I novanta minuti della partita fra Enrico Letta e Giorgia Meloni

Titolo del Corriere della Sera

Non so se avete assistito ai 90 minuti di gioco televisivo, anzi di “sfida”, tra Enrico Letta e Giorgia Meloni, come l’ha definita il Corriere della Sera che ha ospitato la strana coppia di questa campagna elettorale. 

Le schermaglie precedenti, a distanza, avevano fatto temere troppa animosità, soprattutto per talune scivolate del segretario del Pd con l’uso della cipria pur metaforica contestato alla Meloni e con quell’”allarme” lanciato per la democrazia minacciata dalla riforma presidenzialista della Costituzione che si è prefissa  un centrodestra tanto in vantaggio ormai da potersela approvare da sola nel nuovo Parlamento. E senza neppure il passaggio della verifica referendaria prevista solo per le modifiche costituzionali apportate dalle Camere con una maggioranza inferiore ai due terzi. 

Titolo di Domani
Titolo della Stampa

Enrico Letta favorito dal temperamento e Giorgia Meloni dal fatto che uno studio televisivo non è una piazza, dalla quale lei si lascia spesso trascinare troppo, come in un’ansia da prestazione, hanno giocato una buona partita, per entrambi. Propendo personalmente più per il pareggio -“un pari senza squilli”- proposto sulla Stampa da Massimiliano Panarari che per la sconfitta di Letta annunciata su Domani dal direttore Stefano Feltri, convinto come il suo editore Carlo De Benedetti che il segretario del Pd abbia sbagliato tutto sin dalla preparazione della campagna elettorale: E si sia condannato a perdere miserevolmente. 

L’errore che si imputa ad Enrico Letta è di avere allestito un polo per niente “competitivo” con quello del centrodestra perché privo dell’apporto del “partito di Conte”, come Luigi Di Maio definisce ciò che è rimasto del MoVimento 5 Stelle spiegando così anche le ragioni della sua scissione. Ma, a parte il fatto che i dieci, diciamo pure quindici punti percentuali generosamente attribuiti dai sondaggi a Conte in versione Masaniello non sarebbero sufficienti a rovesciare le prospettive elettorali, tanto è il vantaggio ormai acquisito dal centrodestra, perché mai dovrebbe essere considerato un errore il rifiuto di Letta di allestire un’alleanza “solo elettorale”, come raccomandato proprio dall’editore di Domani? In realtà scombinata e inadatta a governare, ma anche a fare opposizione nella prospettiva di una successiva vittoria. 

La sfida televisiva tra Letta e Meloni gestita dal direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana

Anche il centrodestra -si dirà- è scombinato, con quella ossessione che la Meloni ha di Salvini e viceversa, e con Silvio Berlusconi che si propone di tenerli insieme come un padre. Ma chi ha detto che un bipolarismo scombinato in entrambe le sue componenti sia una buona soluzione dopo le prove date dalla cosiddetta seconda e terza Repubblica del bipolarismo targato Berlusconi e Prodi? Enrico Letta ha preferito perdere, pur fingendo di sperare in chissà quale recupero fra gli indecisi, e predisporre il suo partito ad un passaggio di opposizione piuttosto che condannarlo, nella migliore delle ipotesi, ad altre esperienze di governi tecnici, per quanto l’ultimo abbia avuto la fortuna di essere guidato da una persona autorevole come Mario Draghi, e di maggioranze di unità nazionale – diciamo la verità- per modo di dire. Che non hanno retto neppure -ripeto- con Draghi, cui è stato praticamente impedito persino di portare a termine una legislatura vicina, anzi vicinissima alla sua conclusione ordinaria e attraversata da emergenze come la guerra in Ucraina, la crisi energetica e una pandemia sempre in agguato. 

In questa logica di chiarezza credo sia condivisibile anche l’impegno che Enrico Letta e Giorgia Meloni hanno assunto nella loro “sfida” televisiva di non ritrovarsi insieme in un governo dopo le elezioni. Se poi questa scelta di chiarezza costerà a Letta la segreteria del partito, dove già si vedono e si sentono preparativi di resa dei conti, si vedrà. E sarà naturalmente un altro discorso. 

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it   

La pacchia anti-Ue che Giorgia Meloni poteva risparmiarsi

Titolo del Dubbio

Quella “pacchia” gridata da Giorgia Meloni a Milano, in Piazza del Duomo, contro l’Unione Europea -dove i tedeschi farebbero ancora contare troppo i loro interessi, e noi italiani troppo poco i nostri, anche avendo avuto negli ultimi tempi un governo presieduto da un uomo autorevole come Mario Draghi- ha forse avuto un’amplificazione mediatica troppo negativa. E per niente in buona fede, essendo giunta da giornali che avevano appena riportato, mostrando di condividerle, le doglianze del presidente della Repubblica per i ritardi europei, appunto, nel contrasto alla crisi energetica aggravatasi con la guerra in Ucraina. 

Eppure quel grido della candidata  del centrodestra a Palazzo Chigi ormai in netto vantaggio nella corsa alla vittoria elettorale del 25 settembre è stato ugualmente un errore. E’ stata una brutta scivolata del piede sul pedale della frizione, diciamo così. Sarebbe bastato che con la dovuta accortezza, per non muoversi come un elefante in un deposito di cristallerie, che la leader della destra italiana si fosse richiamata proprio ai concetti e ai moniti espressi dal capo dello Stato. D’altronde Sergio Mattarella è anche il “suo” presidente della Repubblica, pur avendo lei preferito non votarne la conferma e protestato per il sì, invece, degli alleati di centrodestra. Non parliamo poi dell’inizio di questa fortunatamente esaurita legislatura, quando anche lei- come un Luigi Di Maio qualsiasi- voleva mandare Mattarella davanti alla Corte Costituzionale, per alto tradimento, avendo negato a Giuseppe Conte la nomina di un Paola Savona considerato troppo euroscettico a ministro dell’Economia. Eppure da quel governo il partito della Meloni era stato escluso prima che si dichiarasse orgogliosamente all’opposizione.

Sergio Mattarella

Ormai quella è acqua passata, dimostrata dai due incontri avuti il mese scorso dalla Meloni proprio col presidente della Repubblica per non parlare certo di bagni e fiori: incontri rivelati dal Fatto Quotidiano persino con pesanti allusioni a “inciuci” post-elettorali e non smentiti da un Quirinale pur attentissimo e forse persino permaloso in questi tempi. Ricordo solo la ruvida smentita rimediata dal buon Marzio Breda, del Corriere della Sera, per avere raccolto -presumo- sullo stesso Colle o dintorni spifferi, chiamiamoli così, sulle reazioni “stupite” di Mattarella all’ipotesi di un ‘automatico” conferimento dell’incarico di presidente del Consiglio alla Meloni in caso di vittoria del centrodestra nel rinnovo delle Camere. 

Matteo Salvini

Il guaio per l’oratrice di Piazza del Duomo a Milano e, più in generale, per la coalizione ormai a sua trazione, come si disse di Matteo Salvini dopo le elezioni del 2018, contrassegnate dal sorpasso della Lega su Forza Italia di Silvio Berlusconi; il guaio, dicevo, per la Meloni è che la vivacità – a dir poco- delle sue sortite sui rapporti con l’Unione Europea, o solo sulla interpretazione dello stato di questi rapporti, appartiene al contesto di una gara che non sembra mai finita fra lei e Salvini sulla strada di Palazzo Chigi. Eppure -Dio mio- il sorpasso dell’una sull’altro può ben essere ormai ritenuto consolidato, per cui non occorrono francamente altri sforzi, altri strappi senza aumentare la confusione e alimentare un clima di precarietà capace di proiettarsi negativamente sulla stabilità e persino credibilità della maggioranza destinata a uscire dalle urne. 

Non vi è paura che tenga, per esempio, del raduno leghista di domenica prossima a Pontida, o di qualche altra visita e telefonata di Salvini a Berlusconi, con o senza l’appendice velenosa di un proposito di ridimensionamento della scomoda alleata dopo il responso elettorale, a poter giustificare errori come quello compiuto dalla Meloni a Milano. 

Del resto, anche comprendendone paure -ripeto- ed altri disagi, a Giorgia Meloni dovrebbe bastare e avanzare la difesa che ne fanno gli amici di partito, a cominciare dal più grosso e scaltro che mi sembra essere Guido Crosetto. Del quale mi permetto di sospettare, anche a costo di smentita e di amichevole scappellotto, con quelle mani così grandi, che abbia di Salvini nel rapporto con la Meloni, pur con tutte le differenze fisiche fra i due uomini, la stessa opinione appena espressa su Enrico Letta in una intervista alla Stampa: “E’ una maschera con gli occhi di tigre. Anche mia moglie ha un barboncino toy, ma è difficile spacciarlo per rottweiler”. 

Qui ormai la rottweiler nei riguardi di Salvini, contando i voti passati in questi anni dall’uno all’altra, è proprio la Meloni. E non vi è papà politico che, trattandoli da “figli”, come si è proposto di fare Berlusconi, possa cambiare la situazione.  

Pubblicato sul Dubbio

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