Dietro il cordone sanitario reclamato contro la Lega di Matteo Salvini

           Beati i giovani, pur col futuro più incerto di quello cui abbiamo potuto pensare alla loro età noi anziani che ci ostiniamo ancora a vivere e a resistere al Covid, tenendoci ben stretti i nostri presunti privilegi sfuggiti a forbici, apriscatole e altri attrezzi, magari anche da scasso . Essi, avendo potuto risparmiarsi le cronache da noi raccontate e vissute della cosiddetta prima Repubblica, quando -per esempio- dovevamo misurarci con i sospiri, le pause, gli aggettivi, gli avverbi di Enrico Berlinguer per valutarne gli strappi veri o presunti da Mosca rimproveratigli da Armando Cossutta, e su cui fior di leader politici scommettevano per disegnare nuovi equilibri e scenari, non possono ora confrontarli con i loro eredi, presunti o reali che siano. E con tutte le diffidenze, le smorfie, i nasi turati, gli allarmi opposti al Matteo Salvini messosi ora a disposizione, o quasi, di Mario Draghi.

            Ma come si permette?, hanno l’aria di chiedere i più accaniti avversari del leader leghista, magari con l’aria di proteggere il presidente del Consiglio incaricato dall’insidia di un falso abbraccio o di una falsa conversione o semplice correzione di rotta. E parlo di gente che a sentire il nome di Draghi convocato al Quirinale da Mattarella per ottenere l’incarico di formare il nuovo governo per poco non sono svenuti dalla delusione e dalla paura, annunciando riserve o contrarietà poi sbollite per opportunismo o senso di realtà, e magari anche per qualche discreto richiamo dal Colle. Dove pure avevano avuto l’accortezza di spiegare ben bene davanti alle telecamere, come in un messaggio diretto del capo dello Stato agli italiani, le emergenze di vario tipo e genere che non permettono più vecchi giochi e giochetti, e impongono un governo di “alto profilo” e fuori dalle formule politiche, dagli schemi e quant’altro di questa legislatura a dir poco avventurosa. A meno della cui metà si sono già alternate due maggioranze di segno opposto: una gialloverde e l’altra giallorossa, entrambe curiosamente e disinvoltamente guidate dalla stessa persona.

            Eppure è almeno dalla scorsa estate che dalla Lega provenivano segnali d’europeismo che potevano ben essere considerati tuoni rispetto a quelli levatisi negli anni Settanta del secolo scorso dal Pci per fare versare i classici litri di inchiostro e chilometri di analisi stampate per descrivere o prevedere botteghe -dalla strada romana della sede del partito berlingueriano- non più oscure ma chiarissime, limpide come acqua sorgente. E non datemi, per favore, del blasfemo per avere appaiato la Lega al Pci, perché non appartiene ad un modestissimo e anziano cronista come me ma addirittura a Massimo D’Alema, quello degli anni d’oro, in cui si era messo in testa, alla fine riuscendovi, di essere il primo e unico comunista o post-comunista a poter arrivare a Palazzo Chigi, la classificazione della Lega come “costola della sinistra”.

            Si, so bene che era la Lega di Umberto Bossi, da alcuni considerata ben diversa da quella di Salvini. Sì, diversa anche nel senso che quella reclamava sulle calli di Venezia e lungo il Po la secessione e annunciava la formazione di governi “provvisori” della Repubblica indipendente della Padania. E il suo leader intimava alla povera signora veneziana che esponeva il tricolore italiano alla finestra di casa di andarlo subito a “gettare nel cesso”. Questi spettacoli, almeno, il sovranista, il “truce” Salvini dei racconti di Giuliano Ferrara e il “Cazzaro verde” delle invettive di Marco Travaglio le ha risparmiate a noi poveri e sgomenti spettatori. O no?

 

 

 

 

 

 

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“Bugiardo”, “e tu farabutto”: le cortesie…. fra de Magistris e Mastella

Finita, bene o male,  ma forse più male che bene per lui, l’avventura di “medico” -quale si definì ironicamente- della crisi del secondo governo di Giuseppe Conte, cui cercò con l’aiuto della moglie e senatrice Alessandrina Lonardo di assicurare i voti necessari a sopravvivere alla rottura con Matteo Renzi, il sindaco di Benevento Clemente Mastella è tornato protagonista: questa volta in uno scontro televisivo al fulmicotone col collega di Napoli Luigi de Magistris.

Entrambi, collegati dall’esterno con lo studio di Massimo Giletti, su la 7, sono rimasti inchiodati con reciproci insulti alla loro esperienza non di amministratori delle due città campane ma, rispettivamente, di magistrato e di ministro della Giustizia. “Bugiardo”, ha gridato de Magistris a Mastella, che di rimando gli ha dato del “farabutto” ricordandogli che gli deve risarcire, per una causa perduta, danni che però debbono essere ancora quantificati da una Corte d’Appello. E’ la solita giustizia a singhiozzo.

I non addetti ai lavori debbono essere rimasti interdetti di fronte a tanta animosità immaginandoli ancora ai loro posti originari -ripeto, di magistrato e di guardasigilli- e deducendo la tossicità, a dir poco, dell’amministrazione della giustizia in Italia. Di cui peraltro gli spettatori nella stessa trasmissione avevano appena imparato a conoscere particolari non esaltanti ascoltando l’ospite Luca Palamara. Che è stato per anni un magistrato, diciamo così, potente guidando il sindacato delle toghe e partecipando ad un sistema perverso di nomine e persino di regìa dei processi a mezzadria con la politica. Ora che ne è rimasto vittima, radiato dalla magistratura in pendenza delle inchieste che lo hanno investito, condotte con l’arma letale delle intercettazioni a mezzo trojan, che trasformano il cellulare dell’indagato in una fornace, egli si è proposto di raccontare al pubblico ciò che i suoi ex colleghi -dice lui- da inquirenti non hanno voluto ascoltare per farne il capro espiatorio della lunga tresca tra giustizia e politica.

La colpa che de Magistris non perdona a Mastella è di avere manovrato al Ministero della Giustizia per disturbarne e fargli infine perdere un’indagine che riguardava anche l’allora presidente del Consiglio Romano Prodi. Di cui pertanto Mastella volle difendere la posizione, al pari dell’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano in veste di presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Ma della sorte politica di Prodi il guardasigilli nel gennaio del 2008 non si preoccupò minimamente dimettendosi da ministro della Giustizia perché la Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere ne aveva fatto arrestare la moglie per un’indagine, praticamente, sul partito di famiglia.

Mastella, in verità, nega ancora che la crisi di governo, sopraggiunta di pochi giorni e conclusasi con lo scioglimento anticipato delle Camere, fosse stata causata dalle sue dimissioni da guardasigilli per solidarietà con la moglie e protesta contro il magistrato che se ne occupava. Il governo, sostiene Mastella, era già debole di suo per la eccessiva eterogeneità della maggioranza. Che andava in effetti dallo stesso Mastella ai nostalgici del comunismo tradito, secondo loro, dagli eredi del Pci pur di non rimanere travolti dalle macerie del muro di Berlino.

Se è per questo, debbo cordialmente ricordare a Mastella che quel governo Prodi -il secondo ed ultimo del professore emiliano- aveva cominciato a stargli stretto, anzi strettissimo, già da mesi: esattamente da quando i post-comunisti della formazione guidata da Piero Fassino e i post-democristiani ed altro ancora della formazione guidata da Francesco Rutelli col nome della margherita  si fusero nel Pd. Il cui primo segretario Walter Veltroni esordì rivendicando  orgogliosamente una vocazione “maggioritaria” che obiettivamente non prometteva nulla di buono, a dir poco, ai piccoli partiti come quello di Mastella.

Circolò in quei tempi, fra cronisti e retroscenisti, una storiella mai smentita dall’allora guardasigilli, che sembrò anzi vantarsene perché era in fondo la rappresentazione plastica della sua franchezza, astuzia e agilità politica.  Grazie alle quali egli aveva potuto sopravvivere alla cosiddetta prima Repubblica, dove era cresciuto all’ombra del potentissimo Ciriaco De Mita, e districarsi nella seconda come una volpe tra centrodestra e centrosinistra, tra gli alternativi Berlusconi e Prodi.

Mastella aveva reagito al proposito di Veltroni di liberarsi degli alleati minori irrompendo nell’ufficio di Prodi, a Palazzo Chigi, e dicendogli pressappoco così: “Dì a Veltroni che se ci vuole fottere, noi vi possiamo fottere prima”. Più esplicito non poteva certamente essere. E più opportuno, anche se sgradevole per gli effetti sulla moglie, non poteva rivelarsi dopo qualche mese l’iniziativa della Procura di Santa Maria Capua Vetere. Che, pur riproponendo il conflitto tra giustizia e politica, consentì a Mastella di accelerare quanto meno la caduta del governo.

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