell’incarico di presidente del Consiglio e la nomina dei ministri. E non so sin d’ora se dovermela prendere più con chi non gliene darà neppure l’occasione o con lui che la rifiuta al solo pensiero di provare la decima parte delle sofferenze procurategli dai partiti a Palazzo Chigi nei mesi scorsi, soprattutto negli ultimi dieci. 

Pubblicato sul Dubbio

La sinistra si è proprio cercata questa vittoria di Giorgia Meloni

Titolo di Libero
Titolo di Repubblica

In quel titolo di Repubblica, su foto in bianco e nero, quasi seppia delle immagini della marcia su Roma di un secolo fa, di questi tempi, in cui si annuncia che Giorgia Meloni “si prende”, cioè s’è presa, l’Italia non c’è chiaramente la cronaca. Non si è marciato, né a piedi né in blindati. Si è solo votato, anche se ancora meno delle altre volte, per giunta eleggendo un Parlamento più ristretto, e meno rappresentativo. Su Libero Corrado Ocone ha voluto cogliere l’occasione per raccomandarci, compiaciuto, di “non rompere le scatole a chi è rimasto a casa”. Contento lui…Continuo modestamente a pensare, al netto del maltempo che però al Sud non ha danneggiato il “fenomeno” Giuseppe Conte, su cui tornerò, che gli astenuti dalle urne sono l’altra faccia degli evasori fiscali. Sono gli indifferenti che Dante Alighieri nella sua Divina Commedia rinchiuse miseramente all’Inferno ben prima di Antonio Gramsci senza prenotarsi la qualifica di comunista. 

Titolo del Foglio
Titolo della Stampa

In quel “prendersi l’Italia”, in una immaginaria notte in cui si rompono tanti cristalli, e non solo quello di Palazzo Chigi al maschile per così tanto tempo, c’è una concezione della politica quasi primordiale. Distante anni luce dal più pacato, sobrio annuncio della Stampa, peraltro dello stesso gruppo editoriale, che “l’Italia va a destra”, nella speranza -lasciatemi aggiungere- di non volere raggiungere e sorpassare nell’Unione Europea l’Ungheria in sospetto di illiberalismo. Dove invece già Il Foglio di Giuliano Ferrara e Claudio Cerasa gli hanno dato il “buongiorno”.

Titolo del manifesto

Sono andati -gli amici foglianti, che in maggioranza hanno votato in libertà d’opinione per Carlo Calenda e Matteo Renzi, e non il Pd d Enrico Letta scelto e indicato dal fondatore del giornale in persona- un passo, anzi un passettino dietro quell’”A noi“ gridato, stavolta a colori, dal manifesto. Eppure l’estate è finita, ormai. E con l’estate anche il caldo torrido che poteva giustificare cadute di zuccheri e quant’altro.  

I penultimi dati

La verità è che le elezioni anticipate, a dispetto persino di una legge che sembrava studiata apposta per favorire i giochi più strani, ma anche  della solita incultura -va detto pure questo- che ha sostituito la militanza dei partiti ideologici di una volta, hanno dato un risultato netto. Il centrodestra, per quanto diviso non meno degli altri schieramenti che si sono confrontati nelle urne, si è aggiudicata la maggioranza solida dei seggi parlamentari tanto alla Camera quanto al Senato. Dove invece Calenda e Renzi soprattutto speravano di poter creare una situazione di incertezza, di potenziale movimento. Esso ora ha il sacrosanto diritto, e dovere, di essere messo alla prova delle sue capacità. E la sinistra quello di farsi un esame di coscienza per ammettere di non essere stata estranea -almeno questo- al risultato che ora lamenta, denuncia e quant’altro. 

Il compianto Achille Lauro

Alla sinistra iscrivo malvolentieri anche ciò ch’è rimasto, con Conte, del Momento 5 Stelle. Che solo in un Paese impazzito, dove c’è davvero del metodo shakespeariano nella follia, può festeggiare ed essere festeggiato come un vincitore virtuale per avere dimezzato i voti conquistati nel 2018 e investiti nelle direzioni più diverse, e disinvolte, durante una legislatura pazientemente sottratta dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella ad un’esistenza di solo qualche settimana. Essa invece è durata quasi per intero. E le scarpe e gli spaghetti del compianto “Comandante” monarchico Achille Lauro, come vado scrivendo da qualche giorno, sono diventati merce di sinistra col reddito di cittadinanza. 

La vignetta di Stefano Rolli sul Secolo XIX

Tranquilli, signori che vi state strappando le vesti, fra Roma e magari anche Mosca, dove forse  Putin e affini avrebbero voluto vedere Matteo Salvini uscire dalle urne un pò meno malmesso nel centrodestra vincente. Giorgia Meloni, a colori e non in quel bianco e nero minaccioso e caricaturale, rischia solo di diventare presidente del Consiglio, non regina. Non l’attendono i settant’anni di regno di Elisabetta II d’Inghilterra.

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Sergio Mattarella tra i primi a votare, naturalmente. Grazie, presidente.

Il capo dello Stato raggiunge la sezione elettorale di Palermo alla quale è iscritto

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella è stato naturalmente tra i primi a votare  per il rinnovo delle Camere e dell’assemblea regionale siciliana nella sua Palermo, dove è nato 81 anni fa ed ha voluto conservare la residenza anche nel secondo mandato al vertice dello Stato. Egli ha voluto chiaramente dare il buon esempio nel momento in cui si è andati alle urne nel timore di una ulteriore crescita del fenomeno dell’astensionismo a causa di una legge elettorale che certamente non incentiva la partecipazione con lo strapotere che hanno voluto conservare i partiti nella gestione delle candidature. E di una campagna elettorale nella quale si sono inseguite più paure ed emozioni che ragionamenti. 

Il grafico di Repubblica sull’affluenza alle urne fra il 1958 e il 2018

I grafici pubblicati dai giornali sulla continua diminuzione dell’affluenza elettorale nei sessant’anni trascorsi fra il 1958 e il 2018 sono semplicemente impietosi. Un’ulterore discesa aggraverebbe la crisi di rappresentanza cui ha contributo nella legislatura chiusa in anticipo la riforma della composizione delle Camere, ridotte di ben oltre 300 seggi fra Montecitorio e Senato, con parti di territorio destinate a rimanere penalizzate e con le competenze invariate, e ripetitive, dei due rami del Parlamento. 

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