L’arma segreta russa e la fiera dell’ipocrisia sulla natura solo difensiva degli aiuti a Kiev

Titolo del Fatto Quotidiano

Come Hitler e Mussolini, ahimè, prima di rassegnarsi alla sconfitta, il primo uccidendosi e il secondo cercando di scappare avvolto in un cappotto militare tedesco, brandivano contro gli scettici la famosa “arma segreta”, una bomba che nessuno aveva mai visto e tanto meno provato, così Putin dal Cremlino ha minacciato la sua contro chi osa “impicciarsi” -ha titolato Il Fatto Quotidiano con una certa condivisione- dell’affare ucraino. Come se lui, sempre Putin, fosse l’unico titolato a farlo, alla propria maniera naturalmente, riducendo in macerie un Pese non suo, colpevole solo di essere confinante con la Russia e di non festeggiare l’arrivo delle truppe straniere come liberatrici.

La vignetta del Secolo XIX
Titolo del Riformista

La minaccia putiniana, sopraggiunta all’assicurazione del ministro degli Esteri che la Russia non pensava di usare le armi nucleari di cui dispone, non è purtroppo riconducibile alla vignetta di Stefano Rolli, del Secolo XIX, sul bastone bello grosso di un cavernicolo capo del Cremlino. Ed è stata presa sul serio anche dal buon Piero Sansonetti sul Riformista, avvertendo “più vicina” la terza guerra mondiale, in vista della quale evidentemente il presidente del Consiglio italiano Mario Draghi, finalmente guarito dal Covid, non avrebbe deciso autonomamente di andare il 10 maggio alla Casa Bianca ma vi sarebbe stato “convocato”, come un sergente dal suo generale. Che sarebbe il presidente degli Stati Uniti Joe Biden. Dio mio, Piero, anche tu. 

Titolo sempre del Foglio
Titolo del Foglio

Non vi è cascato invece sul Foglio Giuliano Ferrara, forse un pò più informato sui russi per averli frequentati addirittura in età scolastica, quando il padre era il corrispondente da Mosca dell’Unità comunista. “La storia della Terza guerra mondiale è una gran boiata”, ha titolato Giuliano prevedendo che “Putin arriverà a un accordo diplomatico appena prima dell’Apocalisse”. E si riserverà l’arma segreta, evidentemente, per qualche altra occasione, se rimarrà al Cremlino con la sua terribile valigetta dopo tutto quello che ha combinato in Ucraina e dintorni. 

Può darsi, per carità, che Il Foglio pecchi di ottimismo. Ma sicuramente peccano di ipocrisia tutti quelli che in Italia, all’interno dell’assai composita maggioranza di governo, e a cominciare dai pentastellati di Giuseppe Conte e Beppe Grillo finalmente uniti o davvero d’accordo, fanno le pulci al governo per la natura difensiva o offensiva degli aiuti militari all’Ucraina autorizzati “quasi all’unanimità” – ha ricordato Draghi- dal Parlamento. Che invece secondo Il Fatto Quotidiano sarebbe stato esautorato. 

Putin col Patriarca di Mosca

Nonostante gli insulti rimediati dal premier inglese Boris Johnson per avere incoraggiato gli ucraini ad usare le armi ricevute dagli occidentali per colpire anche il territorio russo, e non solo per cercare di abbattere i missili e quant’altro piovono sulle loro teste, a me sembra di natura difensiva un missile che dall’Ucraina venga lanciato contro le postazioni dalle quali provengono quelli che la stanno riducendo in ruderi, per evitare che la pioggia di fuoco continui. La pretesa di Putin di darle, col bastone che gli ha messo in mano Rolli o con altro ancora, senza dovere rischiare di riceverne, considerando inviolabile solo casa sua dopo avere violato quella dei vicini, è semplicemente assurda, per quanto egli si sia guadagnato il perdono preventivo e la benedizione del Papa rosso, come ai tempi dell’Unione Sovietica veniva chiamato il Patriarca di quelle terre. 

Ripreso da http://www.startmag.it il 29 aprile 2022 

Fra le rovine dell’Ucraina anche la politica interna dell’Italia di Draghi

Titolo del Dubbio

La guerra di Putin agli ucraini benedetta -non dimentichiamolo- dal Patriarca di Mosca, la rielezione di Emmanuel Macron all’Eliseo e la tenuta dell’Europa e della Nato alla prova cui sono state messe dal Cremlino hanno sconvolto i campi più o meno larghi della politica italiana, già sofferenti di loro per le campagne elettorali delle amministrative di giugno e generali dell’anno prossimo, salvo un anticipo all’autunno di questo affollato 2022.

Giorgia Meloni

            I campi più o meno larghi della politica italiana sono naturalmente quelli del centrosinistra, esteso prima da Nicola Zingaretti e poi da Enrico Letta ai nuovi e presunti progressisti pentastellati di Giuseppe Conte e del garante ora anche consulente Beppe Grillo, e del centrodestra di cui Silvio Berlusconi è sempre di più soltanto il fondatore. Considerarlo ancora il capo effettivo è rispettoso della sua persona, e della sua età, ma non della realtà. Egli è piuttosto uno spettatore blasonato della gara alla guida del centrodestra in corso, senza esclusione di colpi, fra l’ormai declinante Matteo Salvini e l’ascendente Giorgia Meloni, Che adesso è libera anche del fantasma di Giorgio Almirante, col suo passato repubblichino, grazie alla scomparsa della moglie ultracentenaria Assunta. Lo scrivo con tutta la simpatia che la signora si era guadagnata e meritata in vita, per la sua schiettezza e vigoria, ben oltre lo schieramento politico di appartenenza.

Berlusconi e Salvini

        Fra i due concorrenti Berlusconi propende sin troppo chiaramente per Salvini, incoronato personalmente da lui “vero e unico leader” italiano nella recente festa paranuziale con l’onorevole convivente Marta Fascina. Ma, a ben guardare le posizioni politiche dei due concorrenti, l’ex presidente del Consiglio dovrebbe trovarsi e sentirsi più in sintonia con la sua ex ministra. Che, “conservatrice” orgogliosamente dichiarata, è più europeista, o meno anti-europeista o sovranista, e più occidentalista e atlantista dell’altro, refrattario all’evoluzione consigliatagli all’interno della Lega post-bossiana dall’influente ministro, e amico del capo del governo in carica, Giancarlo Giorgetti.

         Sono ancora fresche di stampa, diciamo così, le notizie sull’incontro romano di Salvini col premier un pò putiniano dell’Ungheria Viktor Orban, pur appena ricevuto dal Papa in Vaticano e ringraziato per le porte magiare lasciate aperte agli ucraini in fuga dalle loro terre devastate. Altrettanto freschi di stampa sono i complimenti fatti dal “capitano” leghista alla sconfitta Marine Le Pen piuttosto che al vincente della nuova edizione della corsa all’Eliseo. Il cui inquilino confermato per altri cinque anni è unanimemente apparso in Europa con sollievo come il garante della continuità del processo di integrazione anche politica, e non solo economica, del vecchio continente.

Enrico Letta
Giuseppe Conte

        Le difficoltà, contraddizioni e quant’altro del centrodestra, pur al governo di tante regioni italiane, ma in procinto di uscire in brache di tela dalle elezioni primaverili e autunnali della Sicilia, anticipatrice regionale di tante svolte politiche nazionali, sono un po’ l’unguento col quale a sinistra il segretario del Pd spalma le ferite procurategli quotidianamente dalla coabitazione in maggioranza con Giuseppe Conte. Che, forte ora anche della consulenza retribuita di Beppe Grillo in comunicazione, non proprio il massimo estetico per un “garante” da statuto, ha appena trattato come un qualsiasi oppositore il presidente del Consiglio, chiamato -in particolare- a riferire in Parlamento sulle sue intenzioni e sulla sua linea prima di andare a Washington da Biden e a Kiev da Zelensky. E di spedire a quest’ultimo qualche cingolato e missile, e non solo giubbotti anti-proiettile e fucili per difendersi dagli aggressori russi e magari contrattaccarli. Intanto Grillo dal suo blog non più tanto personale, viste le spese ora coperte dal MoVimento, o da quel che ne rimane tra Montecitorio e Palazzo Madama, strizza un po’ l’occhio ai cinesi -la cui rappresentanza diplomatica a Roma conosce bene- perché non lascino solo il Cremlino. 

Bel campo largo, non c’è che dire. Ne dovrà consumare di unguento, almeno da qui alle elezioni, il povero Enrico Letta.

Pubblicato sul Dubbio

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