Mario Draghi fa già volare la Borsa e precipitare i grillini nella confusione

              Al solo vedere e sentire le stringate dichiarazioni di Mario Draghi al Quirinale dopo avere ottenuto l’incarico  di formare il novo governo, senza quindi aspettare le sue consultazioni per quella che il manifesto ha definito con la solita efficacia la tessitura della propria tela, i mercati sono andati “in festa”, come ha titolato il giornale della Confindustria 24 Ore. I grillini invece sono andati in lutto. o in tilt, quanto meno divisi, come d’altronde il centrodestra.

           Ma mentre sotto le 5 stelle sono divisi su come boicottare Draghi, votandogli contro in Parlamento o cercando di inserirsi nella nuova maggioranza per forargli le gomme lungo la strada, il centrodestra è diviso su come aiutarlo: con l’astensione proposta da Giorgia Meloni, una volta resasi conto di essere in minoranza nella coalizione osteggiandolo, o col voto favorevole che vorrebbe Berlusconi. E da cui è quanto meno tentato Matteo Salvini, premuto da Giancarlo Giorgetti.  Che  vede giustamente nel passaggio di Draghi un’occasione irripetibile per sciacquare nelle acque dell’ex presidente della Banca Centrale Europea, come Alessandro Manzoni nell’Arno per la lingua italiana, il sovranismo ormai logoro o comunque superato della Lega, dopo la svolta solidaristica imposta all’Europa dall’emergenza pandemica.

            I grillini sono insomma quelli messi peggio di fronte alla coraggiosa decisione di Sergio Mattarella di mettere in campo la riserva più importante e prestigiosa della Repubblica -Maro Draghi, appunto- per chiudere una crisi trascinatasi troppo a lungo anche per le resistenze alla sua apertura  opposte dal presidente del Consiglio uscente Giuseppe Conte. Che ora fa l’offeso, oltre che il deluso, e minaccia di non accettare eventuali offerte del successore, fosse anche quella quasi d’abitudine del Ministero degli Esteri che si fa a chi esce da Palazzo Chigi.

           Sotto le cinque stelle sono un po’ tutti prigionieri dei pesanti giudizi espressi da almeno il 2014 contro Draghi, e ricordati con felice puntualità e perfidia da Mattia Feltri nella sua rubrica di prima pagina della Stampa e del Secolo XIX, titolata questa volta “Ad occhio e croce” per dire che così, appunto, tornano  i conti delle loro posizioni e del loro modo di vedere lo sviluppo in un mondo che dovrebbe fare a meno delle banche e dei banchieri. Proprio oggi sul Fatto Quotidiano il vignettista Vauro Senesi satireggia contro Draghi perché metterebbe “al sicuro la democrazia in banca”. Gli si contrappone sul Riformista l’ex compagno di partito Sergio Staino indicando in Draghi la felice smentita dell’assunto grillino dell’”uno vale uno”.

            Marco Travaglio, sempre sul Fatto Quotidiano naturalmente, ha avuto la disinvoltura di scrivere che “se nascerà, il governo Draghi sarà giudicato come tutti gli altri: ne valutereno maggioranza, ministri e scelte in base alle nostre convinzioni, senza pregiudizi né positivi né negativi”. Ma non più tardi di ieri lo stesso Travaglio ha reagito alla notizia dell’incarico a Draghi chiedendo ai grillini e al Pd di opporre “un no gentile”, bontà sua, abituato com’è a insolentire gli interlocutori che non gli piacciono,”ma netto”. Netto come il percorso di sostegno, indirizzo e quant’altro dei grillini, e ora anche del povero Pd, seguito con ostinazione dal Fatto strappato alla memoria dell’inconsapevole e incolpevole Enzo Biagi, titolare di un’omonima e celebre trasmissione televisiva.

 

 

 

 

 

 

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Tutti i sacrifici imposti da Conte a Mattarella negli ultimi mesi di governo

Provo a fare il conto, temo incompleto, dei fioretti che da buon credente Sergio Mattarella ha fatto da almeno ottobre sino all’intervento che ha dovuto eseguire sulla politica commissariandola, come si sono lamentati dalle parti del manifesto, col ricorso a Mario Draghi per chiudere la crisi di governo.

Il primo fioretto fu il silenzio opposto in autunno ai tentativi del presidente del Consiglio di applicare in modo quanto meno improprio i consigli del Quirinale di coinvolgere le opposizioni nella gestione delle varie emergenze che si accavallavano dopo l’estate: pandemica, sociale, economica e finanziaria, come lo stesso Mattarella ha ribadito di fronte all’esito negativo dell’esplorazione affidata al presidente della Camera. Anziché coinvolgerle, Conte cercò subito di dividere le opposizioni, pensando ai vantaggi che potevano derivarne all’interno del Pd, dove esistevano tendenze più o meno esplicite a coinvolgere Silvio Berlusconi in un gioco utile a cautelarsi dai primi segnali di insofferenza di Matteo Renzi.

Anche il secondo fioretto fu un silenzio: quello opposto da Mattarella, come se non se ne fosse accorto, al tentativo di Conte di gestire con molto comodo la indesiderata verifica della maggioranza alla fine impostagli da Renzi con una certa vivacità e dal Pd con minore forza. Le riunioni di politici ed esperti erano tanto frequenti quanto inutili, e alla fine neppure più frequenti.

Il terzo fioretto fu la firma apposta senza alcuna doglianza nel vedersi arrivare sulla scrivania il bilancio dello Stato a poche ore di distanza dalla scadenza dei termini per evitare il ricorso all’esercizio provvisorio: legittimo, per carità, come rilevato da costituzionalisti di prima fila, ma dannoso nei mercati finanziari. Dove gli avvoltoi non riposano mai nelle loro speculazioni.

Il quarto fioretto di Mattarella fu quello, non so francamente se richiesto esplicitamente dal governo, dal Pd o da altri ancora o solo intuito come loro necessità dal presidente della Repubblica, di accreditare una disponibilità del Quirinale a fronteggiare una eventuale crisi troppo accidentata ricorrendo allo scioglimento delle Camere e alle elezioni anticipate. La cosa in effetti ha funzionato per un po’ come deterrente a favore di Conte e di una sua ricerca di senatori “responsabili, europeisti, volenterosi” e quant’altro con cui sostituire i renziani nella maggioranza, specialmente al Senato. Dove  gli “italoviventi”, dal nome del partito di Renzi, erano e sono rimasti determinanti anche nella votazione di fiducia cercata da Conte dopo le dimissioni delle due ministre fedelissime dell’ex sindaco di Firenze.

Il quinto fioretto del capo dello Stato è stato proprio quello di permettere a Conte, una volta perdute le due ministre renziane, di non dare le dimissioni e di tentare nell’aula di Palazzo Madama di “asfaltare” -parola attribuita al portavoce Rocco Casalino, per quanto poi smentita- il partito ormai troppo scomodo di Renzi.

Il sesto e ultimo fioretto, almeno nel mio elenco che -ripeto- potrebbe essere incompleto, Mattarella lo ha fatto concedendo alla maggioranza giallorossa, ormai in crisi aperta anche formalmente, i tempi supplementari del mandato esplorativo al presidente della Camera. Che non è riuscito, neppure lui, a contenere i compagni di partito o movimento, cioè i grillini. Costoro infatti, messi al tavolo comune con gli altri per tentare un’intesa programmatica, ci hanno ripensato sulla promessa del reggente Vito Crimi di soprassedere alle questioni “divisive”, riducendole al solo ricorso ai finanziamenti europei per il rafforzamento del servizio sanitario. E hanno poi opposto barricate quando gli altri hanno sollevato i problemi, per esempio, della giustizia e del troppo costoso reddito di cittadinanza. Ma oltre a questo i pentastellati hanno tentato di blindare i loro ministri più esposti, a cominciare dal guardasigilli Alfonso Bonafede, scambiando la formazione di un nuovo governo per un piccolo e indolore rimpasto di quello dimissionario.

Quando ha raccolto il rapporto di Fico sulla sua esplorazione Mattarella è sbottato come solo i pazienti riescono a fare, chiudendo praticamente la partita con l’incarico pieno e fiduciario a Draghi per un governo di “alto profilo”, ben oltre le formule e gli schieramenti formatisi in questa anomala diciottesima legislatura. A metà del cui percorso sono state bruciate già due maggioranze di segno opposto.

In condizioni normali si sarebbe tornati alle urne, ma Mattarella ha spiegato con dovizia di argomenti la eccezionalità di questi tempi. E, anche a costo di farsi accusare da quelli del Fatto Quotidiano di “negare il voto sempre evocato”, ha preferito scommettere sulla responsabilità delle Camere attuali, alle cui forze rappresentate ha chiesto di dare la fiducia al governo Conte. D’altronde l’articolo 88 della Costituzione affida alla sola e insindacabile valutazione del presidente della Repubblica la praticabilità delle elezioni anticipate.

 

 

 

 

 

Pubblicato sul Dubbio

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