Biden e Draghi a guinzaglio rovesciato sullo sfondo della guerra in Ucraina….

Le ultime dalla e sull’Ucrania, in un intreccio di notizie fra le due sponde dell’Atlantico, fra ciò che Joe Biden decide alla Casa Bianca e Mario Draghi dice al Consiglio Europeo al solito diviso sulle sanzioni a Putin ma anche su altro, sono a dir poco sconvolgenti per le idee coltivate dalle parti, per esempio, dei grillini di tendenza Conte. Ed espresse sul famoso graffito condiviso e rilanciato dal tesoriere delle 5 Stelle fra le proteste del ministro degli Esteri, pentastellato pure lui,  Luigi Di Maio. In esso Draghi è un cane atlantista al guinzaglio di Biden. 

Titolo di Avvenire

Il presidente americano invece ha appena deciso di negare all’Ucraina i razzi a media gittata reclamati per una controffensiva ai russi invasori – “Un taglio ai missili”, ha titolato trionfante il giornale dei vescovi italiani Avvenire– mentre Draghi al Consiglio Europeo ha ribadito che Putin “non deve vincere”. E quindi dovrebbe perdere, come il presidente ucraino Zelensky vorrebbe se aiutato adeguatamente dagli occidentali, nonostante qualcuno in Italia, per esempio Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano, lo ritenga ormai “libero dal ricatto nazista del battaglione Azov”, arresosi ai russi, e pronto a ragionevoli compromessi. Il principale dei quali potrebbe essere un referendum nei territori occupati dalle truppe di Putin per lasciare decidere alle popolazioni, cioè a ciò che n’è rimasto dopo i massacri e le fughe, con chi stare. E’, guarda caso, un’idea circolante fra i grillini. 

Di sicuro in quel graffito di cui dicevo prima resta il guinzaglio, ma le parti sono rovesciate. Il cane è diventato Biden e il padrone è diventato Draghi: ben più del prossimo segretario generale della Nato che i suoi critici hanno immaginato nelle scorse settimane per spiegare la posizione assunta contro Putin. E appena ribadita dopo l’ultima telefonata nella quale il presidente del Consiglio italiano ha trovato il suo interlocutore per niente interessato alla pace, e forse neppure meritevole dopo tutto quello che ha combinato in Ucraina in quasi cento giorni di “operazione speciale”. 

Altro quindi che “Putin non deve vincere”, come Draghi ha appena detto al Consiglio Europeo. Putin non deve perdere. E per non fargli perdere la guerra non occorre più che vada a Mosca quel furbacchione di Matteo Salvini, affrettatosi infatti a rinunciare al viaggio preannunciato. Basta aspettare che Zelensky tragga da solo le conseguenze dal rifiuto di Biden di aiutarlo davvero. 

Giuliano Ferrara sul Foglio

Putin non può perdere come curiosamente Giuliano Ferrara ha scritto del loro comune amico Berlusconi in Italia. Al quale ha dedicato un divertente panegirico sul Foglio di natura sportiva,  avendo il Cavaliere festeggiato a Milano lo scudetto della sua ex squadra, che gli è rimasta nel cuore anche dopo averla venduta, e a Pisa la promozione del Monza alla serie A, da lui acquistato e rilanciato col fedelissimo Adriano Galliani. 

Già Ferrara ha sognato alla fine del prossimo campionato uno scudetto conteso dal Milan e dal Monza, con Berlusconi destinato ad uscirne comunque vincitore, peraltro all’incirca quando si potrà votare per il rinnovo delle Camere, se Conte non riuscirà a impiccarsi da solo al voto anticipato. 

Titolo del Quotidiano Nazionale

Forza Italia, la Lega e il centrodestra nel suo complesso non sono messi molto bene, a parte  i successi non a caso indigesti di Giorgia Meloni nei sondaggi. Ma Giuliano Ferrara, per quanto mosso anche lui ogni tanto dal dissenso verso l’ex presidente del Consiglio, di cui fu nel 1994 ministro per i rapporti col Parlamento, evidentemente lo considera ancora un uomo indissolubilmente legato alla Vittoria, con la maiuscola, alla faccia dei magistrati che lo vogliono in galera, alla sua età, e di quei due cani che sarebbero in fondo Biden e Draghi sulle due sponde dell’Atlantico. Non ditelo, per favore, a Travaglio perché qui si rischia davvero il suicidio, dopo il Conticidio dell’anno scorso.

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L’eterno annuncio che nulla tornerà come prima, neppure dopo la guerra in Ucraina

Angelo Panebianco sul Corriere della Sera

Quando ho letto sul Corriere della Sera il solito e pregevole Angelo Panebianco ammonire i pacifisti che, comunque vada a finire, anche nel modo in cui loro sognano la pace alla quale Putin continua a preferire la guerra, nulla poi tornerà come prima né in Ucraina né altrove, gli occhi sono tornati sulle immagini dell’ultimo orrore scoperto nella Mariupol conquistata dai russi, con tutti quei cadaveri abbandonati come merce avariata in un supermercato. E mi sono chiesto quante volte la mia generazione -non vado oltre- si è sentita dire che nulla sarebbe tornato come prima. Troppe volte, temo, sia per tirare un sospiro di sollievo, pensando che ormai di peggio non avremmo più potuto vedere e vivere, sia e a maggior motivo, nella logica del pessimismo della ragione, per prepararsi alla immancabile, successiva tragedia. 

Anche sull’eventuale fine dell’esperienza di Putin al Cremlino auspicata dal presidente americano Joe Biden all’inizio della guerra in Ucraina, quando ne parlò in Polonia anche come di un “macellaio” sapendo ancora e solo -se non ricordo male- di Bucha, e non di Mariupol e di chissà quali altri obbrobri siamo condannati a scoprire, non mi sono mai fatto grandi illusioni. Chi  potrà scommettere su una buona successione a Mosca, come un pò tutti scommettemmo prima su Gorbaciov, poi su Eltsin e infine proprio su Putin ? Ricordo ancora lo stupore, anzi l’ira dell’allora presidente del Consiglio Ciriaco De Mita, di cui sono stati appena celebrati i funerali nella sua Nusco, quando l’ambasciatore italiano Sergio Romano cercò di spiegargli proprio a Mosca che riformare, modernizzare, lucidare il sovietismo per renderlo trasparente non sarebbe stato possibile. Tornato a Roma, Ciriaco non ebbe pace sino a quando non riuscì a rimuovere quell’ambasciatore, moltiplicandone le fortune economiche e pubblicistiche come pensionato, storico, editorialista e ad un certo punto, in una delle tante crisi di governo succedutesi nella seconda Repubblica, come possibile ministro degli Esteri. 

Sempre dalla prima pagina del Corriere della Sera

Uomini e regimi passano ma le pene restano. A volte occorrono centinaia d’anni per lo sviluppo e la conclusione di una crisi. Ce lo ha appena ricordato Silvio Berlusconi in una lettera al Corriere della Sera di indignata reazione ad un articolo di Roberto Gressi sul tramonto di una Forza Italia paragonabile, secondo lui, all’impero romano declinante sotto Domiziano. 

Berlusconi e Galliani

Per non farsi guastare la festa della promozione della squadra di calcio di Monza in serie A sotto la gestione sua e del senatore Adriano Galliani, Berlusconi ha preferito contare i 163 anni trascorsi fra la morte di Diocleziano e la deposizione di Romolo Augusto, cioè fra il 313 e il 476 dopo Cristo, mettendo così in cassaforte, diciamo così, il suo partito, destinato addirittura a sopravvivergli. 

Silvio Berlusconi in veste di storico
Titolo interno del Corriere della Sera alla lettera di Berlusconi

“In Forza Italia la linea è chiara, così come le mie indicazioni”, è il titolo apposto dal Corriere alla lettera di Berlusconi col dovuto richiamo in prima pagina; una lettera dalla quale Roberto Gressi si è difeso con poche righe molto cortesi per assicurare di avere scritto non raccogliendo pettegolezzi e altre immondizie ma semplicemente e doverosamente notizie. Fra le quali penso che possano ben essere annoverate, a meno di non declassare a pettegolezzi anche quelle, le prese di posizione pubbliche e preoccupate della ministra ed ex capogruppo di Forza Italia alla Camera Mariastella Gelmini. E ciò per non parlare dei sostanziali necrologi del partito di Berlusconi stesi ogni tanto con interviste dal già ministro e cofondatore Giuliano Urbani e dall’ex presidente del Senato Marcello Pera. 

Nè credo che abbia giovato molto a Berlusconi la difesa che ne ha fatto dalle critiche e preoccupazioni della ministra Gelmini il leader legista Matteo Salvini mentre preparava il suo viaggio di pace a Mosca, da Putin, prima di rinunciarvi o di rinviarlo ad altra occasione fra il sollievo di Mario Draghi.

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Esploso nello spazio del ridicolo il missile del viaggio di Salvini a Mosca

Matteo Salvini

Il viaggio programmato da Matteo Salvini a Mosca passando prima per la Turchia e poi dal Cremlino partire magari per Kiev con chissà quale messaggio da recapitare personalmente al presidente ucraino Zelensky è stato un pò un missile lanciato nello spazio del ridicolo, diversamente da quelli supersonici che Putin sta sperimentando per rifarsi della figuraccia rimediata con l’”operazione speciale” in Ucraina. Che doveva esaurirsi in 48 ore, o in meno di una settimana, con l’assassinio o la fuga di quello che aveva scambiato per il Beppe Grillo dell’Ucraina e lo sta invece impegnando in una guerra che dura da più di tre mesi. per quanto lui si ostini a non chiamarla così.  

Superato da personalità come il presidente francese Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco Olaf Sholz, che hanno strappato per telefono a Putin qualcosa che bene o male ha aperto uno spiraglio concreto nella partita ucraina, Salvini si è rapidamente ritrovato solo con le sue velleità. Che hanno messo in imbarazzo per primi i suoi amici di partito. 

Forse pensava sarcasticamente proprio a Salvini il direttore del Giornale della famiglia Berlusconi quando ha chiuso il suo editoriale di oggi scrivendo che “le leadership si sono sempre forgiate nelle crisi”. Per Salvini, pur promosso di recente dallo stesso Berlusconi a “vero e unico leader di cui disponga l’Italia”, il ragionamento del mio amico Augusto Minzolini vale evidentemente alla rovescia, nel senso che in questa maledetta crisi internazionale Salvini è riuscito a realizzare un fiasco rispetto al quale impallidisce quello tutto interno dell’estate del 2019. Allora da vice presidente del Consiglio egli investì come peggio non poteva l’insperato successo conseguito elle elezioni europee.

Diavolo di un uomo, il capo della Lega e -sulla carta- anche del centrodestra per il sorpasso effettuato nelle elezioni politiche del 2018 su Berlusconi, provocò la crisi del primo governo di Giuseppe Conte, a maggioranza gialloverde, fidandosi dell’allora segretario del Pd Nicola Zingaretti. Che si era impegnato a non rinunciare all’opposizione prima di altre elezioni, puntualmente mancate. 

La vignetta sulla prima pagina del Corriere della Sera

Fra tutte le critiche ricevute-  compresa la vignetta nella quale sulla prima pagina del Corriere della Sera Emilio Giannelli fa praticamente dare da Mario Draghi a Salvini il buon viaggio a Mosca nella speranza di non vederlo tornare con quel “dipende da quanto ci resti”- quella che deve essere costata di più all’intraprendente leader leghista  appartiene a Giorgia Meloni, la sua concorrente a Palazzo Chigi sul fronte pur malmesso del centrodestra. 

Per quanto formalmente all’opposizione, ma in realtà ormai nella maggioranza sul terreno della politica estera, la Meloni ha ricordato a Salvini che “non si fa propaganda con la guerra” e tanto meno  “si rompe il fronte occidentale” dopo avere accordato la fiducia e avere fatto entrare il suo partito in un governo “atlantista” come quello orgogliosamente dichiarato da Draghi nella presentazione alle Camere.

Forse non ha torto Ignazio La Russa, come ha praticamente detto in una intervista a Repubblica, che ormai Berlusconi e Salvini non riusciranno ad evitare il sorpasso elettorale della Meloni neppure se leghisti e forzisti si federassero in una lista unica, perdendo pezzi entrambi, specie i secondi.  

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Le guerre parallele, grazie a Matteo Salvini, in Ucraina e in Italia

Titolo del Corriere della Sera

“Gelo del governo”, ha titolato il Corriere della Sera riportando l’annuncio di Matteo Salvini di un viaggio a Mosca, passando forse per la Turchia, col proposito di incontrare Putin, ma col rischio di doversi accontentare del suo portavoce, A neo che il capo del Cremlino non decida di cogliere l’occasione per portare in Italia, sia pure al solo livello politico, la guerra che ha sinora condotto solo contro l’Ucraina. Ormai, con le divisioni sempre più evidenti nella maggioranza di governo, le due guerre parallele sono qualcosa di concreto, non tanto di immaginario o metaforico. 

Titolo di Repubblica

“Salvini sfida Draghi”, ha titolato non a torto Repubblica, perché l’iniziativa del leader leghista nasce evidentemente dal sospetto di quest’ultimo che il presidente del Consiglio non abbia fatto tutto quello che poteva o doveva per smuovere Putin dalla sue posizioni nella telefonata di qualche giorno fa, dallo stesso Salvini peraltro richiesta nella settimana scorsa nella discussione al Senato sull’informativa del governo.

Alla telefonata a Putin, preceduta con molta probabilità da consultazioni con gli alleati europei e d’oltre Atlantico, il presidente del Consiglio ne ha fatta seguire un’altra al presidente ucraino, sempre nel tentativo di avvicinare le parti e di ravvivare l’azione diplomatica italiana dopo il sostanziale flop del piano per la pace, embrionale o non che sia stato, che il ministro degli Esteri italiano Luigi Di Maio ha consegnato anche al segretario generale delle Nazioni Unite. Ma che ha lasciato contrariati o indifferenti sia i russi che gli ucraini, per quanto i primi lo abbiano trovato troppo favorevole ai secondi. 

Matteo Salvini
Conte e Salvini

E’ proprio in considerazione del tentativo di Draghi di rilanciare l’azione diplomatica del governo italiano che il viaggio annunciato da Salvini costituisce un’anomalia, a dir poco, se non si vuole condividere la “sfida” vista da Repubblica. Che, se fosse tale peraltro, sarebbe doppia, perché Salvini si è praticamente messo in concorrenza anche con il suo ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte, pure lui insoddisfatto dell’azione del governo e del “suo” collega di partito titolare della Farnesina. 

Mattarella ai funerali di De Mita

Siamo, come si vede, in un intreccio di relazioni e di manovre da procurare le vertigini politiche, e non solo. Immagino lo sgomento non solo del presidente del Consiglio ma anche o ancor più del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Che avrà  forse colto l’occasione della partecipazione ai funerali del compianto amico Ciriaco De Mita a Nusco per pregare anche per il governo costretto a muoversi non fra soci di maggioranza, per quanto provvisoria, ma tra sostanziali sabotatori. 

Papa Francesco

Ha da temere dal viaggio di Putin a Mosca persino il Papa, visto il proposito attribuito a torto o a ragione al leder leghista, dopo un incontro non confermato col cardinale Parolin, di perorare in Russia anche un incontro di Putin col Pontefice, da tempo voglioso di recarvisi anche lui, ma scoraggiato, trattenuto e quant’altro dal disinteresse o indisponibilità del fedelissimo del Patriarca moscovita, che ha benedetto la sua guerra e lui personalmente dal primo momento dell’invasione della sfortunatamente confinante Ucraina. 

Il ministro Giancarlo Giorgetti

Certo, Salvini usa andare in giro, anche per i comizi, con rosari, medagliette della Madonna e altri oggetti religiosi in tasca, che non sono tuttavia sufficienti ad accreditarlo come un ambasciatore laico del Vaticano. Immagino pure lo sgomento del Papa, oltre a quello di Draghi e di Mattarella, ma forse anche, e più semplicemente, del ministro leghista Giancarlo Giorgetti, ancora capo della delegazione del Carroccio al governo.

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Enrico Berlinguer con Moro e Craxi nel trittico drammatico della Repubblica italiana

Titolo del Dubbio

Continuo a considerare Enrico Berlinguer -soprattutto per l’emozione con la quale se n’è tornato a scrivere e a parlare nel centenario della nascita, con tutte le luci accese  sulle sue qualità e spente sui suoi difetti o errori- un protagonista sfortunato e tragico, o tragicamente sfortunato, come preferite, della storia dell’Italia repubblicana. E lo è stato -lo preciso subito per chiarire quanto poco malanimo ci sia nella mia valutazione- in compagnia di altri due leader che ho personalmente conosciuto, frequentato e apprezzato di più, di cultura e orientamento politico opposti o diversi da lui: Aldo Moro e Bettino Craxi. Del quale ultimo divenni anche amico e qualche volta persino confidente. 

Enrico Berlinguer alla tribuna politica in cui parlò dell'”esaurimento della spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre” comunista

Con Berlinguer invece il massimo che ci siamo scambiati è stato un saluto in qualche tribuna politica televisiva, compresa quella nella quale mi diede il privilegio professionale di usare una mia domanda per uno dei suoi strappi politici: l’ultimo e davvero conclusivo, dopo quelli sulla Nato, da cui si sentiva protetto, e sulla libertà indivisibile. Mi riferisco alla volta in cui commentò il regime militare praticamente imposto dai sovietici alla Polonia parlando di “esaurimento ormai della spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre” comunista.

Berlinguer, Moro e Craxi costituiscono il trittico drammatico della Repubblica italiana, ciascuno morto a suo modo della propria passione politica e della centralità assunta nel sistema del loro comune Paese. 

Berlinguer rimase vittima dell’esasperazione alla quale, volente o nolente, aveva portato la lotta fra le due componenti storiche della sinistra italiana: la socialista, più anziana, e la comunista, più organizzata e disciplinata. 

Il cadavere di Moro nel bagagliao dell’auto in cui i brigatisti rossi lo avevano ucciso

Moro rimase vittima di quel merletto unitario che  aveva saputo realizzare nel 1976  con la cosiddetta maggioranza di solidarietà nazionale, estesa dalla Dc al Pci, per il cui salvataggio, poi neppure riuscito, entrambi i partiti lo condannarono sostanzialmente a morte con la cosiddetta linea della fermezza, peraltro mal gestita, una volta che lui fu sequestrato dalle brigate rosse fra il sangue della scorta trucidata il 16 marzo 1978 a poca distanza da casa sua. 

I funerali di Craxi nella cattedrale di Tunisi

Craxi morì assassinato a suo modo, nel suo rifugio tunisino, da quel trattamento giudiziario e mediatico riservatogli in Italia con “una durezza senza uguali”, riconosciuta dopo dieci anni dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, per l’errore sicuramente compiuto -per carità, ma non certo da solo- accettando di ereditare e praticare una pratica illegale di finanziamento dei partiti.  Che fu il frutto della ipocrisia con la quale la politica è purtroppo abituata ad affrontare e risolvere i problemi del suo sostentamento. 

La tomba di Craxi ad Hammamet

Craxi, di solito così diffidente, si fidò una volta tanto dei suoi avversari scommettendo praticamente sull’omertà che aveva unito i partiti in quella pratica: lui, solo o più di tutti, che alla guida del governo, dopo Alcide De Gasperi, senza essere stato peraltro mai ministro, aveva saputo starci meglio di ogni altro. Ah, che rabbia e ingiustizia al tempo stesso. 

Sulle circostanze drammatiche della fine di Berlinguer, dopo un comizio a Padova nel 1984 in cui si era riproposto il conflitto tra una sinistra modernizzatrice rappresentata da Craxi a Palazzo Chigi e una sinistra autoreferenziale sino al conservatorismo rappresentata dal Pci, schierato persino contro un modesto sacrificio antinflazionistico nella scala mobile dei salari, non voglio proporvi nulla del mio modestissimo pensiero. 

Voglio riproporvi solo ciò che scrisse nel 2003 l’insospettabile Piero Fassino, l’ultimo segretario dei democratici di sinistra post-comunisti, nella sua autobiografia  –Per passione, pure luipubblicata da Rizzoli: “Mi è capitato spesso di pensare a Berlinguer come a un campione di scacchi che sta giocando la partita più importante della sua vita. La partita dura ormai da molte ore. Sta giungendo alle battute finali e guardando la scacchiera il campione si accorge che con la prossima mossa l’avversario gli darà scacco matto. Ha un solo modo per evitarlo: morire un minuto prima che l’altro muova. In fondo, la tragica fine risparmia a Berlinguer l’impatto con la crisi della sua strategia politica”. Più onestamente e sofferentemente Fassino non poteva scrivere e riconoscere. 

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 5 giugno

Draghi ha accontentato Salvini telefonando a Putin, ma a vuoto

Salvini al Senato

Non foss’altro per consolarsi di fronte ai sei punti che ormai lo separano nei sondaggi elettorali da Giorgia Meloni, la concorrente alla leadership del centrodestra e a un pur improbabile Palazzo Chigi al prossimo giro, a dispetto di tutte le difficoltà della coalizione improvvisata da Silvio Berlusconi nel lontano 1994, Matteo Salvini potrebbe a prima vista vantarsi della telefonata appena fatta da Mario Draghi a Putin per la guerra in Ucraina. Fu proprio il capo della Lega la settimana scorsa, nella discussione seguita all’”informativa” del presidente del Consiglio, a suggerire, chiedere, reclamare, come preferite, una chiamata al Cremlino. E a lasciar credere di avere buoni motivi per credere che Putin non aspettasse altro per aprire spiragli finalmente di pace.

Draghi ha impiegato un pò di giorni per chiamare Putin, essendosi prevedibilmente, anzi auspicabilmente consultato con alleati e amici, visto che l’Italia partecipa ancora alla Nato e all’Unione Europea. Qualcuna delle proposte di Salvini, per esempio quella dello sblocco delle esportazioni di grano ucraino, Draghi l’ha accolta. Della rinuncia di Mosca ad ospitare l’Expo del 2030 Draghi non ha fatto in tempo ad avvalersi perché Putin ci aveva rinunciato da solo, ma non certo -come suggerito appunto da Salvini- per sostenere la candidatura dell’ancora ucraina Odessa, peraltro concorrente anche di Roma. 

Il guaio però per Salvini è che le sue presunte o reali informazioni su umori e disponibilità del Cremlino si sono rivelate una sòla, come dicono a Roma, per cui vantarsi della telefonata di Draghi potrebbe diventare addirittura un’autorete nei rapporti per lui così importanti con la Meloni per i fatti di casa nostra. Putin è disposto a sbloccare il grano dell’Ucraina, che intanto sembra essere stato per un bel pò rubato dai russi, a condizione che cessino le sanzioni adottate contro Mosca non singolarmente dall’Italia ma dall’Unione Europea e da altri ancora. La conclusione tratta da Draghi è analoga a quella della precedente telefonata: il capo del Cremlino non ha ancora voglia di pace, se mai ne avrà. Continua ad avere voglia solo di guerra e di acquisizione di terre altrui. 

Non parliamo poi della fine fatta anche al Cremlino del famoso piano di pace predisposto dall’Italia, pur allo stato “embrionale”, come ha precisato il ministro degli Esteri Luigi Di Maio dopo i primi segnali negativi giunti dalla Russia. L’omologo di Di Maio a Mosca è intervenuto, non certo a sorpresa di Putin, per liquidare il piano italiano come inconsistente: cosa che in Italia avrà forse fatto piacere anche a Giuseppe Conte, che per ragioni interne al MoVimento 5 Stelle di cui è presidente, tiene a Di Maio come Matteo Salvini alla Meloni, e viceversa, nel centrodestra. 

In questa situazione appare quanto meno avventurosa la costanza del segretario del Pd Enrico Letta nel perseguire l’alleanza con Conte, concordando con lui primarie in Sicilia per affrontare con candidati comuni le elezioni regionali dell’autunno prossimo: una specie di antipasto delle elezioni politiche dell’anno prossimo. Vedremo che, fra i due, ci rimetterà di più. 

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Con Ciriaco De Mita quanti ragionamenti, quanta confidenza e quante liti…..

Titolo del Dubbio

Ecco, questo in ricordo del mio amico Ciriaco De Mita, morto ieri mattina in una clinica di Avellino a 94 anni compiuti a febbraio, è un articolo che mi sarei volentieri risparmiato per la complessità dei rapporti che abbiamo avuto per una sessantina d’anni:  forti tanto di simpatia personale, nata sui divani e nei corridoi galeotti della Camera, quanto di ostilità politica. Ci siamo sempre trovati divisi nel giudizio sugli altri, a cominciare da quelli del suo partito, la Dc.  

De Mita con Moro
De Mita con Forlani e Andreotti

Mi piacque subito, da giovanissimo cronista parlamentare, quel suo modo molto arabesco di ragionare, sino a imporre qualche volta una certa fatica a seguirlo, e quel temperamento deciso, sino al gusto della sfida: un pò come Amintore Fanfani. Avrei per questo voluto dire e scrivere anche di lui, come feci sul Momento sera a proposito di Arnaldo Forlani, conquistandomene subito la curiosità diventata poi anch’essa amicizia, che De Mita poteva considerarsi moroteo col cervello e fanfaniano col cuore. Ma Ciriaco, diversamente da Forlani, di cui a quell’epoca era vice segretario, era molto severo parlando di Moro. Gli rimproverava di essere stato troppo debole con gli alleati socialisti alla guida dei primi governi “organici” di centrosinistra, per cui fu ben felice dopo le elezioni politiche del 1968 di contribuire  da sinistra, di cui era uno dei leader con la sua  corrente chiamata “Base”, ad allontanarlo da Palazzo Chigi. E tre anni dopo, alla fine del 1971, quando Moro ebbe l’occasione di poter essere candidato al Quirinale dopo il fallimento di una lunga corsa di Fanfani, pur partito dalla postazione privilegiata di presidente del Senato, egli partecipò alle operazioni dietro le quinte per l’elezione invece di Giovanni Leone.

De Mita con Reagan
De Mita con Gorbaciov

Il fatto è che Ciriaco, seduto su un divano di Montecitorio, già prima che si cominciasse a votare su Fanfani mi aveva preconizzato quasi provocatoriamente, conoscendo bene le simpatie che avevo per Moro, l’elezione appunto di Leone, allora fuori dalle previsioni, pur essendo stato candidato alla Presidenza della Repubblica già nel 1964. Allora Moro da Palazzo Chigi lo aveva convinto a rinunciare a vantaggio del socialdemocratico Giuseppe Saragat. Che agli occhi di Moro, allora presidente del Consiglio, aveva il vantaggio di stabilizzare l’alleanza di centrosinistra mentre cominciava a maturare l’unificazione socialista, temuta da molti democristiani perché avrebbe potuto aumentare il potere contrattuale dei socialisti. 

De Mita con la moglie

In cambio Moro aveva procurato a Leone la nomina a senatore a vita da parte del novo presidente della Repubblica, succeduto al’impedito Antonio Segni, colto da ictus nell’estate di quello stesso 1964: un’estate torrida anche sul piano politico, col rischio a torto o a ragione avvertito a sinistra di un colpo di Stato per troncare quasi nella culta l’esperimento del centrosinistra. 

De Mita con Mattarella
De Mita con Cossiga

Su Moro poi De Mita ci ripensò, non prima tuttavia di procurargli un altro dispiacere facendogli mancare al primo scrutinio i voti necessari all’elezione a presidente quanto meno della Dc, essendogli mancato il Quirinale. Dovetti faticare modestamente un pò anch’io nel rimuovere Moro dal rifiuto di sottoporsi ad un’altra votazione per assumere una carica -ahimè- che avrebbe poi contribuito alla sua morte. Nel 1978 egli era infatti presidente dello scudocrociato, più influente dell’amico segretario del partito Benigno Zaccagnini, quando le brigate rosse progettarono e realizzarono il suo spettacolare sequestro sterminandone la scorta e uccidendo anche lui dopo 55 giorni di penosa prigionia. Durante la quale Craxi, arrivato nel 1976 alla segreteria del Psi al posto di Francesco De Martino, cercò inutilmente, direi disperatamente di strappare la Dc alla cosiddetta linea della fermezza pretesa e ottenuta dal Pci di Enrico Berlinguer nella maggioranza di solidarietà nazionale gestita a Palazzo Chigi da Giulio Andreotti.

Anche in quel passaggio mi trovai in disaccordo con De Mita, che vedeva nell’agitazione “trattativista” di Craxi -per quanto limitata alla concessione della grazia presidenziale alla sola Paola Besuschio, compresa nell’elenco dei tredici detenuti con i quali i terroristi avevano preteso di scambiare Moro- un odioso, strumentale tentativo di spaccare la Dc e, più in generale, la maggioranza di governo per aprire poi una nuova edizione del centrosinistra a partecipazione socialista più decisiva. 

De Mita con Craxi

Fedele a questa visione delle cose, cioè “prevenuto” verso Craxi, come io gli dicevo procurandomi smorfie e gesti liquidatori, quando il segretario socialista davvero capovolse la linea demartiniana di appiattimento del Psi sulle posizioni del Pci, formulata in quel famoso impegno a “non tornare mai più con la Dc senza i comunisti”, De Mita si propose di sbarrargli la strada di Palazzo Chigi, Che pure era stata tracciata nell’estate del 1979 a Craxi dal presidente socialista della Repubblica Sandro Pertini con un incarico di presidente del Consiglio a sorpresa. A favore del quale nella direzione della Dc si schierò, astenendosi nella votazione di sostanziale bocciatura del tentativo di Craxi di formare il governo, solo Forlani. 

Proprio in funzione di antagonismo, contro la prospettiva di un governo di centrosinistra presieduto dal leader socialista, De Mita si propose e fu eletto alla segreteria della Dc nel 1982, un anno prima delle elezioni politiche tradottesi però in un arretramento dello scudocrociato. Così la presidenza socialista del Consiglio uscita dalla finestra con i governi prima di Francesco Cossiga, poi di Arnaldo Forlani poi ancora di Giovanni Spadolini e infine di Amintore Fanfani, entrò dalla porta nelle trattative per la formazione del primo governo della nona legislatura repubblicana. 

Fu un colpo duro per De Mita, e anche per il segretario del Pci Enrico Berlinguer, che si aspettava dal segretario della Dc una più forte resistenza alla promozione non del compagno socialista Craxi ma dell’avversario, deciso a ribaltare i rapporti di forza fra il Psi e il Pci.

De Mita con Berlinguer

Titolo del Dubbio

De Mita, che aveva praticamente scommesso tutte le sue carte personali e le prospettive generali del Paese più sull’evoluzione dei comunisti che sulla collaborazione con i socialisti, stette al gioco di Craxi a Palazzo Chigi con evidente sofferenza. Quando glielo rimproveravo dicendo che insieme sarebbero diventati “i padroni d’Italia” e divisi si sarebbero reciprocamente danneggiati, come poi si sarebbe verificato, lui mi dava dell’”ingenuo”. E come tale mi dovette liquidare esprimendo da ex presidente del Consiglio e presidente della Dc nel 1989 all’Eni, che lo aveva evidentemente consultato, parere contrario alla mia nomina a direttore del Giorno. Ma, franco com’era, me lo disse personalmente telefonandomi e augurandomi lo stesso buon lavoro, cioè comunicandomi lui per primo la notizia della nomina. Come non essere oggi provato e commosso nel ricordarlo? Ciao, Ciriaco. 

Pubblicato sul Dubbio

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Draghi in paziente attesa dei risultati delle amministrative di giugno

Con una quantità di pazienza, ma anche di una certa professionalità politica che sta sorprendendo -dicono a Palazzo Chigi e dintorni- anche familiari e amici di consolidata frequentazione, Mario Draghi ha deciso di attendere  quietamente il primo turno delle elezioni amministrative. Egli vuole consentire ai partiti per niente quieti della sua vasta maggioranza di misurarsi nelle urne, nella speranza che poi si diano quella che a Roma chiamano “una regolata”. 

Sottrattosi ad un voto parlamentare sulla guerra in Ucraina prima del Consiglio europeo di fine maggio, quando Giuseppe Conte già avrebbe voluto metterlo alla prova con uno no esplicito ad ulteriori aiuti militari a Kiev dopo l’aggressione russa, Draghi cercherà lui stesso un voto alle Camere prima del successivo Consiglio europeo, programmato per il 23 giugno, dopo l’esaurimento appunto del primo turno elettorale amministrativo del 12.  

Il tesoriere grillino e senatore Claudio Cominardi
Il graffito anti-Draghi sponsorizzato dal tesoriere 5 Stelle

Si vedrà allora se Salvini e un pò anche Berlusconi, appena tornato peraltro sulle prime pagine dei giornali per i suoi processi seriali titolati “Ruby”, avranno ancora tanta voglia di fare concorrenza al pacifismo praticato da Conte, e se ne avrà ancora tanta lo stesso Conte. Che sa di essere atteso alle prove delle urne non solo da Draghi ma anche nel suo movimento. Dove non a caso il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha immediatamente protestato contro il tesoriere delle 5 Stelle, il senatore Claudio Cominardi, vecchia conoscenza dei commessi per la vivacità dei suoi comportamenti in aula, avendo rilanciato per Instagram un graffito contro Draghi al guinzaglio del presidente americano Joe Biden. “Quell’immagine è inaccettabile”, ha detto il ministro sollecitando direttamente Conte a “prenderne le distanze”.

Dal blog d Beppe Grillo

Di fronte a questo scontro in casa il garante, elevato e altro ancora, Beppe Grillo, recentemente apparso anche lui stanco o pentito del sostegno a Draghi, è tornato a mettersi alla finestra rispolverando sul suo blog un vecchio articolo di febbraio scorso. In cui ammoniva che la natura rivoluzionaria dei pentastellati era “chiamata a passare dagli ardori giovanili alla maturità, senza rinnegare le radici ma individuando percorsi più strutturati per realizzarne il disegno”. Anche Grillo evidentemente vuole vedere se e quanto male uscirà dalle urne amministrative di giugno il movimento ora guidato dall’ex presidente del Consiglio.

Giuseppe Conte
Marco Travaglio sul Fato Quotidiano

Col cuore invece sempre lanciato oltre l’ostacolo il solito Travaglio sull’altrettanto solito Fatto Quotidiano ha già cominciato a festeggiare una crisi di Draghi e della sua pretesa -ha scritto- di dettare la linea ai partiti anziché subirla non essendosi mai messo alla prova del voto personalmente, promosso alla Presidenza del Consiglio da Mattarella avallando un mezzo complotto o persino un “Conticidio”, titolo di un libro dello stesso Travaglio. Che ha così concluso le sue riflessioni odierne sulla consistenza del successore di Conte: “Basterà consultare la cartina per scoprire che Draghi non fa neppure capoluogo”.  Eppure Conte non è riuscito a piazzare un suo candidato, d’intesa col Pd, in nessuno dei capoluoghi o comuni meno importanti dove si voterà il 12 giugno e prevedibilmente il 26 per i ballottaggi. 

Titolo del Giornale

In curiosa ma non inedita sintonia col Fatto Quotidiano anche il Giornale della famiglia Berlusconi scommette sulla debolezza più di Draghi che di Conte descrivendo il premier ad un drammatico “bivio” con questo titolo che parla da solo: “Salvate l’uomo che doveva salvare l’Italia”. Per una volta Travaglio vi si sarà riconosciuto sentendosi al Giornale, come ai tempi in cui vi lavorava con Montanelli in versione molto critica con l’editore, sino a intimargli -a cavallo fra il 1993 e il 1994- di non scendere in politica, pur su posizioni anticomuniste che erano state le sue. 

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Quel mezzo fantasma del piano di pace di Luigi Di Maio per l’Ucraina….

C’è un fantasma italiano che si aggira nelle cancellerie internazionali, persino nel palazzo di vetro delle Nazioni Unite, a New York. E’ un piano di pace: non quello tuttavia dei balneari, da cui pure è sembrato per un pò dipendere addirittura la sopravvivenza del governo di Mario Draghi, rifiutatosi di estrapolare dal disegno di legge sulla concorrenza le gare reclamate dall’Unione Europea per le concessioni delle spiagge, e osteggiate in particolare dal centrodestra. Dove sentono in pericolo addirittura settecentomila posti di lavoro, minacciati da multinazionali e simili che potrebbero subentrare ai concessionari attuali.

Medvedev su Di Maio secondo il Corriere della Sera

Molto meno modestamente si aggira per le cancellerie internazionali un piano italiano per la pace in Ucraina, che però prima ancora della stessa Italia porta il nome del ministro grillino degli Esteri Luigi Di Maio anche perché sino ad ora non ne ha mai parlato il presidente del Consiglio per condividerne la paternità, pur scrivendosene diffusamente un pò dappertutto. Ne ha appena parlato, per esempio, l’ex presidente russo, ora vice di qualcos’altro, Dmitry Medvedev, per liquidarlo come peggio non si poteva, trovandolo “preparato non da diplomatici, ma politologi locali che hanno letto giornali provinciali e che operano solo sulla base delle notizie false diffuse dagli ucraini”. 

Titolo di Repubblica

“Di Maio-Medvedev, scontro sul piano di pace italiano”, ha titolato in prima pagina Repubblica con una incompletezza che fa torto francamente alla scelta del ministro degli Esteri di affidarle la settimana scorsa l’esclusiva del documento, sia pure “allo stato embrionale” che l’autore ha voluto precisare di fronte alle critiche liquidatorie- ripeto- dell’ex presidente russo. 

Penso, a favore di Di Mao, che più importante della bocciatura dell’ex presidente sia la prudenza, quanto meno, del portavoce del presidente russo in carica -Dmitry, pure lui, Peskov- che ha tenuto per ora ora fuori dalla contesa Putin perché al Cremlino il documento italiano non sarebbe stato ancora letto. O non ancora dal presidente in persona. Che forse, chissà, qualcosa delle pur “embrionali” proposte di Di Maio potrebbe trovare di un certo interesse, come la neutralità da imporre all’Ucraina e una conferenza per la sicurezza e i confini europei analoga a quella svoltasi nel 1975 a Helsinky, ben prima della caduta del muro di Berlino e del comunismo, nell’autunno del 1989, e di tutto ciò che poi è seguito, compresa la guerra in corso. 

Il Fatto Quotidiano su Di Maio

Certo, il silenzio sinora di Draghi sul documento del suo ministro degli Esteri non è ordinario, diciamo così. E neppure meritato da Di Maio, che ha fiancheggiato il presidente del Consiglio nella linea fortemente atlantista e di aiuti anche militari all’Ucraina messa invece in discussione dal capo del MoVimento 5 Stelle Giuseppe Conte. Ma ancor meno ordinario, o più sorprendente, come preferite, è l’indifferenza dello stesso Conte per il piano di Di Maio.  Di cui egli  avrebbe potuto o dovuto, sempre come preferite, quasi appropriarsi, non foss’altro per cercare di mettere in qualche imbarazzo il silente Draghi, succedutogli a Palazzo Chigi più di un anno fa. Invece, niente. Conte ha girato la testa dall’altra parte anche a Di Maio e al suo piano. Di cui anzi il giornale più nostalgico dello stesso Conte a Palazzo Chigi, Il Fatto Quotidiano, si è affrettato a rilevare, o rivelare, un sostanziale fallimento. Sentite cosa o come ne hanno scritto sul giornale di Travaglio: “Chissà come avrebbe reagito la stampa italiana quando, compatta, considerava il ministro degli Esteri un incompetente e un impostore, all’esito del suo piano di pace. Oggi che Luigi Di Maio è il volto desiderabile dei 5stelle, le critiche sono messe sotto il tappeto, anche se il piano, lanciato come la novità della settimana da Repubblica lo scorso 19 maggio, sembra archiviato”.  

Ripreso da http://www.startmag.it

Ciò che rimane dei rapporti politici e umani dopo trent’anni di giustizialismo….

Titolo del Dubbio

 Per come si sono messe le cose con l’attualità sequestrata dalla guerra in Ucraina -anch’essa sfruttata dai partiti nel gioco dei quattro cantoni per smarcarsi l’uno dall’altro e tutti insieme dal governo cui pure accordano la fiducia- e col contenimento del tempo concesso alle votazioni, nella sola giornata ormai estiva del 12 giugno, temo che i risultati dei referendum sulla giustizia promossi da leghisti e radicali non risulteranno validi. Essi saranno probabilmente vanificati dal solito, crescente astensionismo. 

Silvio Berlusconi a Napoli

Nè credo, francamente, che sarà riuscito a scaldare il cuore degli elettori l’appello appena lanciato loro da Silvio Berlusconi nel discorso a Napoli sulla sua ridiscesa in campo, o sull’eterno ritorno, come altri lo hanno chiamato, perché l’uomo francamente non appare nelle migliori condizioni politiche. Il “suo” centrodestra -suo perché fu lui a fondarlo nel 1994, pur vestendolo un pò all’Arlecchino, con i leghisti promossi ad alleati al Nord e la destra di Gianfranco Fini promossa nel Centro e nel Sud, ben al riparo dagli sputi neppure tanto metaforici del padanissimo Umberto Bossi- è in uno stato a dir poco confusionale: diviso dalle opposte ambizioni leaderistiche di Matteo Salvini e di Giorgia Meloni e segnato dalla ridotta “spinta propulsiva” di Forza Italia. Così la buonanima di Enrico Berlinguer disse ad un certo punto  del comunismo che pure il suo partito portava ancora nel nome, nelle insegne e nel colore. 

L’enigma Giuseppe Conte

Sì, so bene che i sondaggi sono ancora favorevoli al centrodestra e che il segretario del Pd Enrico Letta ammonisce i suoi del campo più o meno largo a non scommettere più di tanto sulla incapacità degli avversari di arrivare uniti lo stesso alle elezioni generali dell’anno prossimo, salvo anticipi per incidenti di percorso, quanto meno, se non per i calcoli sbagliati dell’insofferente presidente del movimento 5 Stelle Giuseppe Conte. Del quale si potrebbe ripetere ciò che la buonanima di Winston Churchill diceva della Russia sovietica pur dopo averla assunta nell’alleanza antinazista della seconda guerra mondiale: “un rebus avvolto in un mistero che sta dentro a un enigma”. Non immaginava, poveretto, che cosa sarebbe riuscito a fare della Russia non più sovietica Putin molti, moltissimi anni dopo. 

Mario Draghi

Non mi strappo tuttavia le vesti pensando a ciò che potrà accadere dopo il prevedibile naufragio astensionistico dei referendum, in un Parlamento che in ogni caso  non più tardi dell’anno prossimo sarà liberato dalla “centralità” grillina di cui l’attuale è in qualche modo prigioniero dal 2018. Lo è anche in questo finale di legislatura gestito da un presidente del Consiglio come Mario Draghi, prudentemente protetto da Mattarella in una maggioranza molto larga. Dove i grillini per forza di cose contano meno di prima e debbono inghiottire ogni tanto bocconi amarissimi, come la permanenza dello stesso Draghi a Palazzo Chigi o l’ancor fresca elezione di Stefania Craxi alla presidenza della Commissione Esteri del Senato contro il candidato pentastellato ed ex capogruppo Ettore Licheri. 

Le vesti me le strappo piuttosto già adesso, senza aspettare il 12 giugno, vedendo il livello al quale sono ridotti il giornalismo e dintorni dopo una trentina d’anni di giustizialismo iniettato nella politica e nella opinione pubblica dalla magistratura per niente placata, anzi ancor più eccitata dalla decapitazione della cosiddetta Prima Repubblica. Cui sono seguite una seconda, una terza e persino una quarta, stando a certe trasmissioni televisive, più o meno incapaci di restituire alla politica il primato assegnatole dai costituenti. 

Giorgio Napolitano
Lia Quartapelle

Proprio l’appena ricordata elezione di Stefania Craxi alla presidenza della Commissione Esteri del Senato ha fornito l’occasione a Gianni Barbacetto sul Fatto Quotidiano per stendere una specie di lista di proscrizione dei craxiani, familiari e non, sopravvissuti al leader socialista. Ha chiuso la lista una deputata esperta di politica estera, la “ragazza prodigio del Pd milanese” Lia Quartapelle, perché- sentite- “diventata moglie di Claudio Martelli”. Ne è rimasto escluso, forse considerandone il ricovero all’ospedale Spallanzani di Roma per un intervento alla bella ma pericolosa età di quasi 97 anni, Giorgio Napolitano. Che da presidente della Repubblica fece infuriare i nemici di Craxi riconoscendo alla vedova, in una lettera nel decimo anniversario della morte, che il marito aveva ricevuto dalla magistratura e appendici  un trattamento di una “durezza senza uguali”. A proposito, auguri centenari, caro presidente. 

Da una prima pagina del Fatto Quotidiano

La ciliegina sulla torta di Barbacetto è il titolo apposto al suo articolo nel richiamo di prima pagina del quotidiano di Marco Travaglio: “Di Craxi non si butta niente”, come si dice -guarda caso- del maiale. E questo sarebbe  giornalismo, o confronto politico. Un deserto culturale e umano, direi.  

Pubblicato sul Dubbio

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