Piccolo bagno di realismo del segretario Zingaretti alla direzione del Pd

             Le tensioni esplose nel Pd sulla gestione della crisi chiusasi con la formazione del governo di Mario Draghi – per quanto in tutti i passaggi precedenti e successivi alle dimissioni di Giuseppe Conte le decisioni fossero state adottate nel partito all’unanimità, evidentemente solo di facciata- hanno obbligato il segretario Nicola Zingaretti ad una specie di bagno di preoccupato realismo davanti alla direzione.  O ad una “ultima chiamata”, come l’ha definita il manifesto.  Egli ha riconosciuto che le cose non potranno proseguire come sono andate sinora, ciascuno pensando alla propria “parte” anziché al “collettivo”, come si diceva ai tempi del Pci. Di cui stavolta Zingaretti non ha ripetuto il lapsus di adottare il nome al posto di quello assegnato nel 2007 alla formazione nata dalla fusione fra i Democratici di Sinistra, cioè i post-comunisti guidati allora da Piero Fassino, e la Margherita dei post-democristiani, liberali, radicali e ambientalisti di Francesco Rutelli.

            Questa volta, parlando della necessità di una sua “rigenerazione”, Zingaretti ha parlato proprio di Pd. Ed ha riconosciuto che con la caduta di Conte, difeso sino all’ultimo persino con la formula di “Conte o elezioni”, pudicamente omessa nel discorso alla direzione, tutto è diventato “più difficile”. Proprio tutto, anche la riproposizione della “vocazione maggioritaria” adottata dal primo segretario del Pd, Walter Veltroni, e rispolverata da Zingaretti.

            Di quella “vocazione maggioritaria” mancano purtroppo i presupposti numerici, visto che il  circa 20 per cento attuale del Pd è ben lontano dal più del 30 per cento conseguito da Veltroni nelle elezioni del 2008, comunque vinte dal centrodestra di Silvio Berlusconi. Non parliamo poi del 40 per cento superato dal Pd di Matteo Renzi nelle elezioni europee del 2014, più che dimezzatosi con lo stesso Renzi nelle elezioni politiche nazionali del 2018, dopo la scissione compiuta a sinistra da Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e Roberto Speranza, in ordine rigorosamente alfabetico.

            I numeri oggi sono quelli impietosi significativamente scelti dallo stesso segretario del Pd per rappresentare la situazione in cui si trova il partito con la formazione del governo Draghi. Dove esso è sceso dai 23 esponenti del secondo governo Conte, fra ministri, vice ministri e sottosegretari, a nove, in lettere. E ogni giorno lo stesso Zingaretti deve inseguire Matteo Salvini, contestandone dichiarazioni ed atteggiamenti, per contrastarne il tentativo di fare apparire, data anche la crisi del Movimento 5 Stelle, la Lega come il partito pilota della nuova e ben più vasta maggioranza subentrata a quella giallorossa. Il partito di Salvini, d’altronde, pur avendo perduto una decina di punti rispetto al 34 per cento dei voti conseguito nelle elezioni europee del 2019, ai tempi del governo gialloverde con i grillini, è pur sempre nei sondaggi a livello nazionale, e nei risultati delle elezioni amministrative svoltesi negli ultimi tre anni, “il primo partito italiano”, come non a caso si vanta quasi ogni giorno il suo leader. Ed ha conseguentemente 12 posti nel governo contro i 9 del Pd ricordati da Zingaretti.

            La strada del congresso anticipato, sulla quale ormai si è incamminato il Pd, pur se una decisione in questo senso sarà presa solo il mese prossimo dall’Assemblea Nazionale, sarà necessariamente lunga anche per le difficoltà organizzative derivanti dalla pandemia. E i tempi non brevi potranno fare aumentare, non diminuire le tensioni sui rapporti interni, e su quelli con i grillini a loro volta in crisi identitaria, e di nervi.

 

 

 

 

 

 

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Attenti a non correre troppo su quelle scale per il Quirinale

Attenti, amici ed estimatori di Mario Draghi, giustamente soddisfatti -per carità- di averlo visto arrivare a Palazzo Chigi, a disegnarne troppo presto il futuro ancora più prestigioso che meritano la sua preparazione e la sua carriera. Attenti, in particolare, a predirgli il Quirinale già per l’anno prossimo, alla scadenza del mandato di Sergio Mattarella, o per salvare capra e cavoli, come si suole dire, ad auspicare e addirittura prevedere con l’aria di avveduti consiglieri una rielezione dell’attuale presidente a termine sottinteso. Che sarebbe di un anno: giusto il tempo necessario ad affidare nel 2023 alle nuove Camere, alleggerite di 345 seggi, l’elezione del successore, evitando due cose entrambe negative: da una parte un nuovo capo dello Stato in qualche modo delegittimato dal fatto di essere stato eletto da un Parlamento ormai pletorico e troppo vicino alla scadenza e dall’altra un Draghi troppo presto trasferito da Palazzo Chigi al Quirinale, prima di avere potuto portare abbastanza avanti o già al termine il suo prezioso mandato di governo. Di cui fa parte, pur non esplicita, anche la scomposizione e ricomposizione di schieramenti politici superati ormai da una infinità di eventi e circostanze.

Penso, per esempio, alla crisi identitaria e d’altro tipo di un movimento come quello di Beppe Grillo, uscito dalle urne del 2018 addirittura con le dimensioni e la centralità parlamentare di quella che era stata per tanti decenni la Democrazia Cristiana. Ora sembra un ammasso di rovine che il comico in una vignetta del Fatto Quotidiano mette a disposizione di Giuseppe Conte.

Penso all’abbandonato o quanto meno ridimensionato sovranismo della Lega di fronte all’evoluzione finalmente solidaristica del processo d’integrazione europea, imposta dalle dimensioni e dagli effetti della pandemia, e al conseguente rimescolamento di carte nel centrodestra. O alle tensioni vecchie e nuove del Pd, che il segretario Nicola Zingaretti  con un lapus suicida ha appena scambiato per il Pci.  Il “suo” Goffredo Bettini nega di avergli mai consigliato un’alleanza “strategica” con i grillini e censura l’”intergruppo” con le 5 Stelle annunciato al Senato. Penso, ancora, alla polverizzazione di quell’area metastasiana di centro che, come l’Araba Fenica, dove sia nessun lo sa.

Di fronte ad uno scenario così complesso e al tempo stesso incerto, pur apparendo e persino essendo la tentazione più facile in cui cadere, un’apertura intempestiva delle danze per il Quirinale, con tanto di date, scadenze e candidati messi ai loro posti potrebbe rivelarsi dannosa per gli stessi interessati. C’è una regola alla quale nessuno è riuscito a sottrarre le corse intempestive al Colle più alto di Roma. Ed è la regola -quasi un ossimoro- della loro imprevedibilità, a forzare la quale si porta addirittura male ai concorrenti. E ci rimette anche chi con troppa presunzione pensa di poterli muovere col filo dei propri ragionamenti da postazioni politiche o soltanto mediatiche. Non faccio nomi perché non è questione di nomi, appunto, ma di metodo.

Di tutte le edizioni della corsa al Quirinale che mi è capitato professionalmente di raccontare, la più scontata o facile da pronosticare  nell’epilogo fu sicuramente quella per la successione a Giovanni Leone. Che, eletto alla vigilia di Natale del 1971, anche lui in modo imprevisto dopo una gara allo spasimo fra i due “cavalli di razza” della Dc, che erano Amintore Fanfani e Aldo Moro, avrebbe dovuto lasciare il Quirinale alla fine del 1978.

Moro, fallito l’obiettivo nel 1971, appariva ormai senza rivali nella corsa successiva. Egli era diventato il punto di riferimento indiscusso della Dc, cui era scontato ancor più di sette anni prima l’appoggio dei comunisti. Ai quali lui aveva già strappato all’insegna della “solidarietà nazionale” prima l’astensione e poi la fiducia ai governi monocolori democristiani di Giulio Andreotti.

Lo stesso Moro era talmente sicuro di essere ormai in vista del Quirinale che nell’ultimo discorso ai gruppi parlamentari congiunti del suo partito, il 28 febbraio 1978, convinse i refrattari all’intesa col Pci sottolineandone -a dispetto di quel che gli avrebbe fatto dire Eugenio Scalfari in una intervista postuma- la transitorietà, in attesa proprio del passaggio istituzionale della fine di quell’anno.

Ebbene, l’elezione di Moro al Quirinale era così inusualmente scontata che il caso -o solo il caso?, verrebbe da chiedersi per i tanti punti ancora oscuri del suo tragico sequestro, tra il sangue della scorta sgominata il 16 marzo a poche centinaia di metri da casa- volle che il presidente della Dc facesse la fine orribile che sappiamo. E neppure Leone, che aveva cercato disperatamente di aiutarlo davvero nei 55 giorni della prigionia nelle mani delle brigate rosse, riuscì a portare a termine regolarmente il suo mandato, punito forse proprio per quel tentativo di salvare l’amico e collega di partito predisponendo la grazia per una detenuta compresa nell’elenco dei 13 “prigionieri” indicati dai terroristi per scambiarli con l’ostaggio.

 

 

 

 

 

 

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