La “bomba” di Silvio Berlusconi sugli alleati di centrodestra

Il titolo del Riformista

Non sarà stata la “bomba atomica” enfatizzata con un certo compiacimento dal Riformista, ma è stata certamente una sorpresa quella che Silvio Berlusconi ha riservato a Giorgia Meloni e a Matteo Salvini avvisandoli pubblicamente che il suo partito non entrerà nel nuovo o ne uscirà se non ne sarà chiara la linea europeista e atlantista. Il “padre”, quale egli ha recentemente dichiarato di sentirsi rispetto ai suoi alleati parlandone con un misto di affetto e di fiducia, ha giù riassunto le vesti del partner determinante dell’alleanza, pronto a vanificarne anche la vittoria nelle elezioni del 25 settembre se  i soci si volessero prendere troppa libertà in politica estera.

Ursula von der Leyen

Magari, nel rompere con fratelli d’Italia e leghisti, o solo con gli uni o con gli altri, Berlusconi  potrebbe anche riaprire i giochi -se ne dovessero esistere i numeri- per quella “maggioranza Ursula” che ogni tanto riecheggia nel dibattito politico: Ursula dal nome naturalmente della presidente della Commissione dell’Unione Europea von der Leyen e dallo schieramento che la sostiene nel Parlamento di Strasburgo. Dove leghisti e fratelli d’Italia invece si sono appena ritrovati insieme fra i 123 che hanno difeso l’Ungheria del filoputiniano Viktor Orban dalle accuse di illiberalità dei 433 che hanno chiesto censure e sanzioni alla Commissione esecutiva. 

Berlusconi non se l’è sentita di girare la testa dall’altra parte fingendo di non avere visto, sentito e capito. Non se l’è sentita soprattutto nella contingenza creatasi col sospetto allungato, volenti o nolenti, dagli americani anche su destinazioni italiane -escluse solo “per ora”, secondo il presidente del comitato parlamentare della sicurezza della Repubblica, Adolfo Urso- dei 300 milioni di dollari spesi dalla Russia dal 2014 per procurarsi appoggi politici all’estero. 

Già in difficoltà di suo per i passati rapporti di forte amicizia personale con Putin, tanto da correre da lui nel 2015 in Crimea per compiacersi dell’annessione di quella terra alla Russia, Berlusconi non può comprensibilmente abbassare più la guardia sul terreno dell’atlantismo e dell’europeismo mentre il Cremlino non attenua ma  aumenta l’aggressività esplosa con la guerra all’Ucraina. 

Savini recentemente a Venezia con la fidanzata

Dei due alleati interni del Cavaliere, anche se non mancano ogni tanto allusioni pure a Giorgia Meloni, il più esposto ai sospetti, timori e quant’altro sul materiale a disposizione degli americani, a torto o a ragione è Salvini. Che non a caso è quello che per primo ha minacciato querele a a difesa della onorabilità propria e del partito. Ma Salvini è anche quello – sempre fra i due alleati di centrodestra- con cui Berlusconi è sembrato andare più d’accordo, almeno sino all’altro ieri: tanto d’accordo da essere stato recentemente abbandonato per questo dai ministri ormai ex forzisti del governo Draghi, cioè Mara Carfagna, Renato Brunetta e Maria Stella Gelmini. 

Titolo del Foglio

Proprio di Salvini si occupa oggi sul Foglio il fondatore Giuliano Ferrara, amico ed ex ministro e consigliere di Berlusconi, in un editoriale che un pò ne alleggerisce la posizione e un pò l’aggrava in una visione disincantata della politica, dove -ha ricordato Ferrara- non sono mai mancati aiuti esteri ai partiti. 

Giuliano Ferrara sul Foglio

“Il Salvini invotabile, pericoloso, spiazzato in modo grottesco dalla storia di questi anni -ha scritto il fondatore del Foglio- non è uno sconosciuto agente del KGB, non è un politico corrotto dai rubli, è il leader che ha scommesso apertamente su un modello insopportabile per il nostro modo di concepire la vita e l’esercizio dei diritti civili in un paese democratico. Il sapore quarantottesco di queste elezioni…..è tutto qui, in uno scandalo che sta altrove da dove lo si vuole ipocritamente vedere. Il puntinismo, che per Berlusconi è un’amicizia personale,….per Meloni una tentazione apparentemente rifiutata, per Salvini….è una seconda, macché una prima pelle”. 

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

La rivincita di Draghi alla Camera contro i furbetti al Senato sui superstipendi pubblici

Sono naturalmente anch’io in attesa più  o meno ansiosa di sapere se “l’oro di Mosca” in qualche modo intercettato dai servizi segreti americani, e destinato dal 2024 a partiti di una ventina di paesi, non sia giunto davvero pure in Italia, e a vantaggio di chi in particolare, o non risulti “fino ad ora”. Come è stato precisato negli stessi Stati Uniti da Adolfo Urso, presente oltre Oceano non ho ben capito, francamente, se più in veste di presidente del Copasir -il comitato bicamerale di sicurezza della nostra Repubblica, vigilante sui servizi segreti- o di esponente del partito di Giorgia Meloni. Della quale di recente Il Foglio ha rilevato il non ancora chiaro o completo gradimento -diciamo così- dell’inquilino repubblicano della Casa Bianca come candidata a Palazzo Chigi. Per cui le pur ripetute professioni di atlantismo, di solidarietà e di appoggio all’Ucraina e di condivisione delle sanzioni contro la Russia che l’ha aggredita non basterebbero alla leader della destra italiana per rasserenare le “cancellerie” europee. Dove peraltro non hanno gradito il recente grido della Meloni in piazza, a Milano, contro “la pacchia” della prevalenza degli interessi tedeschi e francesi su quelli italiani a Bruxelles e dintorni. 

Titolo del Dubbio

In attesa -ripeto- di sapere e capire, e non solo di intuire o sperare, che davvero “l’oro di Mosca” non sia arrivato anche in Italia, mi permetto di consolarmi della bizzarra campagna elettorale con la nuova, ultima lezione data da Mario Draghi ai partiti. Ma chissà poi se davvero ultima, mancando ancora nove giorni alle elezioni e ancora di più all’insediamento delle nuove Camere, prima del quale le vecchie potrebbero in teoria riservare ancora al presidente del Consiglio altre occasioni d’intervento critico come quello appena avvenuto contro la deroga tentata dal Senato al tetto degli stipendi pubblici. Che è fissato nei 240 mila euro l’anno assegnati al presidente della Repubblica. 

Mario Draghi

La deroga, passata come una supposta nella conversione in legge di un decreto su aiuti a famiglie e imprese danneggiate dai rincari energetici, avrebbe potuto essere vanificata da Draghi evitando semplicemente di renderla esecutiva con un decreto contemplato dallo stesso provvedimento. Ma il presidente del Consiglio, volendo probabilmente precludere cattive tentazioni al successore ma ancor più -sospetto- volendo dare una lezione, appunto, a partiti troppo disinvolti, ha preferito fare ristabilire alla Camera l’integrità del tetto stipendiale. E  obbligare perciò il Senato nell’ultima settimana di campagna elettorale ad un imprevisto supplemento di lavoro per ratificare l’ulteriore modifica apportata a Montecitorio.

L’irritazione di Draghi per quanto accaduto a Palazzo Madama, lamentato anche dal capo dello Stato definendolo “inopportuno”,  è ancora più apprezzabile per il fatto che ha coinvolto, volente o nolente, il suo pur amico ministro dell’Economia Daniele Franco. Che aveva trovato 25 milioni di euro, pari ad una cinquantina di miliardi delle vecchie lire, tra le pieghe del bilancio per finanziare gli aumenti di retribuzione destinati a generali ed alti burocrati. Delle cui aspettative si era fatto portatore in Senato -secondo un racconto affidato dal parlamentare forzista Marco Perosino alla Stampa e pubblicato nella lontana pagina 15, senza una citazione sia pur minima in prima- il presidente della Commissione Finanze Luciano D’Alfonso, del Pd. “Loro ormai -ha detto Perosino parlando anche dei colleghi di partito di D’Alfonso- rappresentano la burocrazia italiana. Siano rimasti noi a parlare per le classi povere”. 

In deroga tuttavia a questa rappresentanza praticamente esclusiva o prevalente delle “classi povere” assunta dai forzisti, Perosino  aveva firmato l’emendamento originario per derogare al tetto ben alto dei 240 mila euro di Mattarella, nella convinzione confessata che riguardasse quattro o cinque posizioni apicali, come si suol dire, della pubblica amministrazione. E perché mai questa generosità? Per amicizia -ha spiegato Perosino- non verso quelle quattro o cinque persone ma per il presidente della Commissione Finanze, che gli aveva chiesto il piacere di firmare la proposta. 

La vignetta con la quale Il Fatto Quotidiano ha cercato di rovesciare sul governo la responsabilità dell’accaduto al Senato

Qualcosa tuttavia lungo il percorso parlamentare della conversione del decreto non andò poi per il verso giusto perché l’emendamento risultò ritirato. Ma Perosino per primo se l’è infine ritrovato, non più a firma sua ma, più genericamente, delle “commissioni riunite”, in un elenco di modifiche elaborato in extremis, secondo lui, neppure dal povero ministro Franco strapazzato -temo- da Draghi, ma da “funzionari” convinti che la furbata passasse inosservata nel bailamme della fine di legislatura. Invece se ne sono accorti, fra gli altri, Mattarella e Draghi, sorpresi -a dir poco- anche dalla sostanziale unanimità dell’approvazione, fra voti favorevoli e astensioni. 

Per quanto curiosamente contenuta dall’informazione, questa brutta vicenda temo che non sfuggirà all’area del cosiddetto astensionismo, già saldamente in testa alla graduatoria dei partiti. 

Pubblicato sul Dubbio

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