La seconda domenica di Quaresima celebrata a suo modo da Beppe Grillo

              Per puro caso -voglio almeno sperare per non dargli del blasfemo, dopo quell’”Elevato” che si è attribuito più volte da solo nel movimento da lui stesso fondato- Beppe Grillo per il suo “conclave con i big” pentastellati, come lo ha definito l’informatissimo Fatto Quotidiano, ha scelto e confermato questa seconda domenica di Quaresima. La cui antifona dice: “Cercate il mio volto”. La prima lettura dalla Genesi ripropone invece la prova di fedeltà chiesta da Dio ad Abramo, e alla fine risparmiatagli, col sacrificio del figlio. Il vangelo secondo Marco ripropone, dal canto suo, l’invito di Dio, avvolto nella luce su un ”alto monte”, a “adorare il figlio mio, l’amato”. Che è infine anche l’antifona alla Comunione.

            Più modestamente di Dio, pur con quella faccia esageratamente michelangiolesca da giudizio universale che assume a volte in teatro e fuori, Grillo è all’opera per raccomandare all’adorazione tutta politica del suo “popolo” l’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Cui il comico vorrebbe affidare la sua creatura alle prese con una crisi identitaria ed elettorale dalla quale egli ha umilmente riconosciuto di non poterlo tirare fuori da solo. Ma la sua, quella cioè di Grillo, è un’umiltà molto relativa perché anche con Conte -indifferentemente come presidente o primus inter pares in un futuro comitato direttivo, grazie ad opportune e ulteriori modifiche allo statuto e il solito passaggio digitale della piattaforma intestata dalla famiglia Casaleggio alla buonanima di Jean Jacques Rousseau- il cosiddetto “Elevato”, garante e quant’altro gli rimarrebbe sopra come in una nuvola.

            Francamente, il povero Conte mi sembra messo assai male, nonostante il gradimento popolare che gli viene ancora attribuito, la nostalgia che ne hanno in almeno una parte dell’ormai malandato Pd e la mano che cercano di dargli quelli del già citato Fatto Quotidiano dipingendo il suo successore a Palazzo Chigi, Mario Draghi, come un uomo predestinato all’insuccesso. Cui persino un sostenitore come Massimo Giannini, sulla Stampa, ha appena chiesto “subito un colpo d’ala” per non sembrare forse troppo appiattito nei suoi riguardi.

            Se fossi in Conte, mi terrei ben stretto l’incarico appena ripreso di professore di diritto privato all’Università di Firenze, senza  altre tentazioni politiche, dopo le due avventure di segno opposto vissute a Palazzo Chigi in meno di tre anni. E mi terrei anche lontano dalla “finestra” dietro alla quale lo ha rappresentato oggi sul Secolo XIX Stefano Rolli a contemplare “un’altra” stella cadente: non so se la penultima o proprio ultima delle cinque del MoVimento col quale Beppe Grillo si è divertito per una decina d’anni, facendo prima ridere e poi piangere un crescente numero dei suoi stessi spettatori.

            Professore, ma chi glielo fa fare, a parte le sollecitazioni o attese di Rocco Casalino, sempre commosso a vederLa e a sentirLa, di  prestare sempre di più il suo volto, mettendolo addirittura nel “nuovo simbolo”, al movimento anticipato in un titoletto di prima pagina dal Messaggero? Per non parlare dell’epica attesa di Emanuele Buzzi, sul Corriere della Sera, di un passaggio che segni addirittura, nel movimento grillino e dintorni, “l’inizio di una nuova era”. E “con Grillo pronto a fare da pontiere”, ha aggiunto Buzzi con un’altra dose di…. vaccino dell’ottimismo. 

 

 

 

 

 

 

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Il ritorno politico di Giuseppe Conte in cattedra all’Università di Firenze

               Giuseppe Conte è dunque riuscito a inserire la ripresa del suo insegnamento universitario a Firenze nella marcia di avvicinamento, sempre in Toscana, alla villa di Beppe Grillo a Marina di Bibbona. Dove, pur irritato per la fuga di notizie a tal punto da essere tentato di annullare l’appuntamento, lo attenderebbe Grillo in persona, con i vertici veri o presunti del MoVimento 5 Stelle, per offrirgliene praticamente la guida. E ciò pur o proprio per lo stato confusionale in cui lo stesso MoVimento si trovava, in verità, già prima, quando in quella stessa villa si permise nell’estate del 2019 l’alleanza di governo col Pd, ma che è degenerata in casino -scusate il termine- dopo la formazione del governo di Mario Draghi. Che è anch’esso a partecipazione pentastellata insieme con lo stesso Pd ma pure con le indigeste Lega di Matteo Salvini, Forza Italia di Silvio Berlusconi e Italia Viva di Matteo Renzi, sopravvissuta all’”asfalto” -ricordate?- di Rocco Casalino. Dovevano  provvedere ad asfaltarla i “volenterosi, “responsabili” e quant’altri di centro, vero e presunto, tutti naturalmente passati da Conte a Draghi dalla sera alla mattina.

            Sia chiaro, il professore di diritto privato e già presidente del Consiglio ha fatto non bene ma benissimo a riprendere la sua attività didattica, essendo oltremodo aleatorio il ruolo che sta preparando per lui l’ormai amico Grillo. Che da comico ha messo su uno spettacolo politico più da ridere che altro, anche se forse molti, soprattutto fra i tifosi che avevano davvero creduto alle sue utopie palingenetiche, hanno voglia ora più di piangere che di ridere. E qualche parlamentare sotto le stelle ha pianto davvero motivando indifferentemente, tra Senato e Camera, il suo sì o il suo no sofferto al governo affidato dal capo dello Stato alla guida dell’ex presidente della Banca Centrale Europea. Di cui, sinceramente, basta sentire le parole e vedere il portamento per capire che è valsa la pena tirarlo fuori dalle riserve, o scuderie, della Repubblica.

            Ciò che invece Conte, a mio modestissimo avviso, ha sbagliato a fare nel suo ritorno all’Università, con tanto di mascherina accademica addosso e qualche contestazione esterna dei soliti centri “collettivi”, è la politica messa  nella sua lezione su “tutela della salute -testuale- e salvaguardia dell’economia”. Non credo proprio ch’egli sia riuscito a smontare le critiche alluvionali non all’uso ma all’abuso dei suoi decreti presidenziali noti ormai con l’acronimo dpcm. La cui “agilità” avrebbe dovuto essere pari a quella del virus da combattere.  Via, non si possono sottrarre sistematicamente alla verifica parlamentare manomissioni delle libertà personali.

            Non credo infine che sia stato un buon affare politico quello fatto da Conte ammettendo che sì, le numerose tribolazioni fra il governo e le regioni per la gestione dell’emergenza pandemica sono derivate dalle competenze delle cosiddette autonomie locali ridisegnate nella infausta riforma del titolo quinto della Costituzione, ma che, per quanto infausta, quella riforma è stata messa poi al sicuro da una successiva legge speciale del 2003. Che all’articolo 8 conferisce un potere “sostitutivo” al governo in caso di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica. “Non abbiamo mai preso in considerazione la possibilità di esercitare questo potere”, si è tuttavia vantato Conte. Vi raccomando quel mai, su cui un altro professore, Sabino Cassese, avrebbe molto da ridire, visto quello che ha scritto sul Corriere della Sera di oggi chiedendo di “cambiare la rotta”.

 

 

 

 

 

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Piccolo bagno di realismo del segretario Zingaretti alla direzione del Pd

             Le tensioni esplose nel Pd sulla gestione della crisi chiusasi con la formazione del governo di Mario Draghi – per quanto in tutti i passaggi precedenti e successivi alle dimissioni di Giuseppe Conte le decisioni fossero state adottate nel partito all’unanimità, evidentemente solo di facciata- hanno obbligato il segretario Nicola Zingaretti ad una specie di bagno di preoccupato realismo davanti alla direzione.  O ad una “ultima chiamata”, come l’ha definita il manifesto.  Egli ha riconosciuto che le cose non potranno proseguire come sono andate sinora, ciascuno pensando alla propria “parte” anziché al “collettivo”, come si diceva ai tempi del Pci. Di cui stavolta Zingaretti non ha ripetuto il lapsus di adottare il nome al posto di quello assegnato nel 2007 alla formazione nata dalla fusione fra i Democratici di Sinistra, cioè i post-comunisti guidati allora da Piero Fassino, e la Margherita dei post-democristiani, liberali, radicali e ambientalisti di Francesco Rutelli.

            Questa volta, parlando della necessità di una sua “rigenerazione”, Zingaretti ha parlato proprio di Pd. Ed ha riconosciuto che con la caduta di Conte, difeso sino all’ultimo persino con la formula di “Conte o elezioni”, pudicamente omessa nel discorso alla direzione, tutto è diventato “più difficile”. Proprio tutto, anche la riproposizione della “vocazione maggioritaria” adottata dal primo segretario del Pd, Walter Veltroni, e rispolverata da Zingaretti.

            Di quella “vocazione maggioritaria” mancano purtroppo i presupposti numerici, visto che il  circa 20 per cento attuale del Pd è ben lontano dal più del 30 per cento conseguito da Veltroni nelle elezioni del 2008, comunque vinte dal centrodestra di Silvio Berlusconi. Non parliamo poi del 40 per cento superato dal Pd di Matteo Renzi nelle elezioni europee del 2014, più che dimezzatosi con lo stesso Renzi nelle elezioni politiche nazionali del 2018, dopo la scissione compiuta a sinistra da Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e Roberto Speranza, in ordine rigorosamente alfabetico.

            I numeri oggi sono quelli impietosi significativamente scelti dallo stesso segretario del Pd per rappresentare la situazione in cui si trova il partito con la formazione del governo Draghi. Dove esso è sceso dai 23 esponenti del secondo governo Conte, fra ministri, vice ministri e sottosegretari, a nove, in lettere. E ogni giorno lo stesso Zingaretti deve inseguire Matteo Salvini, contestandone dichiarazioni ed atteggiamenti, per contrastarne il tentativo di fare apparire, data anche la crisi del Movimento 5 Stelle, la Lega come il partito pilota della nuova e ben più vasta maggioranza subentrata a quella giallorossa. Il partito di Salvini, d’altronde, pur avendo perduto una decina di punti rispetto al 34 per cento dei voti conseguito nelle elezioni europee del 2019, ai tempi del governo gialloverde con i grillini, è pur sempre nei sondaggi a livello nazionale, e nei risultati delle elezioni amministrative svoltesi negli ultimi tre anni, “il primo partito italiano”, come non a caso si vanta quasi ogni giorno il suo leader. Ed ha conseguentemente 12 posti nel governo contro i 9 del Pd ricordati da Zingaretti.

            La strada del congresso anticipato, sulla quale ormai si è incamminato il Pd, pur se una decisione in questo senso sarà presa solo il mese prossimo dall’Assemblea Nazionale, sarà necessariamente lunga anche per le difficoltà organizzative derivanti dalla pandemia. E i tempi non brevi potranno fare aumentare, non diminuire le tensioni sui rapporti interni, e su quelli con i grillini a loro volta in crisi identitaria, e di nervi.

 

 

 

 

 

 

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Attenti a non correre troppo su quelle scale per il Quirinale

Attenti, amici ed estimatori di Mario Draghi, giustamente soddisfatti -per carità- di averlo visto arrivare a Palazzo Chigi, a disegnarne troppo presto il futuro ancora più prestigioso che meritano la sua preparazione e la sua carriera. Attenti, in particolare, a predirgli il Quirinale già per l’anno prossimo, alla scadenza del mandato di Sergio Mattarella, o per salvare capra e cavoli, come si suole dire, ad auspicare e addirittura prevedere con l’aria di avveduti consiglieri una rielezione dell’attuale presidente a termine sottinteso. Che sarebbe di un anno: giusto il tempo necessario ad affidare nel 2023 alle nuove Camere, alleggerite di 345 seggi, l’elezione del successore, evitando due cose entrambe negative: da una parte un nuovo capo dello Stato in qualche modo delegittimato dal fatto di essere stato eletto da un Parlamento ormai pletorico e troppo vicino alla scadenza e dall’altra un Draghi troppo presto trasferito da Palazzo Chigi al Quirinale, prima di avere potuto portare abbastanza avanti o già al termine il suo prezioso mandato di governo. Di cui fa parte, pur non esplicita, anche la scomposizione e ricomposizione di schieramenti politici superati ormai da una infinità di eventi e circostanze.

Penso, per esempio, alla crisi identitaria e d’altro tipo di un movimento come quello di Beppe Grillo, uscito dalle urne del 2018 addirittura con le dimensioni e la centralità parlamentare di quella che era stata per tanti decenni la Democrazia Cristiana. Ora sembra un ammasso di rovine che il comico in una vignetta del Fatto Quotidiano mette a disposizione di Giuseppe Conte.

Penso all’abbandonato o quanto meno ridimensionato sovranismo della Lega di fronte all’evoluzione finalmente solidaristica del processo d’integrazione europea, imposta dalle dimensioni e dagli effetti della pandemia, e al conseguente rimescolamento di carte nel centrodestra. O alle tensioni vecchie e nuove del Pd, che il segretario Nicola Zingaretti  con un lapus suicida ha appena scambiato per il Pci.  Il “suo” Goffredo Bettini nega di avergli mai consigliato un’alleanza “strategica” con i grillini e censura l’”intergruppo” con le 5 Stelle annunciato al Senato. Penso, ancora, alla polverizzazione di quell’area metastasiana di centro che, come l’Araba Fenica, dove sia nessun lo sa.

Di fronte ad uno scenario così complesso e al tempo stesso incerto, pur apparendo e persino essendo la tentazione più facile in cui cadere, un’apertura intempestiva delle danze per il Quirinale, con tanto di date, scadenze e candidati messi ai loro posti potrebbe rivelarsi dannosa per gli stessi interessati. C’è una regola alla quale nessuno è riuscito a sottrarre le corse intempestive al Colle più alto di Roma. Ed è la regola -quasi un ossimoro- della loro imprevedibilità, a forzare la quale si porta addirittura male ai concorrenti. E ci rimette anche chi con troppa presunzione pensa di poterli muovere col filo dei propri ragionamenti da postazioni politiche o soltanto mediatiche. Non faccio nomi perché non è questione di nomi, appunto, ma di metodo.

Di tutte le edizioni della corsa al Quirinale che mi è capitato professionalmente di raccontare, la più scontata o facile da pronosticare  nell’epilogo fu sicuramente quella per la successione a Giovanni Leone. Che, eletto alla vigilia di Natale del 1971, anche lui in modo imprevisto dopo una gara allo spasimo fra i due “cavalli di razza” della Dc, che erano Amintore Fanfani e Aldo Moro, avrebbe dovuto lasciare il Quirinale alla fine del 1978.

Moro, fallito l’obiettivo nel 1971, appariva ormai senza rivali nella corsa successiva. Egli era diventato il punto di riferimento indiscusso della Dc, cui era scontato ancor più di sette anni prima l’appoggio dei comunisti. Ai quali lui aveva già strappato all’insegna della “solidarietà nazionale” prima l’astensione e poi la fiducia ai governi monocolori democristiani di Giulio Andreotti.

Lo stesso Moro era talmente sicuro di essere ormai in vista del Quirinale che nell’ultimo discorso ai gruppi parlamentari congiunti del suo partito, il 28 febbraio 1978, convinse i refrattari all’intesa col Pci sottolineandone -a dispetto di quel che gli avrebbe fatto dire Eugenio Scalfari in una intervista postuma- la transitorietà, in attesa proprio del passaggio istituzionale della fine di quell’anno.

Ebbene, l’elezione di Moro al Quirinale era così inusualmente scontata che il caso -o solo il caso?, verrebbe da chiedersi per i tanti punti ancora oscuri del suo tragico sequestro, tra il sangue della scorta sgominata il 16 marzo a poche centinaia di metri da casa- volle che il presidente della Dc facesse la fine orribile che sappiamo. E neppure Leone, che aveva cercato disperatamente di aiutarlo davvero nei 55 giorni della prigionia nelle mani delle brigate rosse, riuscì a portare a termine regolarmente il suo mandato, punito forse proprio per quel tentativo di salvare l’amico e collega di partito predisponendo la grazia per una detenuta compresa nell’elenco dei 13 “prigionieri” indicati dai terroristi per scambiarli con l’ostaggio.

 

 

 

 

 

 

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Benvenuti, si fa per dire, nella collaudata Repubblica di Odiopoli

            Hanno giustamente fatto scandalo gli insulti a Giorgia Meloni che sono costati una meritatissima sospensione al professore universitario Giovanni Gozzini, purtroppo non nuovo a questi infortuni. Che non sono solo di lingua, ma – lasciatemelo scrivere – anche di testa. E che hanno spinto, fra l’altro, Walter Veltroni sul Corriere della Sera a lamentarsi del troppo odio che da troppo tempo circola anche in politica. Esso si vende a modico prezzo non a chili, non a quintali ma temo ormai a tonnellate.

             Ho letto qualche giorno fa di un conto bancario di 65 mila euro di Ottaviano Del Turco scambiato per un deposito milionario pur di contestare al titolare il diritto riconosciutogli dal competente organismo del Senato di percepire il vitalizio di ex parlamentare a causa delle sue gravissime condizioni di salute, nonostante una condanna definitiva subìta per “induzione indebita” contestagli negli anni in cui era presidente della giunta regionale abruzzese ed entrò in conflitto col re della sanità privata locale. Un immobile del valore di 250 mila euro, di  proprietà sempre di Del Turco, è stato spacciato per una ricchezza inaudita, sempre allo stesso scopo. Neppure sulla soglia della morte, tra tumore, morbo di Alzheimer e non so cos’altro, si finisce di essere odiati dagli avversari in questo allucinante paese che è diventato l’Italia.

            Solo la pratica dell’odio e del dileggio permanente del nemico di turno può spiegare anche la graticola sulla quale ogni giorno Il Fatto Quotidiano, ormai fuori dalla grazia di Dio per le penose condizioni politiche del già carissimo movimento pentastellato, prima del presunto o scoperto impazzimento di Beppe Grillo, mette il governo di Mario Draghi. Del quale se i ministri sono mostri, tecnici o politici che si vogliano considerare, i sottosegretari appena nominati, compreso evidentemente il capo della Polizia Franco Gabrielli destinato alla delega dei servizi segreti, sono “sottomostri”, prodotti non nelle ore serali così abituali anche per le sedute consiliari dell’ultimo governo di Giuseppe Conte, ma nelle “tenebre”.  E non fra le solite discussioni, i soliti contrasti, i soliti conteggi e maneggi partitici e correntizi, ma nella più biasimevole “rissa”. E i più antipatici di questi “sottomostri” vengono selezionati per il fotomontaggio di giornata su cui potere sputare, o su cui fare allenare solitariamente il sospeso professore Gozzini.

             I malcapitati colleghi di Repubblica, colti in flagranza di chissà quale reato scrivendo che il nuovo governo ha fatto “pulizia sul Recovery Plan” con un taglio di 14 miliardi di euro in progetti “senza copertura finanziaria”, colpevolmente concessi dall’ex ministro dell’Economia al “piano Ciao” del “riganese” Matteo Renzi; i malcapitati colleghi di Repubblica, dicevo, sono diventati “repubblichini” nella prosa editoriale di Marco Travaglio. E nessuno ha nulla da scrivere e da dire, sinora neppure nel giornale fondato da Eugenio Scalfari, che esce non in una Salò tornata agli anni di Benito Mussolini ma a Roma: la Roma di Sergio Mattarella e di Mario Draghi.

             Per fortuna è scampato all’attenzione della prima pagina del Fatto Quotidiano il povero Antonio Catricalà, un grande servitore dello Stato uccisosi a casa per depressione e rimpianto forse con troppo dolore da mostri e sottomostri, o dai loro capi, a cominciare naturalmente dal solito “pregiudicato” e “amico dei mafiosi” di nome Silvio e di cognome Berlusconi.

 

 

 

 

 

 

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Si può scivolare disgraziatamente anche sull’antirazzismo

            Lì per lì mi sono sentito un verme leggendo su Libero la protesta, anzi l’indignazione di Azzurra Barbuto per il silenzio caduto sull’autista del conducente dell’auto del contingente delle Nazioni Unite morto per primo nell’assalto che è poi costata la vita all’ambasciatore d’Italia nella Repubblica del Congo Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci, addetto alla sua sicurezza. Le cui salme sono state accolte a Roma dal presidente del Consiglio. Silenzio sull’autista, ignorato anche nelle espressioni di cordoglio e di esecrazione delle autorità italiane solo perché congolese e nero. Si chiamava Mustapha Milambo, si è poi saputo.

           Mi sono sentito un verme per avere appena scritto anch’io dell’orribile fine dei nostri due connazionali ignorando quella dell’autista. Ma poi mi sono ripreso dal colpo, o dal senso di colpa, quando ho letto le motivazioni dell’indignazione della giornalista di Libero. Secondo la quale “i neri, per i buonisti, meritano misericordia solo in qualità di migranti clandestini, allorché si tratta di accoglierli per poi scaricarli sulle strade come spazzatura, o quando c’è da inginocchiarsi in tv o nelle aule parlamentari per rendere omaggio alla memoria di George Floyd, afroamericano soffocato la scorsa estate da un poliziotto durante un arresto”.

            Eh no, cara e indignata signora. A queste condizioni, cioè con queste motivazioni e questi abbinamenti, non ci sto. E non avverto nessun senso di colpa, o almeno nessun senso di colpa maggiore di quello che dovrebbero avvertire ufficiali, funzionari e quant’altri delle Nazioni Unite e del governo congolese per non avere avvertito il bisogno di rivelare subito l’identità, cioè nome e cognome, dello sfortunato autista morto ammazzato per primo nell’ennesimo episodio di violenza brutale per prevenire i quali sono impiegati in quel lontano Paese ventimila caschi blu e spesi ogni anno un miliardo di  dollari. Ce lo ha raccontato Domenico Quirico sulla Stampa scrivendo giustamente della missione di pace più costosa e tradita disposta a New York nel palazzo di vetro più famoso del mondo. Del resto, neppure la signora di Libero scrivendone ha potuto fare il nome dell’autista ucciso.

           Non saranno gli argomenti di Azzurra Barbuto a farmi pentire, da “buonista” come la signora ha liquidato chi non la pensa come lei sulla vicenda congolese e dintorni,  o  non si allinea alla sua sensibilità, di sostenere il dovere di soccorrere i migranti di colore, diciamo così, che spesso finiscono sulla strada come “spazzatura” fuggendo spontaneamente dai luoghi di raccolta, e non cacciati da aguzzini di Stato.

          Né mi pento di avere condiviso l’indignazione che meritava la morte di George Flojd, procurata in terra americana, cioè nell’Occidente libero e virtuoso, da un poliziotto indegno della divisa che portava, con la complicità di colleghi della stessa risma.

          Vanno bene le lacrime, anche quelle di circostanza, e quel di più di commozione, anticonformismo e altro ancora che si avverte nelle polemiche giornalistiche e politiche, ma ci deve pur essere un limite, oltrepassato il quale certa moneta è solo farlocca. O la carità diventa pelosa.

 

 

 

 

 

 

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Soccorso…anagrafico di Antonio Di Pietro ai ribelli grillini

I guai dei grillini sono come le matrioske. Ciascuno di essi ne contiene altri. I procedimenti di espulsione avviati contro i parlamentari che hanno negato la fiducia al governo di Mario Draghi hanno messo in crisi anche il collegio dei tre probiviri. Una dei quali -Raffaella Andreola- ha contestato la legittimità del reggente scaduto del movimento 5 Stelle, Vito Crimi. Che invece ha fatto subito da spalla a un Grillo furente e buttafuori, riproponendosi nell’urticante definizione di “gerarca minore” affibbiatagli dal compianto e storico direttore e conduttore di Radioradicale Massimo Bordin. Erano i tempi in cui Crimi da sottosegretario di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi era mobilitato contro l’emittente creata da Marco Pannella.

Il rischio di espulsione, dopo la novantina di uscite o cacciate dal movimento grillino sui 335 eletti nel 2018, ha diviso i dissidenti in due parti: una decisa a resistere anche nei tribunali alle lamentate violazioni delle regole, sperando di trovare il famoso giudice a Berlino della favola attribuita a Bertold Brecht, l’altra tentata da altre destinazioni fra Camera e Senato, ma soprattutto al Senato, dove il regolamento e i numeri calzerebbero meglio per accasarsi in un altro gruppo utilizzando qualche sigla in disuso, diciamo così, anche a costo di imitare il tanto odiato Matteo Renzi. Che, non cacciato ma uscito spontaneamente dal Pd con un bel po’ di parlamentari al seguito, numericamente sufficienti a costituirsi in gruppo autonomo ma inevitabilmente sprovvisti di una sigla sottopostasi al voto nelle precedenti elezioni politiche, chiese e ottenne ospitalità dal pur ormai lillipuziano Psi di Riccardo Nencini.

Con l’istinto e la rapidità dei felini  della sua terra molisana i ribelli grillini hanno visto materializzarsi davanti a loro, direttamente o attraverso i titoli dei giornali, Antonio Di Pietro. La cui Italia dei Valori, da non confondere naturalmente con l’Italia Viva di Renzi, pur avendo entrambe lo stesso acronimo che dannatamente può spingere all’errore quando se ne parla, è relegata ormai tra le frattaglie d’archivio del Senato. Ma potrebbe risultare utile ai dissidenti grillini, specie a quelli che ancora ricordano gli eccellenti rapporti d’amicizia e di lavoro avuti a suo tempo da Di Pietro con il cofondatore del movimento delle 5 stelle Gianroberto Casaleggio.

Non mancarono tentativi immediati di approccio di Di Pietro al movimento grillino per affinità di giudizio sulla classe politica, in genere, e di aspirazioni a misure radicali di contrasto, ma i vertici pentastellati erano talmente lanciati e sicuri di sé che fecero sostanzialmente spallucce al molisano ormai in crisi di consensi. E poi, essi sembravano francamente attratti più che dagli ex, dai magistrati ancora in servizio, come il pubblico ministero di Palermo Nino Di Matteo. Che spopolava come ospite fra i grillini, pur essendo destinato a procurare loro cocenti delusioni o imbarazzi, per esempio contestando pubblicamente come consigliere superiore della Magistratura il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che gli aveva offerto la direzione del Dipartimento penitenziario all’arrivo in via Arenula ma poi preferì un altro. Poco mancò che la faccenda non costasse il posto all’allora guardasigilli, una volta esploso il caso, per la solita tempestività con la quale Renzi lo cavalcò, salvo rinunciarvi, sempre come al solito, all’ultimo momento.

Ora non so quale dei due Di Pietro esistenti nelle rievocazioni delle sue imprese giudiziarie sia più adatto alle esigenze abitative, chiamiamole così, dei ribelli grillini. Già, perché c’è un Di Pietro originario, quello che fece indossare ai suoi tifosi nel 1992 magliette da sogni di manette contro il “cinghialone” Bettino Craxi e tutti gli altri socialisti accusati o solo sospettati di pratiche tangentizie, e un Di Pietro derivato dopo molti anni da una sua stessa ricostruzione delle mitiche indagini “mani pulite” sull’Espresso. Secondo la quale  Craxi fu quasi vittima involontaria, casuale, di quell’inchiesta, essendosi  limitato a praticare come tutti gli altri il finanziamento illegale della politica ed essendo stato invece un altro -l’allora presidente del Consiglio in persona Giulio Andreotti- l’obiettivo grosso delle ricerche condotte da Di Pietro come sostituto procuratore della Repubblica a Milano. Era sull’Andreotti punto sostanziale di riferimento delle imprese che si spartivano gli appalti, specie nei territori controllati dalla mafia, che Di Pietro pensava di poter mettere clamorosamente e metaforicamente la mani addosso.

Il trauma di questa rivelazione fu tale dalle parti del Fatto Quotidiano che il povero Di Pietro dovette prestarsi ad una intervista suppletiva per precisare che sì, Craxi non era stato il solo a praticare il finanziamento illegale della politica ma era stato comunque il peggiore, per cui avrebbe meritato la fine riservatagli dai tribunali misti dei magistrati e del popolo. E così le cose tornarono tutte al loro posto, almeno -ripeto- da quelle parti mediatiche.

 

 

 

 

 

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Smettiamola, per favore, di fare i salamelecchi alle Nazioni Unite

            Fra le corrispondenze, le analisi e i commenti al nuovo sangue italiano versato nelle foreste del Congo, dopo i tredici aviatori fatti a pezzi e gettati in un fiume a Kindu l’11 novembre 1961, vorrei segnalarvi l’editoriale di Domenico Quirico sulla Stampa per essenzialità e autorevolezza professionale, viste le tante guerre che è capitato all’autore di seguire e raccontare rischiando anche la pelle.

            A proposito delle circostanze in cui  è toccato questa volta di morire al giovane ambasciatore Luca Attanasio e all’ancor più giovane carabiniere Vittorio Iacovacci, vittime certamente degli “ultimi affiliati al Califfato”- come li chiama Quirico- che volevano probabilmente solo sequestrarli per ricavarne altri finanziamenti al terrorismo variamente operoso, ma anche delle carenze di scorta e altro della missione delle Nazioni Unite, si rimane senza fiato a leggere queste righe quasi scolpite, più che stampate: “I rivoluzionari e i ribelli sono in realtà banditi, i governativi indossano uniformi ma si battono non per la paga, che nessuno gli dà, ma anche loro per il bottino, le donne da violentare”. “E i soldati dell’Onu?”, si chiede Quirico  commentando così la loro missione: “la più grande e fallimentare operazione di pace della storia”, con “ventimila uomini e un miliardo di dollari l’anno”. “Da vent’anni -ha raccontato Quirico con meritoria franchezza- sono lì, frustrati spettatori di una pace metafisica che non c’è, caschi blu arruolati in Paesi ancor più poveri di questo, mercenari della miseria”, a dispetto – aggiungerei- della ricchezza delle riserve naturali delle loro terre.

            Ai tempi della strage di Kindu, dove anche i militari italiani si muovevano sotto le insegne dell’Onu, a guidare il governo a Roma era Amintore Fanfani, destinato a presiedere dopo soli quattro anni con disinvolto compiacimento l’assemblea generale dell’Onu. A presiedere oggi il governo italiano è Mario Draghi, che presentandosi alle Camere ha tenuto a indicare nelle Nazioni Unite, oltre che nei vincoli europei e atlantici, un caposaldo della politica estera del nostro Paese. C’è solo da augurarsi che anche su questo, oltre che su altri terreni, il nuovo presidente del Consiglio voglia e sappia ora stupire per “discontinuità”, diciamo così, gli italiani da troppo tempo condannati ai danni del conformismo. Cui appartiene anche questa fiducia sostanzialmente illimitata nelle Nazioni Unite, nonostante i tanti fatti che gridano vendetta: dai Balcani al Congo. E scusate se non è poco.

            Non vorrei che su questo cocente terreno il presidente del Consiglio si trovasse scavalcato dai pur malmessi grillini. Che una volta tanto sarebbero anticonformisti a ragione. Essi si trovano peraltro nella insperata e forse anche immeritata circostanza di avere un loro uomo alla testa del Ministero degli Esteri. A meno che Luigi Di Maio, catalogato come un “governista di ferro” nella toponomastica attuale del suo MoVimento, non decida pure lui di mettere la testa sotto la sabbia, come uno struzzo qualsiasi.

 

 

 

 

 

 

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Secchiata d’acqua fredda e verità di Gentiloni su Conte e dintorni

            Il sospiro di sollievo del commissario italiano a Bruxelles ed ex presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, raccolto -credo al telefono- dal direttore della Stampa Massimo Giannini, deve essersi rovesciato come una secchiata d’acqua fredda, e di verità, addosso a Giuseppe Conte. E a chi, sotto le cinque stelle ma anche altrove, per esempio nel Pd, lo rimpiange e, magari, si commuove come il suo portavoce Rocco Casalino nel rivedere le foto del commiato da Palazzo Chigi con la fidanzata.

            “Con Draghi rinasce l’Italia”, ha detto Gentiloni, e gridato La Stampa su tutta la prima pagina. “Ora Bruxelles si fida di Roma”, ha aggiunto il commissario europeo all’economia quasi liberandosi di un incubo che, a dire il vero, aveva in qualche modo manifestato anche durante la crisi, quando si lavorava per una terza edizione del governo Conte. Ma a Roma avevano fatto finta di non sentire e capire né i compagni di partito di Gentiloni, a cominciare dal segretario “ombra” Goffredo Bettini, né i pentastellati arroccati attorno al presidente del Consiglio dimissionario come ad un’immagine sacra nel pieno di una spaventosa tempesta.

            Il nuovo presidente del Consiglio “non dice nulla e piace a tutti”, ha scritto desolato lo storico dell’arte Tommaso Molinari sul Fatto Quotidiano -e dove sennò ?- ma  vorranno pur dire qualcosa gli effetti benefici che si sono già avvertiti col suo arrivo alla guida del governo, anche se c’è chi soprattutto a sinistra, più che a destra, dalle parti di Giorgia Meloni e “fratelli” schieratisi presto all’opposizione, spera magari di vederlo naufragare nella lotta alla pandemia. “Alla destra si perdona sempre tutto e subito, alla sinistra niente”, ha osservato il politologo Piero Ignazi su Domani, desolato come Molinari per altro verso sul giornale di Marco Travaglio, pensando al ruolo aumentato dei leghisti di Matteo Salvini e dei forzisti di Silvio Berlusconi.

            Naturalmente la secchiata di acqua fredda e di verità rovesciatasi addosso a Conte con le parole e i giudizi impliciti di Gentiloni, a questo punto, su entrambi i governi da lui presieduti, non frenerà minimamente l’ex guardasigilli grillino Alfonso Bonafede. Che ha riproposto sul Fatto Quotidiano – e dove senno?, anche questa volta- di affidare al professore e avvocato amico il compito di “rifondare” e capeggiare, si presume, il tormentatissimo MoVimento 5 Stelle. E ciò anche per smentire due ex grillini come Luigi Paragone ed Emilio Carelli, che ne hanno appena parlato, intervistati da Libero, come del “nulla” o dell’”inferno”.

            Eppure una ricetta più semplice e immediata per la rifondazione, rigenerazione e quant’altro del movimento di Grillo è stata indicata proprio sul Fatto Quotidiano con “la cattiveria” di giornata sulla prima pagina. Eccola: “A proposito di espulsioni, fanno prima se dai 5Stelle vanno via Crimi e Di Maio, restano tutti gli altri”, compreso Bonafede evidentemente, ospitato con tanta generosità dal giornale di Travaglio anche ora che non è più il ministro della Giustizia e tanto meno il capo della delegazione grillina al governo. Egli partecipa a suo modo a quella trasformazione del movimento che, pur sospetta agli occhi di Travaglio, ha così rappresentato nel suo editoriale su Repubblica l’ex direttore Ezio Mauro: “Grillo, l’antistato diventa sistema”. Vasto programma, avrebbe detto il sempre compianto generale Charles De Gaulle.

 

 

 

 

 

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In aumento la polvere delle cinque stelle, e il timore di ricadute su Draghi

            In un MoVimento, con le maiuscole anagrafiche, spaccato ormai su tutto, e col suo “garante” ridotto al “solo che ride” nella tragedia generale, secondo la impietosa rappresentazione vignettistica sulla prima pagina del già amico Fatto Quotidiano, non poteva rimanere unito solo il collegio dei probiviri. Dove infatti Raffaella Andreola ha preso le distanze dagli altri due colleghi e ha denunciato la violazione delle regole commessa dal reggente peraltro scaduto Vito Crimi attivando le procedure di espulsione di quanti hanno negato la fiducia parlamentare al governo di Mario Draghi. I quali rischiano pertanto di essere aggiunti arbitrariamente alla novantina dei 338 parlamentari eletti nelle liste delle 5 Stelle e già usciti di loro o cacciati dal movimento nei meno dei tre anni trascorsi dalle elezioni politiche del 2018.

            Siamo a un un bilancio che dice da solo di quali dimensioni sia la crisi del pur ancora maggiore partito rappresentato in Parlamento. Che ha condizionato la vita dei primi due governi dell’accidentata legislatura in corso, ma ha perduto buona parte del suo potere contrattuale nel governo Draghi per l’ampiezza della maggioranza che il nuovo presidente del Consiglio ha voluto e saputo raccogliere attorno a sé grazie anche alla forte investitura d’emergenza ottenuta dal capo dello Stato.

            Alla crisi del MoVimento, sempre con le maiuscole anagrafiche, corrisponde il malessere, a dir poco, del giornale che è stato abitualmente il suo punto di riferimento, a volte persino di ispirazione, diretto da Marco Travaglio. Che, sempre più deluso dall’uscita repentina di scena di Giuseppe Conte, di cui ormai scrive al passato sulla sua Repubblica anche il buon Eugenio Scalfari, ha già messo una scopa nelle mani del successore Draghi nel solito fotomontaggio di prima pagina per accusarlo di nascondere i problemi sotto il tappeto e di praticare lo sport, chiamiamolo così, dei rinvii già contestato a Conte dagli avversari. E che ne hanno provocato alla fine la caduta: altro che i complotti dei “poteri forti”, e avidi dei fondi europei della ripresa, lamentati dai nostalgici dei precedenti governi. Nell’ultimo dei quali peraltro si è appena scoperto che l’ex deputato grillino Alessandro Di Battista, insorto in difesa degli amici ora sotto procedura di espulsione, contava di poter entrare se a Conte fosse riuscito il tentativo di una terza riedizione della sua esperienza a Palazzo Chigi.

            Nervoso più del solito per la piega presa dalla politica con l’arrivo di Draghi, il direttore del Fatto Quotidiano ha reagito con particolare fastidio al sospetto avanzato in una recente intervista dall’ex direttore e ora editorialista del Corriere della Sera Paolo Mieli che al nuovo presidente del Consiglio possano derivare noie giudiziarie per iniziativa dei soliti magistrati, in particolare pubblici ministeri, molto accreditati e sostenuti, appunto, dal Fatto. Ma nella polemica che ne è seguita Travaglio si è un po’ tradito, diciamo così, scrivendo che i precedenti delle nuove parti politiche della maggioranza, liquidate come “magna magna” o colluse la mafia, potrebbero giustificare le sorprese temute da Mieli. E concludendo, testualmente, che se lo stesso Mieli “sa qualcosa di indagini già aperte e tenta di screditarle o bloccarle preventivamente, lo dica e lasci perdere il Fatto”. Che evidentemente vuole gustarsi lo spettacolo pseudogiudiziario senza farselo guastare da nessuno.

 

 

 

 

 

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