Tutti i miracoli, ma a rovescio, di Putin e dei suoi protettori anche in Italia

Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano

Questo Putin da quando ha smesso di distrarsi con la pesca, la caccia, la palestra, le telefonate a o dall’amico italiano Silvio, riuscito dal canto suo a farlo giocare a casa col cane di famiglia, e si è messo a fare solo il capo del Cremlino, si sta rivelando l’uomo dei miracoli, invidiato anche dal Patriarca di Mosca. Ma dei miracoli a rovescio, contro se stesso e il popolo che lo ha eletto, è vero, come ha ricordato oggi Marco Travaglio sul suo giornale contestando a Mario Draghi di stare a Palazzo Chigi senza essere stato votato da nessuno. E questo nessuno, come l’omonimo dell’Odissea, sarebbe addrittura il Parlamento, che ha accordato a Draghi la fiducia ogni volta che gli è stata chiesta. E lo ha autorizzato “quasi all’unanimità”, come il presidente del Consiglio ricorda continuamente ai suoi critici, di aiutare anche militarmente l’Ucraina invasa e aggredita dalle truppe russe. 

In particolare, questo campione della democrazia -anch’essa però al rovescio perché chi dissente o usa solo parole diverse da quelle autorizzate da Putin in tema e in tempo di guerra finisce in galera- voleva allontanare i vicini dall’odiata Nato e li ha invece avvicinati, come dimostra la rapidità con la quale vi stanno aderendo, per esempio, i paesi baltici di una certa tradizione neutralistica. Voleva uccidere il presidente ucraino Zelensky o tradurlo in catene a Mosca come trofeo nella festa della vittoria sui nazisti il 9 maggio prossimo e ne ha fatto invece un leader mondiale, addirittura il campione della Resistenza, con la maiuscola riservata in Italia a quella dei partigiani del biennio 1943-45. Voleva impossessarsi, se non di tutto almeno di alcune parti importanti e preziose del Paese confinante e le sta distruggendo. Persino le Chiese vengono scoperchiate da quest’uomo dei miracoli a rovescio benedetto e invidiato, ripeto, dal Patriarca di Mosca. 

Eppure, di quest’uomo assai singolare, disponendo di un buon arsenale di armi  nucleari, comprese quelle cedutegli dagli ucraini dopo la fine dell’Unione Sovietica col consenso  di un Occidente sprovveduto; di quest’uomo assai singolare, dicevo, sono protettori paesi e partiti, anche in Italia, che hanno deciso di aiutare l’Ucraina a difendersi. A difendersi -dicono costoro, compreso il maggiore partito ancora della coalizione di governo da noi, cioè il MoVimento 5 Stelle presieduto da Conte- ma non a vincere sconfiggendo e ricacciando l’invasore. Bel modo di difendersi e di aiutare a difendersi, scommettendo solo sulla rinuncia di un avversario che non ha alcuna intenzione di fermarsi, anzi intensifica quotidianamente i suoi attacchi solo correggendo o aggiornando le traiettorie dei missili e i percorsi delle truppe. Ma che razza di modo di ragionare è questo? 

L’editoriale del Corriere della Sera

Sragionare, direi, cioè dare i numeri. E perdere la memoria, come oggi sul Corriere della Sera l’editorialista e storico Ernesto Galli della Loggia contesta alla sinistra italiana ricordandole, fra l’altro, che già nel 1976, quando ancora c’era l’Unione Sovietica e quello italiano era il partito comunista più forte dell’Occidente, lo storico segretario Enrico Berlinguer si sentiva  e dichiarava protetto più dalla Nato che dai rapporti di amicizia, affinità e quant’altro con Mosca. Sto scrivendo del famoso “strappo”che Armando Cossutta rimproverò al segretario del Pci cominciando a farsi finanziare dal Cremlino i suoi progetti di scissione. 

Titolo del Riformista
Titolo del Fatto Quotidiano

La memoria di certa sinistra storica  è  davvero corta. E produce anch’essa miracoli, come i titoli oggi politicamente sovrapponibili di due giornali che abitualmente se ne dicono e se ne danno di santa ragione. Sono Il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio e Il Riformista di Piero Sansonetti. Il primo ha gridato, con Conte scrupolosamente intervistato, su sfondo scuro: “No ai tank: sulle armi pesanti. Draghi parli alle Camere e si voti”. ll secondo, su sfondo chiaro: “C’era una volta il Parlamento. Ora c’è la guerra”. 

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Pera scarica Salvini e sponsorizza Meloni in un centrodestra conservatore

Giorgia Meloni all’apertura delle conferenza programmatica del suo partito
Titolo del Dubbio

Marcello Pera, il veterano ormai degli intellettuali a suo tempo arruolati da Silvio Berlusconi nel centrodestra, e salito più in alto di tutti arrivando con la Presidenza del Senato alla seconda carica dello Stato, fra il 2001 e il 2006, dev’essersi stancato di spingere inutilmente Matteo Salvini sulla strada di un’evoluzione europeistica e atlantica, percorsa invece più nitidamente nella Lega da Giancarlo Giorgetti. La stanchezza si avverte  nella decisione di sponsorizzare praticamente con la sua partecipazione la conferenza programmatica del partito di Giorgia Meloni apertasi a Milano, dopo avere accettato inviti  ad altri eventi dei fratelli d’Italia. 

Titolo del Quotidiano Nazionale
L’intervista dell’ex presidente del Senato

Nella bella intervista, al suo solito, rilasciata per Il Dubbio a Giacomo Puletti l’ex presidente del Senato ha apprezzato e accreditato la posizione politica di Giorgia Meloni, appunto, nel momento in cui l’ex ministra è vista e vissuta con sospetto nel centrodestra per avere superato tutti elettoralmente, anche il Pd fuori della combinazione berlusconiana, continuiamo a chiamarla così per essere stata fondata dal Cavaliere di Arcore sulle ceneri giudiziarie e politiche della cosiddetta prima Repubblica. Il sorpasso elettorale nel centrodestra ha messo praticamente in gara  la Meloni per la guida del governo dopo che Berlusconi aveva accettato, in vista delle elezioni del 2018, il principio che la candidatura a Palazzo Chigi spetta al partito più votato. 

Ora per aggirare quella concessione, preferita al ricorso, suggerito invece da altri, alle primarie adottate nello schieramento opposto comunemente chiamato centrosinistra, Berlusconi e Salvini sono tentati da una federazione, che sorpasserebbe la Meloni. E risparmierebbe al centrodestra la trasformazione, indesiderata da Forza Italia e dalla Lega, di destra-centro o “destra-destra”, come l’ha chiamata Pera nella sua intervista precisando di non condividere per niente una simile evenienza.

Piuttosto -ha sostenuto praticamente l’ex presidente del Senato- tutto il centrodestra, profittando proprio della strada imboccata dalla Meloni a livello anche internazionale, con le sue scelte a cominciare dal Parlamento europeo, dovrebbe decidersi ad assumere la fisionomia e forse anche il nome di partito conservatore. Che a Pera non dispiace affatto, pur essendo lui di provenienza socialista, ma sapendo di vivere in un contesto assai cambiato rispetto a quella sua vecchia simpatia. 

D’altronde, buona parte dell’elettorato ma anche della rappresentanza parlamentare  e dirigenziale di quello che fu il Psi di Bettino Craxi si trasferì subito nel 1994 e anni successivi in Forza Italia, e anche nell’allora Alleanza Nazionale di Gianfranco Fini: per esempio, in quest’ultimo caso, il compianto e mio carissimo amico Massimo Pini. Che aveva rappresentato il partito di Craxi nella Rai e all’Iri. 

Pera ha parlato nella sua intervista di un “nuovo conservatorismo”. Che renderebbe il centrodestra italiano simile ai tory britannici e al Partito Repubblicano americano, dove per fortuna -vorrei aggiungere- è passato il ciclone di Donald Trump e della sua sostanziale politica isolazionistica praticata col motto degli Stati Uniti prima di tutti e di tutto. 

Pera con Papa Benedetto XVI

Abituato da filosofo a ragionare con la testa e non con i piedi, come spesso accade invece ai politici improvvisati, fra i quali a suo modo eccelle, a mio avviso, il Giuseppe Conte assurto alla presidenza del MoVimento 5 Stelle, Pera ha ricordato all’amico Berlusconi che le sue posizioni in politica estera e spesso anche interna sono vicine a quelle più della Meloni che di Salvini, col quale invece l’ex presidente del Consiglio mostra di sentirsi più in sintonia, specie da quando è capitato ad entrambi di partecipare al governo di Mario Draghi. Alla cui costituzione invece la Meloni si oppose, salvo poi avere con Draghi in persona, specie ultimamente con i problemi creati dalla guerra in Ucraina, rapporti migliori di Salvini. Ma non solo con Draghi, essendosi la giovane leader dei fratelli d’Italia abituata a confrontarsi anche con Enrico Letta.

Pubblicato sul Dubbio

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Chi è stato sottovalutato di più nella guerra in Ucraina: Putin o Biden ?

Biden alla Casa Bianca
Putin al Cremlino

Di fronte agli sviluppi della guerra in Ucraina -tra i missili russi caduti su Kiev durante la visita del segretario generale dell’Onu, peraltro reduce dall’incontro al Cremlino con Putin, e la richiesta di Biden al Congresso di stanziare altri 33 miliardi di dollari per aiutare “fino in fondo” il Paese aggredito nel cuore dell’Europa- dovremmo tutti chiederci chi è stato sottovalutato di più sino ad ora: il presidente che si presume erede addirittura di Pietro il Grande o il presidente americano? Le cui foto sono state spesso analizzate anche sotto il profilo sanitario da alcuni commentatori per valutare chi dei due sia più ammalato: Putin con quella faccia gonfia probabilmente di cortisone, e le mani pesantemente appoggiate su tavoli e tavolini come per impedirne o nasconderne un certo tremore, o Biden con quello sguardo spesso troppo assorto o l’andatura troppo artificialmente sicura. 

Il segretario generale dell’Onu a Kiev

Dei due, il secondo è forse quello che sta sorprendendo di più per la decisione con cui sta contrastando l’altro, con una formula verbale -“faremo tutto il possibile”- che assomiglia a quella adottata a suo tempo per salvare la moneta comunitaria dall’allora presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi. Che le circostanze vogliono sia ora il presidente del Consiglio italiano, in procinto di incontrare  proprio Biden alla Casa Bianca dopo avere firmato decreti per la spedizione di armi all’Ucraina, fra i crescenti malumori del principale partito della sua maggioranza. Che numericamente in Parlamento non è il Pd di Enrico Letta, come quest’ultimo cerca di far credere, ma ancora il MoVimento 5 Stelle presieduto da Giuseppe Conte. Ai cui dubbi, resistenze, minacce e quant’altro per la linea adottata a Palazzo Chigi nel conflitto ucraino era probabilmente diretto come risposta il monito del ministro della Difesa Lorenzo Guerini riferendo al Copasir -il comitato bicamerale di sicurezza e controllo dei servizi segreti – sulle armi già spedite a Kiev e su quelle che seguiranno: “La guerra scatenata da Putin determinerà un riassetto generale che va ben oltre il fianco orientale dell’Europa”. Pare che se ne sia convinto anche il ministro pentastellato degli Esteri Luigi Di Maio, i cui rapporti politici e forse anche personali con Conte debbono essere ulteriormente peggiorati negli ultimi tempi se il “garante” e ora anche consulente dell’’ex presidente del Consiglio, Beppe Grillo, ha sentito il bisogno di incontrarlo durante la sua ultima visita a Roma, un pò commerciale e un pò politica.

L’editoriale del Corriere della Sera

Di Biden, così diverso dal predecessore Trump, che dava affettuosamente del “Giuseppi” a Conte e ne otteneva insolite disponibilità ad autorizzare i servizi segreti italiani a dargli praticamente una mano nella preparazione della campagna elettorale poi perduta per la conferma alla Casa Bianca, ha giustamente scritto Giuseppe Sarcina nell’editoriale odierno del Corriere della Sera che sembra un pò la riedizione del suo lontano predecessore Franklin Delano Roosvelt. Di cui è rimasto celebre “lo slogan” del 1940, durante la  la seconda guerra mondiale: “L’America sarà l’arsenale della democrazia”. E lo fu realmente, liberando anche l’Italia dall’occupazione nazifascista a costo di perdite umane americane ben superiori a quelle dei partigiani. In nome dei quali i pochi reduci e l’associazione che ne porta il nome hanno contestato, nella ricorrenza della festa della liberazione, l’accostamento della resistenza italiana fra il 1943 e il 1945 e la resistenza di questi tempi in Ucraina: una contestazione che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha a sua volta contestato cantando metaforicamente la famosa e bellissima “Bella Ciao” con Liliana Segre. Che proprio lui nominò senatrice a vita nel 2018 portando ancora sulla pelle -credo- il marchio della prigionia nei campi nazisti di concentramento e di sterminio degli ebrei. 

Ripreso da http://www.policymakermag.it

L’arma segreta russa e la fiera dell’ipocrisia sulla natura solo difensiva degli aiuti a Kiev

Titolo del Fatto Quotidiano

Come Hitler e Mussolini, ahimè, prima di rassegnarsi alla sconfitta, il primo uccidendosi e il secondo cercando di scappare avvolto in un cappotto militare tedesco, brandivano contro gli scettici la famosa “arma segreta”, una bomba che nessuno aveva mai visto e tanto meno provato, così Putin dal Cremlino ha minacciato la sua contro chi osa “impicciarsi” -ha titolato Il Fatto Quotidiano con una certa condivisione- dell’affare ucraino. Come se lui, sempre Putin, fosse l’unico titolato a farlo, alla propria maniera naturalmente, riducendo in macerie un Pese non suo, colpevole solo di essere confinante con la Russia e di non festeggiare l’arrivo delle truppe straniere come liberatrici.

La vignetta del Secolo XIX
Titolo del Riformista

La minaccia putiniana, sopraggiunta all’assicurazione del ministro degli Esteri che la Russia non pensava di usare le armi nucleari di cui dispone, non è purtroppo riconducibile alla vignetta di Stefano Rolli, del Secolo XIX, sul bastone bello grosso di un cavernicolo capo del Cremlino. Ed è stata presa sul serio anche dal buon Piero Sansonetti sul Riformista, avvertendo “più vicina” la terza guerra mondiale, in vista della quale evidentemente il presidente del Consiglio italiano Mario Draghi, finalmente guarito dal Covid, non avrebbe deciso autonomamente di andare il 10 maggio alla Casa Bianca ma vi sarebbe stato “convocato”, come un sergente dal suo generale. Che sarebbe il presidente degli Stati Uniti Joe Biden. Dio mio, Piero, anche tu. 

Titolo sempre del Foglio
Titolo del Foglio

Non vi è cascato invece sul Foglio Giuliano Ferrara, forse un pò più informato sui russi per averli frequentati addirittura in età scolastica, quando il padre era il corrispondente da Mosca dell’Unità comunista. “La storia della Terza guerra mondiale è una gran boiata”, ha titolato Giuliano prevedendo che “Putin arriverà a un accordo diplomatico appena prima dell’Apocalisse”. E si riserverà l’arma segreta, evidentemente, per qualche altra occasione, se rimarrà al Cremlino con la sua terribile valigetta dopo tutto quello che ha combinato in Ucraina e dintorni. 

Può darsi, per carità, che Il Foglio pecchi di ottimismo. Ma sicuramente peccano di ipocrisia tutti quelli che in Italia, all’interno dell’assai composita maggioranza di governo, e a cominciare dai pentastellati di Giuseppe Conte e Beppe Grillo finalmente uniti o davvero d’accordo, fanno le pulci al governo per la natura difensiva o offensiva degli aiuti militari all’Ucraina autorizzati “quasi all’unanimità” – ha ricordato Draghi- dal Parlamento. Che invece secondo Il Fatto Quotidiano sarebbe stato esautorato. 

Putin col Patriarca di Mosca

Nonostante gli insulti rimediati dal premier inglese Boris Johnson per avere incoraggiato gli ucraini ad usare le armi ricevute dagli occidentali per colpire anche il territorio russo, e non solo per cercare di abbattere i missili e quant’altro piovono sulle loro teste, a me sembra di natura difensiva un missile che dall’Ucraina venga lanciato contro le postazioni dalle quali provengono quelli che la stanno riducendo in ruderi, per evitare che la pioggia di fuoco continui. La pretesa di Putin di darle, col bastone che gli ha messo in mano Rolli o con altro ancora, senza dovere rischiare di riceverne, considerando inviolabile solo casa sua dopo avere violato quella dei vicini, è semplicemente assurda, per quanto egli si sia guadagnato il perdono preventivo e la benedizione del Papa rosso, come ai tempi dell’Unione Sovietica veniva chiamato il Patriarca di quelle terre. 

Ripreso da http://www.startmag.it il 29 aprile 2022 

Fra le rovine dell’Ucraina anche la politica interna dell’Italia di Draghi

Titolo del Dubbio

La guerra di Putin agli ucraini benedetta -non dimentichiamolo- dal Patriarca di Mosca, la rielezione di Emmanuel Macron all’Eliseo e la tenuta dell’Europa e della Nato alla prova cui sono state messe dal Cremlino hanno sconvolto i campi più o meno larghi della politica italiana, già sofferenti di loro per le campagne elettorali delle amministrative di giugno e generali dell’anno prossimo, salvo un anticipo all’autunno di questo affollato 2022.

Giorgia Meloni

            I campi più o meno larghi della politica italiana sono naturalmente quelli del centrosinistra, esteso prima da Nicola Zingaretti e poi da Enrico Letta ai nuovi e presunti progressisti pentastellati di Giuseppe Conte e del garante ora anche consulente Beppe Grillo, e del centrodestra di cui Silvio Berlusconi è sempre di più soltanto il fondatore. Considerarlo ancora il capo effettivo è rispettoso della sua persona, e della sua età, ma non della realtà. Egli è piuttosto uno spettatore blasonato della gara alla guida del centrodestra in corso, senza esclusione di colpi, fra l’ormai declinante Matteo Salvini e l’ascendente Giorgia Meloni, Che adesso è libera anche del fantasma di Giorgio Almirante, col suo passato repubblichino, grazie alla scomparsa della moglie ultracentenaria Assunta. Lo scrivo con tutta la simpatia che la signora si era guadagnata e meritata in vita, per la sua schiettezza e vigoria, ben oltre lo schieramento politico di appartenenza.

Berlusconi e Salvini

        Fra i due concorrenti Berlusconi propende sin troppo chiaramente per Salvini, incoronato personalmente da lui “vero e unico leader” italiano nella recente festa paranuziale con l’onorevole convivente Marta Fascina. Ma, a ben guardare le posizioni politiche dei due concorrenti, l’ex presidente del Consiglio dovrebbe trovarsi e sentirsi più in sintonia con la sua ex ministra. Che, “conservatrice” orgogliosamente dichiarata, è più europeista, o meno anti-europeista o sovranista, e più occidentalista e atlantista dell’altro, refrattario all’evoluzione consigliatagli all’interno della Lega post-bossiana dall’influente ministro, e amico del capo del governo in carica, Giancarlo Giorgetti.

         Sono ancora fresche di stampa, diciamo così, le notizie sull’incontro romano di Salvini col premier un pò putiniano dell’Ungheria Viktor Orban, pur appena ricevuto dal Papa in Vaticano e ringraziato per le porte magiare lasciate aperte agli ucraini in fuga dalle loro terre devastate. Altrettanto freschi di stampa sono i complimenti fatti dal “capitano” leghista alla sconfitta Marine Le Pen piuttosto che al vincente della nuova edizione della corsa all’Eliseo. Il cui inquilino confermato per altri cinque anni è unanimemente apparso in Europa con sollievo come il garante della continuità del processo di integrazione anche politica, e non solo economica, del vecchio continente.

Enrico Letta
Giuseppe Conte

        Le difficoltà, contraddizioni e quant’altro del centrodestra, pur al governo di tante regioni italiane, ma in procinto di uscire in brache di tela dalle elezioni primaverili e autunnali della Sicilia, anticipatrice regionale di tante svolte politiche nazionali, sono un po’ l’unguento col quale a sinistra il segretario del Pd spalma le ferite procurategli quotidianamente dalla coabitazione in maggioranza con Giuseppe Conte. Che, forte ora anche della consulenza retribuita di Beppe Grillo in comunicazione, non proprio il massimo estetico per un “garante” da statuto, ha appena trattato come un qualsiasi oppositore il presidente del Consiglio, chiamato -in particolare- a riferire in Parlamento sulle sue intenzioni e sulla sua linea prima di andare a Washington da Biden e a Kiev da Zelensky. E di spedire a quest’ultimo qualche cingolato e missile, e non solo giubbotti anti-proiettile e fucili per difendersi dagli aggressori russi e magari contrattaccarli. Intanto Grillo dal suo blog non più tanto personale, viste le spese ora coperte dal MoVimento, o da quel che ne rimane tra Montecitorio e Palazzo Madama, strizza un po’ l’occhio ai cinesi -la cui rappresentanza diplomatica a Roma conosce bene- perché non lascino solo il Cremlino. 

Bel campo largo, non c’è che dire. Ne dovrà consumare di unguento, almeno da qui alle elezioni, il povero Enrico Letta.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it

L’odio che Putin è riuscito a scatenare fra russi e ucraini con la sua guerra

In effetti -come hanno mostrato di avvertire sulle loro prime pagine il Corriere della Sera, la Repubblica, Avvenire, la Nazione, il Resto del Carlino, Il Giorno e la Gazzetta del Mezzogiorno- quella testa mozzata dell’operaio russo che dal 1982 faceva compagnia ad un collega ucraino nel monumento innalzato per onorare l’amicizia fra i due popoli, ancora accomunati allora nell’Unione Sovietica, è emblematica della guerra in corso fra la Russia di Putin, che l’ha scatenata, e l’Ucraina di Zelensky che sta resistendo con l’aiuto anche militare, e non solo politico e diplomatico, degli occidentali. Più emblematica, direi a questo punto, delle immagini di fuoco, fumo, fosse comuni e macerie  che continuano ancora ad arrivare dall’Ucraina e dintorni.  

Titolo della Verità
Titolo del Fatto Quotidiano

Eppure una parte del mondo politico italiano, che attraversa -debbo osservare- sia il “campo largo” del centrosinistra sia quello non meno largo e contraddittorio del centrodestra, non si interroga sull’odio profondo che Putin è riuscito a scatenare fra i due paesi confinanti in Europa, e quindi a interrogarsi su come fermarlo o solo ridurne la forza, ma sui rischi che il conflitto da locale diventi mondiale, e diretto fra la Russia e la Nato. “Terza guerra mondiale”, ha titolato fra virgolette Il Fatto Quotidiano, compiacendosi in un altro titolo della posizione sempre più oppositoria assunta nella maggioranza dal pentastellato Giuseppe Conte. Che ha chiamato a rapporto il presidente del Consiglio alle Camere, prima ancora che vada in viaggio in America e in Ucraina, guarito ormai dal Covid. “Ci portano alla guerra diretta con la Russia”, ha fatto eco da destra la ormai solita Verità di Maurizio Belpietro, matura ormai per ospitare anch’essa editoriali e lettere del professore ultraputiniano a sua insaputa Alessandro Orsini. Il quale spopola nei salotti televisivi per smentire indignato il puntinismo che gli viene attribuito e sostenerne contemporaneamente la causa contro quei presunti nazisti che sarebbero il presidente dell’Ucraina Zelenski e il settanta per cento e più degli elettori che lo hanno votato.

C’è da sperare che dal Fatto Quotidiano e dai salotti televisivi dove stroneggia, nella presunzione del conduttore di turno di aumentare gli ascolti, il professore Orsini non riesca ad approdare anche sulle pagine del Giornale della famiglia Berlusconi, diretto dal mio amico Augusto Minzolini, e di Libero. Dove peraltro Vittorio Feltri ogni tanto ne condivide di fatto idee  e  umori  disapprovando gli aiuti militari a Zelensky e auspicandone la resa per ridurre le sofferenze e il sangue del suo popolo nello scontro perduto in partenza con la Russia più forte. 

Titolo del manifesto sui rapporti fra Conte e Draghi
Dal blog di Beppe Grillo

Per conto mio, e quel poco o niente che può contare la mia opinione, preferisco continuare a cantare Bella Ciao per gli ucraini col presidente della Repubblica Sergio Mattarella e con la senatrice a vita Liliana Segre, anche a costo che si realizzi lo scenario previsto, auspicato e quant’altro da Beppe Grillo sul suo blog personale ora finanziato dal MoVimento affidato a Conte e partecipe del governo e relativa maggioranza. E’ lo scenario , in particolare, di un Putin che riesce a vincere la sua partita contro l’Ucraina e l’Occidente con  l’aiuto dei cinesi. Con i quali notoriamente il “garante”, consulente e quant’altro di Conte si sente di casa quando a Roma ne frequenta l’ambasciata e gusta la cucina.

Ripreso da http://www.startmag.it 

Mattarella evoca “Bella ciao” per gli ucraini che resistono alla Russia di Putin

Titolo di Repubblica

Evidentemente convinto, anche in base alle reazioni nel mondo politico, che non fosse bastato il già forte intervento all’incontro al Quirinale con i vertici militari e le associazioni partigiane e combattentistiche alla vigilia della festa di liberazione, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella vi ha partecipato ieri pronunciando ad Acerra, dove i tedeschi fecero uno dei loro abituali scempi d’occupazione, un discorso ancora più incisivo a favore degli ucraini. Per i quali, aggrediti dai russi e resistenti con aiuti occidentali, egli ha evocato la popolarissima canzone dei partigiani italiani Bella Ciao, peraltro adottata ormai in tutto il mondo da chi si batte per la libertà. E’ come se Mattarella l’avesse cantata, e non solo evocata, sulla scia di una intervista della senatrice a vita Liliana Segre da lui menzionata esplicitamente, anche lei convinta, con la sua drammatica esperienza umana, che gli ucraini siano stati aggrediti dai russi come altri lo furono dai nazisti nel secolo scorso. 

Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano

Ignorato, o censurato, sulla prima pagina del Fatto Quotidiano nel primo intervento al Quirinale, Mattarella si è guadagnata questa volta l’attenzione di Marco Travaglio. Che, ancora spiazzato e irritato per la sua conferma alla Presidenza della Repubblica, che non aveva messa nel conto scommettendo sulla indisponibilità irremovibile alla rielezione, il direttore del Fatto Quotidiano per ritorsione contro l’appoggio agli ucraini, e la condanna della Russia di Putin, ha rinfacciato a Mattarella i bombardamenti occidentali su Belgrado nel 1999. L’attuale capo dello Stato era  allora il vice presidente del Consiglio del primo governo di Massimo D’Alema. Ne divenne poi ministro della Difesa.  

Titolo del Fatto Quotidiano
La vignetta del Corriere della Sera

Sempre sul Fatto Quotidiano è stata oggi liquidata come “adunata di guerra” l’incontro a livello politico, e non solo militare, organizzato in una base della Nato in Germania. Quelle che si svolgono al Cremlino da da più di due mesi,  con Putin benedetto dal Patriarca di Mosca giustamente deriso da Emilio Giannelli nella vignetta di prima pagina del Corriere della Sera di oggi, dovrebbero invece considerarsi adunate di pace secondo la logica del giornale di sostanzialmente riferimento del movimento o partito di Giuseppe Conte. Che con le sue prese di posizione contro l’atlantismo “oltranzista” del suo successore a Palazzo Chigi e gli aiuti militari anche italiani all’Ucraina si è guadagnato, sempre sul giornale di Travaglio, la qualifica compiaciuta del “Conte rosso”. Il quale sta “più con Bersani che con Letta”, il segretario del Pd contestato ieri a Milano nella piazza rossa della festa di Liberazione, insieme con la rappresentanza ebraica. 

Altro titolo del Fatto Quotidiano

Beh, questa edizione appena trascorsa della festa di liberazione, tra il Sergio Mattarella di Acerra e l’Enrico Letta di Milano, con tutto il resto che l’ha preceduta e accompagnata, è servita a definire meglio, o a far leggere e vedere più chiaramente, il panorama politico dell’Italia alla vigilia delle elezioni amministrative di giugno e in vista delle elezioni politiche generali dell’anno prossimo. A meno che il “Conte rosso” -oggi più in sintonia o meno disturbato dal “garante” Beppe Grillo, diventatone consulente a pagamento per la comunicazione- e altri magari a destra che hanno già collaborato con lui a Palazzo Chigi, cioè i leghisti di Matteo Salvini, non riusciranno a fare anticipare all’autunno di questo 2022 il rinnovo delle Camere. Chi vivrà vedrà, come si dice in queste occasioni.  

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Una “modesta” riforma della Giustizia costata il Quirinale a Cartabia e a Draghi

Titolo del Dubbio

Fra i danni collaterali della maledetta guerra di Putin all’Ucrania è da mettere in Italia, insieme con l’indebolimento della maggioranza di governo, divisa sugli aiuti militari a Kiev ben al di là delle distinzioni parlamentari venute alla luce, una certa distrazione dell’opinione pubblica da temi come la giustizia. Che pure erano stati avvertiti con tanta intensità l’anno scorso da aver fatto raccogliere facilmente le  firme  richieste per i referendum promossi dalla combinazione politica inedita di radicali e leghisti. Inedita soprattutto per questi ultimi, approdati su sponde garantiste da posizioni ben diverse, rappresentate da quell’osceno cappio sventolato nell’aula di Montecitorio ai tempi di “Mani pulite”  contro gli imputati politici, neppure condannati ancora in primo  grado, di finanziamento illegale dei partiti, concussione, corruzione e quant’altro.

Anche i referendum rischiano di subire i danni collaterali di distrazione dalla guerra in Ucraina, aggravati dal loro abbinamento al primo turno delle elezioni amministrative indette per una data la più lontana possibile per i tentativi di abrogazione di leggi in vigore: il 12 giugno. Grava, in particolare, il rischio della invalidità per mancanza del cosiddetto quorum, cioè per affluenza alle urne inferiore alla metà più uno degli elettori aventi diritto al voto. 

Persino il passaggio parlamentare della cosiddetta riforma della giustizia, riguardante l’elezione del Consiglio Superiore della Magistratura e alcuni aspetti dell’ordinamento giudiziario, sta avvenendo senza una grande mobilitazione favorevole o contraria tra la Camera, che la licenzia oggi, e il Senato che se ne dovrà occupare non si sa ancora se anche per cambiare o solo per ratificare, come avviene già per tante altre cose, a cominciare dal bilancio dello Stato. E’ notoria la pratica monocamerale introdotta surrettiziamente negli ultimi anni tra le deboli proteste del presidente dell’assemblea di turno che viene sacrificata dalle esigenze politiche della maggioranza anch’essa di turno. 

In verità, un pò di vivacità, e di sale,  sulla riforma che lasciatemi chiamare col nome della ministra della Giustizia Marta Cartabia si è avvertito solo a causa dello sciopero minacciato dall’associazione nazionale dei magistrati. Che però all’ultimo momento vi ha rinunciato, almeno per il momento, pur confermando un forte stato di agitazione per  il tentativo del governo di non farsi dettare  per intero dalle toghe le norme da proporre al Parlamento, e di quest’ultimo di non lasciarsene condizionare del tutto esaminandole e votandole. E’ una vecchia storia, essendosi ripetuta già altre volte, direi anche troppe, nei decenni di progressivo arretramento della politica rispetto ad una magistratura peraltro mai soddisfatta abbastanza degli spazi via via acquisiti nelle sue esondazioni. 

Il presidente del Consiglio Draghi e la ministra della Giustizia Cartabia

Personalmente, e realisticamente, considerate anche le già ricordate circostanze di guerra in cui tutto sta avvenendo, mi accontento di una certa aria che riconosco cambiata rispetto al passato. E che è già costata parecchio alla ministra Cartabia, e allo stesso presidente del Consiglio Mario Draghi, nella recente corsa al Quirinale, nella quale l’una e l’altro non hanno praticamente potuto toccare palla. Anzi, quando Draghi ha cercato di affacciarvisi con quella storia del “nonno a disposizione” dello Stato, ha subìto danni dai quali non  si è del tutto ripreso, neppure dopo essersi salvato in qualche modo in corner convincendo il presidente della Repubblica uscente a farsi confermare.

I sensi o sintomi di una certa aria cambiata li avverto soprattutto nella maggiore partecipazione degli avvocati al sistema giudiziario e nelle cosiddette pagelle dei magistrati, insorti con forza non condivisibile ma comprensibile – considerando i loro interessi e abitudini-  contro la prospettiva, finalmente, che risultino più chiaramente per iscritto, diciamo così, i loro errori condizionandone la carriera. Il resto probabilmente toccherà farlo ad altri, e in un’altra legislatura, meno condizionata -per intenderci chiaramente- dai grillini  e da quella parte del Pd ancora timorosa di scontrarsi fino in fondo con una magistratura onnipotente.

Pubblicato sul Dubbio 

La “splendida” vittoria di Macron -parola di Draghi- sulla destra lepenista e un pò putiniana

In Francia è dunque andato tutto secondo le previsioni, e il buon senso favorito da un sistema elettorale, quello a doppio turno, che farebbe bene anche all’Italia. Ma proprio per questo, paradossalmente, la maggioranza delle forze politiche non vuole adottarlo. Pazienza. 

Putin in preghiera
Marine Le Pen

Il presidente uscente della Repubblica Emmanuel Macron ha raddoppiato il suo mandato battendo col quasi 59 per cento dei voti contro il 41 e poco più di Marine Le Pen.  Per la quale  quindi ha inutilmente pregato -presumo- Putin nella messa della Pasqua ortodossa a Mosca, fra la benedizione del Patriarca e i missili che continuavano a volare sull’Ucraina abbattendone gli edifici e aumentando i già troppi morti e feriti. 

Titolo di Libero
Titolo della Stampa

Con Macron ha vinto l’Europa, come hanno titolato giustamente La Stampa e altri giornali favorevoli al pur faticoso processo d’integrazione del vecchio continente. Dove si parlano invece troppe lingue e si coltivano interessi troppo diversi per scommettervici, ha scritto qualche giorno fa Vittorio Feltri su Libero. Che conseguentemente, pur sotto la direzione responsabile di Alessandro Sallusti, ad occhi e croce solitamente più cauto, ha definito “dimezzata” la vittoria di Macron, avendo il presidente francese ottenuto più del 58 per cento dei voti contro il 66 della volta precedente. Gli ha fatto in qualche modo eco il giornale di Marco Travaglio consolandosi con la “spaccatura” del Paese d’oltralpe. Che ha votato Macron “turandosi il naso”, ha scritto dal canto suo il Giornale della famiglia Berlusconi, pur fondato nel 1974 da un Montanelli che, per quanto laico, invitava gli italiani a votare col naso turato appunto una Dc minacciata dal sorpasso comunista. 

Titolo del Giornale

Certo, in questo caso il sorpasso che ha rischiato, alla lontana, Macron è stato più a destra che a sinistra, dopo la sconfitta di quest’ultima al primo turno. Ma la destra lepenista ha confini troppo ambigui -e al  Giornale dovrebbero saperlo- con la sinistra favorevole o quanto meno accomodante, sino a farsi finanziare dall’ultima edizione di Putin tanto somigliante non a Pietro il Grande ma a Leonid Breznev.

Il primo in Italia, ma forse anche in Europa, ad esultare per la vittoria di Macron è stato dal suo ritiro forzato in Umbria il presidente del Consiglio Mario Draghi con un comunicato sulla “splendida notizia” arrivata da Parigi. La sintonia fra i due è nota, peraltro rafforzata dall’intesa bilaterale firmata solennemente al Quirinale dopo anni di preparazione, e quindi nella piena consapevolezza della sua portata. 

Il presidente della Commissione Esteri del Senato Petrocelli
Marc Lazar

Il professore Marc Lazar, storico e sociologo francese, studioso dell’estrema sinistra e della politica in Italia, di cui parla bene la lingua, si è un pò divertito con falso “rammarico” ad annunciare, in un collegamento con uno studio televisivo a Roma, che il primo viaggio del confermato presidente della Francia sarà a Berlino, non a Roma. Dove peraltro Macron non potrebbe fisicamente incontrarsi ancora con Draghi contagiato dal Covid, ma è comunque impegnato ad organizzare le sue imminenti visite a Biden, negli Stati Uniti, e a Zelensky in Ucraina, con buona pace del predecessore e ora presidente del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte, critico dell’”oltranzismo atlantico” e degli aiuti militari italiani a Kiev. Ma costretto comunque -sempre Conte- per ragioni di decenza ad espellere dal quasi partito che guida il presidente della commissione Esteri del Senato Vito Rosario Petrocelli. Che ha adottato nelle sue comunicazioni elettroniche la Z dei carri armati russi in Ucraina. 

Da blog di Beppe Grilllo

Chissà se vorrà occuparsene nelle prossime ore o giornate il blog “personale” del “garante” Beppe Grillo, ora finanziato dal MoVimento. Questa mattina esso preferiva occuparsi, come tema principale, delle case di riposo, peraltro con un’immagine vicina a quella di un Grillo furente nelle sue invettive internettiane.

Ripreso da http://www.staetmag.it e http://www.policymakermag.it

La partita di Putin continua a giocarsi in Ucraina, non oggi a Parigi per l’Eliseo

Titolo del manifesto

La partita di Putin -o “Odissea”, come la chiama il manifesto giocando sui missili russi appena lanciati su Odessa- continua a giocarsi tutta nell’Ucraina sempre più apertamente e militarmente aiutata dagli americani e da altri paesi occidentali, compresa l’Italia. Non si gioca certamente oggi in Francia, dove è scontata nel ballottaggio per l’Eliseo la vittoria del presidente uscente della Repubblica Emmanuel Macron sull’ormai abituale sfidante sconfitta di destra Marine Le Pen. se non vogliamo parlare della famiglia per intero, visti i precedenti del padre. 

I francesi saranno pure antipatici, altezzosi, presuntuosi o come altro li avvertono  molti di noi italiani, ma non fessi. Ai russi come sono tornati ad essere anche con Putin preferiscono gli americani, per ridurre il discorso all’osso, e il processo per quanto lento e tortuoso di integrazione europea, non certo gradito al Cremlino.

Emmanuel Macron
Marine Le Pen

Macron avrà pure dissentito dal presidente americano Joe Biden su quel “macellaio” e “genocida” dati a Putin. Col quale il presidente francese avrà pure una certa dimestichezza telefonica. Ma lo ha appena sputtanato abbastanza nel mondo, almeno quello occidentale di cui fa parte la Francia, rivelandone le risate opposte ai crimini di guerra o comunque alla ferocia rimproveratagli  in una e forse anche più delle telefonate da Parigi, comunque fatte sempre su richiesta o sollecitazione del presidente ucraino Zelensky. Cerchiamo di ragionare con i piedi per terra, e non per aria, diversamente da quanti non temono, come ha mostrato ultimamente il primo ministro britannico Johnson, ma scommettono più o meno apertamente sulla vittoria di Putin nella partita, ripeto, che ha voluto aprire con i confinanti occidentalizzatisi troppo. 

Titolo sempre del Fatto Quotidiano
Titolo del Fatto Quotidiano

Non per fissazione o antipatia ma solo perché si tratta di un giornale più o meno di riferimento di un partito o movimento che in Italia è al governo e si ritiene ancora “centrale”, nonostante abbia perduto la presidenza del Consiglio e un bel pò di parlamentari, e soprattutto di voti ogni volta che gli italiani sono andati alle urne a livello amministrativo o altro dopo le elezioni politiche del 2018, vi segnalo lo “sfondamento” dei russi “in Donbass” gridato oggi dal Fatto Quotidiano, il bombardamento di Odessa e, più in generale, quel Putin che “avanza nel Sud”, anche se il progetto originario era di andare direttamente a Kiev con le sue truppe e sostituire i presunti “nazisti” di Zelensky e simili col solito e comodo governo fantoccio.   

Non una parola si trova su quel giornale  a proposito delle reazioni negative che Putin con la sua avventura militare in Ucraina ha già provocato in altri paesi dell’ex Unione Sovietica che all’inizio lo avevano sostenuto o si erano messi alla finestra. Non una parola, per esempio, sulla Moldavia in agitazione per l’obiettivo ripropostosi da Mosca di annettere la Transnistria, sempre nell’ambito dell’operazione contro l’Ucraina.

Sempre dal Fatto Quotidiano

Più che delle difficoltà di Putin il quotidiano di riferimento penstallare preferisce occuparsi o compiacersi di quelle, vere o presunte che siano, del presidente del Consiglio Mario Draghi. Che pure, per quanto costretto ancora a casa per il Covid, porta avanti il suo programma di governo in Parlamento ed è atteso non certo come una comparsa a Washington e a Kiev. Dove lo considerano tra i possibili garanti di un eventuale, per ora molto eventuale accordo sostitutivo e conclusivo della guerra in corso. 

Titolo della Verità di Beplietro
Sempre dalla prima pagina della Verità

In questa ossessione da Draghi continua a giocare di sponda col Fatto Quotidiano di sinistra, diciamo così, La Verità di destra di Maurizio Belpietro. Che oggi immagina con tanto di titoli in prima pagina la rinuncia del presidente del Consiglio in autunno e la ricerca, con gli amici americani, di un’altra destinazione, già indicata -sempre da quel giornale di recente- nella guida della Nato. 

Ripreso da http://www.policymakermag.it

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