Le guerre parallele, grazie a Matteo Salvini, in Ucraina e in Italia

Titolo del Corriere della Sera

“Gelo del governo”, ha titolato il Corriere della Sera riportando l’annuncio di Matteo Salvini di un viaggio a Mosca, passando forse per la Turchia, col proposito di incontrare Putin, ma col rischio di doversi accontentare del suo portavoce, A neo che il capo del Cremlino non decida di cogliere l’occasione per portare in Italia, sia pure al solo livello politico, la guerra che ha sinora condotto solo contro l’Ucraina. Ormai, con le divisioni sempre più evidenti nella maggioranza di governo, le due guerre parallele sono qualcosa di concreto, non tanto di immaginario o metaforico. 

Titolo di Repubblica

“Salvini sfida Draghi”, ha titolato non a torto Repubblica, perché l’iniziativa del leader leghista nasce evidentemente dal sospetto di quest’ultimo che il presidente del Consiglio non abbia fatto tutto quello che poteva o doveva per smuovere Putin dalla sue posizioni nella telefonata di qualche giorno fa, dallo stesso Salvini peraltro richiesta nella settimana scorsa nella discussione al Senato sull’informativa del governo.

Alla telefonata a Putin, preceduta con molta probabilità da consultazioni con gli alleati europei e d’oltre Atlantico, il presidente del Consiglio ne ha fatta seguire un’altra al presidente ucraino, sempre nel tentativo di avvicinare le parti e di ravvivare l’azione diplomatica italiana dopo il sostanziale flop del piano per la pace, embrionale o non che sia stato, che il ministro degli Esteri italiano Luigi Di Maio ha consegnato anche al segretario generale delle Nazioni Unite. Ma che ha lasciato contrariati o indifferenti sia i russi che gli ucraini, per quanto i primi lo abbiano trovato troppo favorevole ai secondi. 

Matteo Salvini
Conte e Salvini

E’ proprio in considerazione del tentativo di Draghi di rilanciare l’azione diplomatica del governo italiano che il viaggio annunciato da Salvini costituisce un’anomalia, a dir poco, se non si vuole condividere la “sfida” vista da Repubblica. Che, se fosse tale peraltro, sarebbe doppia, perché Salvini si è praticamente messo in concorrenza anche con il suo ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte, pure lui insoddisfatto dell’azione del governo e del “suo” collega di partito titolare della Farnesina. 

Mattarella ai funerali di De Mita

Siamo, come si vede, in un intreccio di relazioni e di manovre da procurare le vertigini politiche, e non solo. Immagino lo sgomento non solo del presidente del Consiglio ma anche o ancor più del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Che avrà  forse colto l’occasione della partecipazione ai funerali del compianto amico Ciriaco De Mita a Nusco per pregare anche per il governo costretto a muoversi non fra soci di maggioranza, per quanto provvisoria, ma tra sostanziali sabotatori. 

Papa Francesco

Ha da temere dal viaggio di Putin a Mosca persino il Papa, visto il proposito attribuito a torto o a ragione al leder leghista, dopo un incontro non confermato col cardinale Parolin, di perorare in Russia anche un incontro di Putin col Pontefice, da tempo voglioso di recarvisi anche lui, ma scoraggiato, trattenuto e quant’altro dal disinteresse o indisponibilità del fedelissimo del Patriarca moscovita, che ha benedetto la sua guerra e lui personalmente dal primo momento dell’invasione della sfortunatamente confinante Ucraina. 

Il ministro Giancarlo Giorgetti

Certo, Salvini usa andare in giro, anche per i comizi, con rosari, medagliette della Madonna e altri oggetti religiosi in tasca, che non sono tuttavia sufficienti ad accreditarlo come un ambasciatore laico del Vaticano. Immagino pure lo sgomento del Papa, oltre a quello di Draghi e di Mattarella, ma forse anche, e più semplicemente, del ministro leghista Giancarlo Giorgetti, ancora capo della delegazione del Carroccio al governo.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it   

Enrico Berlinguer con Moro e Craxi nel trittico drammatico della Repubblica italiana

Titolo del Dubbio

Continuo a considerare Enrico Berlinguer -soprattutto per l’emozione con la quale se n’è tornato a scrivere e a parlare nel centenario della nascita, con tutte le luci accese  sulle sue qualità e spente sui suoi difetti o errori- un protagonista sfortunato e tragico, o tragicamente sfortunato, come preferite, della storia dell’Italia repubblicana. E lo è stato -lo preciso subito per chiarire quanto poco malanimo ci sia nella mia valutazione- in compagnia di altri due leader che ho personalmente conosciuto, frequentato e apprezzato di più, di cultura e orientamento politico opposti o diversi da lui: Aldo Moro e Bettino Craxi. Del quale ultimo divenni anche amico e qualche volta persino confidente. 

Enrico Berlinguer alla tribuna politica in cui parlò dell'”esaurimento della spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre” comunista

Con Berlinguer invece il massimo che ci siamo scambiati è stato un saluto in qualche tribuna politica televisiva, compresa quella nella quale mi diede il privilegio professionale di usare una mia domanda per uno dei suoi strappi politici: l’ultimo e davvero conclusivo, dopo quelli sulla Nato, da cui si sentiva protetto, e sulla libertà indivisibile. Mi riferisco alla volta in cui commentò il regime militare praticamente imposto dai sovietici alla Polonia parlando di “esaurimento ormai della spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre” comunista.

Berlinguer, Moro e Craxi costituiscono il trittico drammatico della Repubblica italiana, ciascuno morto a suo modo della propria passione politica e della centralità assunta nel sistema del loro comune Paese. 

Berlinguer rimase vittima dell’esasperazione alla quale, volente o nolente, aveva portato la lotta fra le due componenti storiche della sinistra italiana: la socialista, più anziana, e la comunista, più organizzata e disciplinata. 

Il cadavere di Moro nel bagagliao dell’auto in cui i brigatisti rossi lo avevano ucciso

Moro rimase vittima di quel merletto unitario che  aveva saputo realizzare nel 1976  con la cosiddetta maggioranza di solidarietà nazionale, estesa dalla Dc al Pci, per il cui salvataggio, poi neppure riuscito, entrambi i partiti lo condannarono sostanzialmente a morte con la cosiddetta linea della fermezza, peraltro mal gestita, una volta che lui fu sequestrato dalle brigate rosse fra il sangue della scorta trucidata il 16 marzo 1978 a poca distanza da casa sua. 

I funerali di Craxi nella cattedrale di Tunisi

Craxi morì assassinato a suo modo, nel suo rifugio tunisino, da quel trattamento giudiziario e mediatico riservatogli in Italia con “una durezza senza uguali”, riconosciuta dopo dieci anni dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, per l’errore sicuramente compiuto -per carità, ma non certo da solo- accettando di ereditare e praticare una pratica illegale di finanziamento dei partiti.  Che fu il frutto della ipocrisia con la quale la politica è purtroppo abituata ad affrontare e risolvere i problemi del suo sostentamento. 

La tomba di Craxi ad Hammamet

Craxi, di solito così diffidente, si fidò una volta tanto dei suoi avversari scommettendo praticamente sull’omertà che aveva unito i partiti in quella pratica: lui, solo o più di tutti, che alla guida del governo, dopo Alcide De Gasperi, senza essere stato peraltro mai ministro, aveva saputo starci meglio di ogni altro. Ah, che rabbia e ingiustizia al tempo stesso. 

Sulle circostanze drammatiche della fine di Berlinguer, dopo un comizio a Padova nel 1984 in cui si era riproposto il conflitto tra una sinistra modernizzatrice rappresentata da Craxi a Palazzo Chigi e una sinistra autoreferenziale sino al conservatorismo rappresentata dal Pci, schierato persino contro un modesto sacrificio antinflazionistico nella scala mobile dei salari, non voglio proporvi nulla del mio modestissimo pensiero. 

Voglio riproporvi solo ciò che scrisse nel 2003 l’insospettabile Piero Fassino, l’ultimo segretario dei democratici di sinistra post-comunisti, nella sua autobiografia  –Per passione, pure luipubblicata da Rizzoli: “Mi è capitato spesso di pensare a Berlinguer come a un campione di scacchi che sta giocando la partita più importante della sua vita. La partita dura ormai da molte ore. Sta giungendo alle battute finali e guardando la scacchiera il campione si accorge che con la prossima mossa l’avversario gli darà scacco matto. Ha un solo modo per evitarlo: morire un minuto prima che l’altro muova. In fondo, la tragica fine risparmia a Berlinguer l’impatto con la crisi della sua strategia politica”. Più onestamente e sofferentemente Fassino non poteva scrivere e riconoscere. 

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 5 giugno

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