Giuseppe Conte cade subito nella trappola del presunto asse Mosca-Pechino

Temo, almeno per chi l’ha usata con una certa enfasi non so se più compiaciuta o fiduciosa, che l’immagine dell’asse Mosca-Pechino sia un pò esagerata per rappresentare quella specie di incontro invece di terzo tipo che mi sembra svoltosi al Cremlino fra il cinese Xi Inping, reduce da una conferma a Pechino che sembra averlo ulteriormente impettito, e il russo Vladimir Putin ricercato peggio di un criminale comune dalla Corte Internazionale dell’Aja per ciò che ha combinato in Ucraina. Un incontro di terzo tipo, dicevo, per le tante ambiguità che coprono o caratterizzano intenzioni, progetti, interessi dei due interlocutori. Uno dei quali, il cinese, si considera -o viene considerato- portatore di un piano di pace così poco convincente nella dichiarata difesa della “sovranità” anche dell’Ucraina da essere stato trovato interessante, degno di attenzione dall’altro che considera il paese limitrofo un’escrescenza tardo-nazista da eliminare, cominciando col distruggerne il territorio e deportare i bambini per rieducarli alla civiltà russa. 

Non può stupire di certo che in Italia siano subito caduti nella trappola della recita moscovita i soliti pacifisti rossi, cespugli cui il Pd di Enrico Letta e ora anche di Elly Schlein consente di arrivare col suo aiuto in Parlamento e poi di muoversi in piena libertà e rrilevanza, e i pacifisti di nuovo conio, chiamiamoli così, quali sono i grillini di Giuseppe Conte. Il quale prima da presidente o ex presidente del Consiglio e ora da capo del Movimento 5 Stelle, come con i porti chiusi di fatto ai migranti nel suo primo governo con i leghisti e riaperti nelle successive alleanze politiche, anche con le armi d’aiuto all’Ucraina aggredita dai russi è passato disinvoltamente dal si al no, per giunta nell’arco di una stessa esperienza o parentesi politica quale la partecipazione al governo di Mario Draghi, nella scorsa legislatura. Figuriamoci adesso, all’opposizione del governo di Giorgia Meloni, che già quando contrastava, quasi unica in Parlamento, il governo Draghi ne condivideva però la linea di difesa militare dell’Ucraina. 

“Conte va alla guerra contro Schlein” sugli aiuti militari appunto agli ucraini condivisi dalla nuova segretaria del Pd, annuncia oggi in prima pagina Repubblica riferendosi ai voti parlamentari imminenti in vista dei vertici europei ai quali sta per partecipare la presidente del Consiglio. “L’Ucraina detonatore dello scontro tra M5S e Pd”, scrive e commenta realisticamente Massimo Franco sul Corriere della Sera. 

Voi pensate che a Mosca il cinese e il russo dell’asse decantato dal Fatto Quotidiano, e di così funesta memoria ricordando quello del secolo scorso fra Roma, Berlino e Tokio, abbiano trovato o troveranno il modo, la voglia, l’interesse di occuparsi, a proposito della guerra in Ucraina, anche di Giuseppe Conte come sponda su cui contare per dividere il fronte occidentale? Ne dubito assai. 

Il sequestro politico di Moro continua anche da morto coprendolo di falsità

Peggio, francamente, non potevano essere ricordati i 45 anni trascorsi dal sequestro di Aldo Moro, rapito fra il sangue della sua scorta mentre si recava alla presentazione parlamentare del quarto governo di Giulio Andreotti Che lui da presidente della Dc aveva contribuito a far formare, interamente composto da democristiani e con un programma concordato anche con i comunisti per ottenerne la fiducia, non più l’astensione, o “non fiducia”, di quello precedente. 

A Palazzo Chigi si sono addirittura dimenticati il 16 marzo scorso della ricorrenza  lasciando soli in via Fani il sindaco di Roma e il presidente della regione.  La corona di fiori del governo è arrivata a cerimonia quasi ultimata, come ha raccontato il Corriere della Sera.

Maria Fida Moro, una dei figli dello statista ucciso dalle brigate rosse dopo 55 giorni di drammatica prigionia, ha voluto ricordare a suo modo il padre lamentando ch’egli a 45 anni dalla sua morte non risulti ancora ufficialmente, a termini di legge con relativo indennizzo, una vittima del terrorismo, pur  coincidendo con la ricorrenza del suo assassinio il giorno della memoria delle vittime, appunto, del terrorismo. Quanto meno “vi chiedo di cambiare data”, ha chiesto Maria Fida. Che oggi ha 76 anni e non ha ancora chiuso i suoi conti evidentemente con uno Stato che non seppe -per alcuni addirittura non volle- difendere davvero suo padre, proteggendolo con un’auto blindata di ben scarsa qualità e con una scorta che -pace all’anima di chi ci rimise la vita- usava viaggiare con i mitra nel bagagliaio, anziché fra le mani. 

Sempre nella ricorrenza dei 45 anni dalla più grande tragedia politica della Repubblica i giornali del gruppo Riffeser Monti –Il Giorno, il Resto del Carlino e la Nazione- hanno pubblicato come uno scoop il testo di un articolo polemico con gli Stati Uniti scritto da Moro per Il Giorno allora di proprietà dell’Eni, e diretto da Gaetano Afeltra, durante le trattative per la formazione del quarto governo Andreotti. Nel quale il Dipartimento di Stato americano aveva espresso il timore, diciamo così, che potessero entrare i comunisti, o nei rapporti col quale il Pci allora guidato da Enrico Berlinguer potesse acquistare più peso. 

L’articolo di Moro, in cui si sospettava  sostanzialmente che fra i destinatari delle pressioni americane ci fosse l’Unione Sovietica, come per sollecitarne l’intervento sul Pci per non compromettere gli equilibri politici concordati per l’Europa tra i vincitori della seconda guerra mondiale, non sarebbe stato pubblicato -sempre secondo lo scoop dei giornali summenzionati- per un rifiuto di Afeltra, e forse anche dell’editore. 

Da questo scoop ha voluto cogliere l’occasione Achille Occhetto per sostenere, in una intervista del 17 marzo a quei giornali titolata in prima pagina “Moro ostacolato da Usa e Urss”, che se quell’articolo -il cui originale era fra i documenti sequestrati con lo stesso Moro dai brigatisi rossi- fosse stato diffuso prima del rapimento la linea della famosa “fermezza” del Pci contro i terroristi avrebbe potuto cambiare. Dal rifiuto di ogni forma di trattativa, e di riconoscimento delle brigate rosse, il Pci avrebbe potuto passare alla ricerca di ogni mezzo possibile per salvare  la vita dell’ostaggio in quanto campione della “sovranità nazionale”. Come se Moro, cinque volte presidente del Consiglio, ministro degli Esteri, segretario prima e presidente poi del maggiore partito italiano avesse avuto bisogno di quell’articolo polemico col Dipartimento di Stato americano -e nascosto da sostanziali “depistatori”, secondo Occhetto,  dell’informazione e del potere- per essere considerato un uomo fedele alla Costituzione e difensore quindi dell’indipendenza nazionale. Roba semplicemente da matti, con tutto il rispetto per un vecchio e provato militante della sinistra italiana come Occhetto. Che purtroppo è caduto semplicemente in un infortunio, a sua insaputa, perché non è per niente vero che quell’articolo – “la scatola nera del caso Moro” l’ha definita Marcello Veneziani sulla Verità- fu rifiutato. Figuriamoci il mio compianto amico Afeltra, che semplicemente lo venerava, nei panni di censore verso il suo più illustre e autorevole collaboratore.

Quell’articolo non fu pubblicato semplicemente per decisione dello stesso Moro. Che vi “rinunciò più che altro per evitare di aprire una polemica personale con gli Stati Uniti”, è scritto a pagina 136 in un libro documentatissimo di Andrea Ambrogetti su “Aldo Moro e gli americani”, pubblicato nel 2016 per le edizioni Studium di Roma e ristampato nel 2018.  

In una nota a margine di quel passaggio sulla mancata pubblicazione dell’articolo da cui Occhetto si è mostrato così sorpreso, si indica la fonte del testo “completo” ma parzialmente riportato e commentato dall’autore del libro.  Si tratta di un altro libro -pagina 144- pubblicato nel 1999 dagli Editori Riuniti a firma dello stesso Moro, contenendo  scritti e discorsi del compianto presidente della Dc, titolato “La democrazia incompiuta”.

Povero Moro. Quanti torti, o abusi, come preferite, deve ancora subire a 45 anni dalla sua tragica fine, bloccato dall’assalto brigatista anche nella sua seconda scalata al Quirinale, dopo quella fallita nel 1971 per l’opposizione congiunta dei dorotei e fanfaniani nella Dc e dei repubblicani di Ugo La Malfa all’esterno. Anche questo, per favore, va ricordato di Moro, mancato successore di Giuseppe Saragat prima e di Giovanni Leone poi. 

Pubblicato sul Dubbio

La contesa letteraria, ma non solo, di Giorgia Meloni con Corrado Augias

Più che lo scandalo, l’incidente, o come altro volete chiamarlo, di Lucia Annunziata che prende praticamente a parolacce davanti alle telecamere di Stato la ministra della famiglia Eugenia Roccella sollecitandola, con tutto il governo, a fare “finalmente questa legge del cazzo” chiesta dalle coppie omosessuali a tutela dei figli procuratisi con la pratica dell’utero in affitto, in un mercato ancora proibito in Italia; più che questo scandalo o incidente, ripeto, mi interessa oggi la polemica che Giorgia Meloni ha voluto avere con Corrado Augias, su Repubblica. 

Senza distrarsi più di tanto con la festa del papà, lasciandosi ritrarre davanti ad una foto che  la riprende col compagno e con la figlia Ginevra, la premier ha contestato con tempestività il “nazionalista” dato dal collaboratore di Repubblica al filosofo francese dell’Ottocento Ernest Renan. Dal quale tuttavia Augias aveva invitato la Meloni a “mettere giù le mani”, avendone lei citato con compiaciuta condivisione la definizione di Nazione. Che -scrisse Renan- “è una grande solidarietà, un plebiscito che si rinnova ogni giorno e si fonda sulla dimensione dei sacrifici compiuti e di quelli che siamo disposti a compiere insieme”. 

Nella replica alla lettera di contestazione  mandata dalla premier a Repubblica Augias, da galantuomo com’è, ha riconosciuto di essersi fatto prendere la mano, per cosiddetta “concisione”, definendo Renan “alfiere del nazionalismo”: meno, certamente, di Wikipedia. Che per i naviganti internettiani  colti in flagranza dalla Meloni ha preso il posto della Treccani ed ha  condannato il filosofo francese come “teorico della razza ariana”, un precursore insomma di Hitler. Un curioso razzista questo Renan letto e apprezzato, fra gli altri, come ha ricordato la Meloni, da uomini come Antonio Gramsci, Giovanni Spadolini e Francois Mitterrand, “non esattamente personalità di estrema destra”, ha osservato la premier italiana. 

Non credo proprio che la Meloni abbia voluto solo fare sfoggio di cultura cogliendo in fallo Corrado Augias, e sorprendendo ancora una volta quanti cercano di liquidare il suo passaggio a Palazzo Chigi come un incidente,  il capriccio di un elettorato andato via di testa e un pericolo per la democrazia da troppi sottovalutato. No. Giorgia Meloni ha voluto compiere un altro passo, diciamo pure un passetto, nella gradualità della sua marcia non su Roma, come quella di Mussolini di più di un secolo fa riavvertita dagli avversari, ma verso la modernizzazione della destra: quella mancata alla sinistra lapidando Bettino Craxi anche da morto e scambiando Matteo Renzi, per la riforma costituzionale del 2016, per un attentatore alla Costituzione repubblicana “più bella del mondo”, come diceva a nome della sua “ditta” politica quel simpaticone, nonostante tutto, di Pier Luigi Bersani. Che con Massimo D’Alema ed altri, fra i quali addirittura Silvio Berlusconi, contribuirono alla bocciatura referendaria del progetto renziano. O renzista.

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I bambini da cui si debbono guardare -pensate un pò- Putin e la Meloni

I bambini ucraini sequestrati, credo senza distinzioni tra figli di coppie etero o omosessuali, sono costati un mandato di cattura internazionale a Putin. Che se ne sbatte  ma potrebbe subire dall’iniziativa della Corte Internazionale dell’Aja più danni ancora che dalla resistenza armata degli ucraini, spalleggiati dall’Occidente, alla sua politica aggressiva e tardo-imperialistica, sulle orme di Pietro il Grande più ancora che di Stalin, successori e attigui, compreso Hitler.

Altri bambini, figli di copie omosessuali che se li sono in genere procurati con uteri in affitto, in un mercato consentito all’estero, guardano invece più che a tutti noi, come vorrebbe un titolo del manifesto sovrapposto alla piazza “arcobaleno” di Milano sedotta dalla nuova segretaria del Pd Elly Schlein e, a sorpresa, da Francesca Pascale, l’ex fidanzata di Silvio Berlusconi; altri bambini, dicevo, figli di coppie omosessuali guardano impauriti nell’immaginario di certa sinistra elitaria a Giorgia Meloni. Che una vignetta sulla prima pagina della Stampa ha proposto nella versione di una premier di destra disposta al riconoscimento solo dei “figli della lupa”. Ah, che cosa non si riesce a pensare, immaginare, dire, scrivere e disegnare avvolti nella nuvola della politica. 

Più che Maurizio Landini, il segretario generale della Cgil che dopo averla invitata e scortata al congresso del suo sindacato, proteggendola da chi aveva deciso di trattarla come ospite “sgradita”, ha festeggiato la propria conferma al vertice dell’organizzazione proponendosi uno sciopero generale contro la riforma fiscale che si è proposta il governo; più che Maurizio Landini, dicevo, più che gli scafisti decisi a sfuggire alla sua caccia in tutto il “globo terracqueo”, più che i due Mattei, Piantedosi e Salvini, all’opera non sempre felice al Ministero dell’Interno e a quello delle Infrastrutture, più di quell’anguilla politica che è Giuseppe Conte, per niente intenzionato a mettersi ai suoi ordini oggi all’opposizione e domani., chissà, al governo, la premier italiana di destra deve quindi guardarsi dalle coppie omosessuali tentati dalla voglia di scambiarla per un’emula di Putin con i loro bambini. 

Personalmente- perché non ci siano ambiguità o equivoci- sono favorevole alla causa della coppia. chiamiamola così, Schlein-Pascale. Non mi strapperei le vesti e i capelli se in Parlamento si riuscisse a trovare una maggioranza in grado di liberare il sindaco di Milano Giuseppe Sala, per esempio, dai lacci e lacciuoli che gli impediscono di trascrivere all’anagrafe, non importa in quale modo., i figli che le coppie omosessuali sono riuscite a procurarsi e che sicuramente amano come ogni altro genitore. Ma mi permetto di chiedere alla nuova segretaria del Pd e amici o simpatizzanti vecchi e novi, temo tutti residenti in zone a traffico limitato, se questa sia davvero la priorità assoluta dell’Italia: una priorità capace di accendere il fuoco anche di rivolte sociali.

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Se occorre coraggio invitare la premier al congresso della Cgil e accorrervi

Nel giorno peraltro di un evento internazionale come il mandato di cattura emesso dalla Corte Internazionale dell’Aja contro Putin,  quanto meno ladro di bambini nella sua guerra all’Ucraina, a casa nostra si sono un pò tutti interrogati, fra giornali e salotti televisivi, chi abbia avuto più coraggio fra il segretario della Cgil  Maurizio Landini e la presidente del Consiglio Giorgia Meloni: l’uno invitandola al congresso del suo sindacato, aperto da lui stesso con una relazione dura contro il governo, e l’altra accettando di andarvi interrompendo un’assenza quasi trentennale di premier, di centrodestra e di centrosinistra, da incontri di questo genere. 

Di coraggio, in effetti, ne hanno avuto l’uno e l’altra. Il primo ha sfidato una dissidenza interna per fortuna contenuta nelle proteste, nelle uscite dalla sala, in qualche fischio e nel solito canto partigiano di Bella ciao, metaforicamente ricambiato dalla Meloni in una felice vignetta di Stefano Rolli sul Secolo XIX. L’altra, al di fuori di quella vignetta, ha realmente sfidato i contestatori esponendo la linea del governo sui temi del lavoro, e altro, con una nettezza riconosciuta da tutti, anche dalle testate giornalistiche più ostili alla premier più a destra di tutti quelli che l’hanno preceduta alla guida di un governo nella Repubblica, anche più del democristiano Fernando Tambroni nel lontano 1960 appoggiato dai missini. “Reazionaria, come sempre, ma coraggiosa”, ha titolato il Riformista di Piero Sansonetti, che sta per riportare nelle edicole la “sua” Unità, condiretta quando era l’organo ufficiale del Pci e delle edizioni successive. 

“Meloni al congresso Cgil tira dritto”, le ha riconosciuto Repubblica. Addirittura “Meloni doma la Cgil, tana dei comunisti”, ha titolato il Giornale ormai in transito dalla piena proprietà della famiglia Berlusconi al controllo degli Angelucci, già editori di Libero e interessati anche all’acquisto della Verità fondata e diretta da Maurizio Belpietro. 

Ma più che interrogarsi su chi dei due -Landini e Meloni, in ordine alfabetico- abbia avuto più coraggio, invitando e accettando l’incontro, sarebbe forse il caso di chiedersi che razza di Paese sia diventato il nostro, o che razza di democrazia si sia riusciti a realizzare in Italia 75 anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, se occorre del coraggio, appunto, per promuovere e realizzare eventi del genere. Sarebbe il caso, ripeto, di chiedersi questo e di condividere con Bertold Brecht nella vita di Galileo le famosissime parole  “Beato un popolo che non ha bisogno di eroi”.

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L’indimenticabile giornata nera del Pd dell’esordiente Schlein alla Camera

Per quanto coperto da ciò che rimane -“il carico residuale”, direbbe il prefetto e ministro dell’Interno Matteo Piantedosi- dell’articolo 68 della Costituzione, secondo il quale “i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”, il 31 gennaio scorso non si sapeva di quante cose avrebbe dovuto rispondere il giovane deputato della destra Giovanni Donzelli. Che, già colpevole di suo agli occhi degli avversari di essere collega di fiducia e di partito di Giorgia Meloni, rimasto fuori dal governo perché potesse occuparsi a tempo pieno dell’organizzazione dell’ormai prima forza politica d’Italia, aveva osato rivelare veri o presunti segreti d’ufficio, o d’altro tipo, e offendere l’onore del Pd criticandone vivacemente una visita in delegazione compiuta in carcere al detenuto anarchico Alfredo Cospito. Di cui persiste tuttora lo sciopero della fame contro l’assegnazione al carcere duro istituito con l’ormai famoso articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, riservato ai detenuti più pericolosi, o temuti, di mafia e poi anche altro, per i loro collegamenti con l’esterno. 

Il fatto, appreso dal collega di partito, coinquilino e sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, che la delegazione del Pd andata a visitare Cospito avesse ritenuto di contattare anche detenuti d’altro tipo segnalati dallo stesso Cospito e interessati al successo della sua causa, aveva indotto Donzelli a interrogarsi e interrogare i colleghi parlamentari sulla posizione del partito del Nazareno di fronte alla tematica sollevata dalla protesta dell’anarchico. Lo avrei fatto modestamente anch’io nel mio campo, se informato di quelle circostanze, chiedendo al direttore di questo giornale di scriverne, anche a costo di ripetere una brutta esperienza giudiziaria, in materia di presunta violazione di segreto di Stato, già raccontata ai nostri lettori e vissuta fra il 1983 e il 1985, chiusa per intervento del governo Craxi col proscioglimento perché “il fatto non sussiste”.

Le reazioni del Pd a Donzelli, a cominciare dalla capogruppo Debora Serracchiani e dagli altri componenti della delegazione, fra i quali l’ex guardasigilli Andrea Orlando, per finire con l’allora segretario del partito Enrico Letta, furono di una forza politica e verbale tale che persino la Meloni s’impressionò chiedendo all’amico per telefono “che cazzo” -letteralmente- avesse combinato. Per loro fortuna il Pd commise anche l’autorete di chiedere un’indagine interna col ricorso al giurì d’onore, formato sotto la presidenza dall’ex ministro grillino e generale dei Carabinieri Sergio Costa, rigorosamente dell’opposizione. 

Ebbene, questa commissione di onorevoli giurati, grazie al fatto di non essere magistrati ordinari, con ciò che l’esperienza ci ha insegnato a ritenere che cosa sia l’ordine di tempo e di modo nei tribunali, ha concluso in meno di 40 giorni il suo lavoro assolvendo l’imputato, diciamo così. Che è stato sentito al pari di tutti gli  altri interessati alla diatriba. 

Donzelli secondo il verdetto dei giurati poteva avere sbagliato, anzi aveva sbagliato di sicuro nei toni, troppo “aspri”, ma non aveva voluto disonorare i pur offesissimi esponenti del Pd esprimendo le sue opinioni e dubbi. In più, con l’aria di volere ribadire l’ovvio, il giurì d’onore ha ricordato che le legittime visite di parlamentari, singoli o in delegazione, ai detenuti non vanno confuse per condivisioni di loro eventuali lotte, proteste e simili. Se qualcuno quindi di quella delegazione del Pd -sembra il sottinteso del verdetto- aveva pensato di  visitare Cospito per condividerne richieste e proteste, semplicemente aveva sbagliato. O si era esposto a legittime critiche.

In una stessa giornata, quella del 15 marzo, il Pd -sia quello della passata gestione Letta sia quello della gestione Schlein fresca d’avvio- ha subìto alla Camera due colpi a firma, diciamo, grillina. Questo della conclusione della vicenda Donzelli è solo il secondo, considerando l’appartenenza politica di Sergio Costa. Il primo è quello segnalato qui, sul Dubbio, dal buon Giacomo Puletti riferendo dell’intervento “appassionato” della nuova segretaria del Pd contro il governo, accusato di “incapacità, approssimazione e insensibilità”. Il discorso ha raccolto l’applauso del solo gruppo del Pd e della sostanziale appendice dei verdi e sinistra.”Dai banchi del Movimento 5 Stelle e terzo polo nessuno si alza, gli applausi si contano sulle dita di una mano”, ha raccontato Puletti. Così anche Maria Teresa Meli sul Corriere della Sera   e altri sui loro giornali. Eppure la povera Schlein aveva scelto come tema del primo scontro diretto con la Meloni alla Camera, nella cornice del cosiddetto “question time”, un tema carissimo ai grillini come il salario minimo. 

E’ dura evidentemente per il movimento guidato dall’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte l’idea di mettere nel conto la sola possibilità che la Schlein guidi l’opposizione dal vertice di un partito non più sorpassato nei sondaggi dai grillini, peraltro in una fase pentastellare  ridimensionata dallo stesso fondatore con gli spettacoli della serie “Io sono il peggiore”, con tanto di magliette bianche con scritta nera o nere con scritta bianca vendute al pubblico. Più che un alleato oggi all’opposizione e domani -chissà- di nuovo al governo, come fra il 2019 e il 2022, il Pd della Schlein è avvertito da Conte come “un concorrente”, o addirittura “un usurpatore”, ha scritto con realismo sulla Stampa Annalisa Cuzzocrea, smentendo impressioni e speranze altrui. 

Pubblicato sul Dubbio

Fantasie, realtà e quant’altro sui rapporti fra Giorgia Meloni e Matteo Salvini

“Sulle nomine è scontro tra la premier e Salvini”, ha annunciato Repubblica nel titolo di apertura in prima pagina, pur  relegando la notizia nel sommario, come si dice in gergo tecnico. Ad amplificarla ha provveduto il solito Fatto Quotidiano attribuendo vistosamente, sempre in prima pagina, ad una trattativa fra la Meloni e i Berlusconi -Silvio padre e Marina figlia- “il patto delle 600 nomine” in arrivo per il cosiddetto sottogoverno. Salvini quindi sarebbe escluso, o sacrificato, per quanto gli venga attribuito un boccone non secondario come quello di Leonardo, che produce di tutto nel settore della difesa, sicurezza e dintorni. 

Per rappresentare meglio la sua realtà il giornale di Travaglio ha accompagnato la notizia dell’asse privilegiato fra Meloni e la famiglia Berlusconi col solito fotomontaggio. E in un’altra parte del giornale ha raccontato così i rapporti fra la premier e il suo vice presidente leghista: “Palazzo Chigi ha deciso di annullare la conferenza stampa dopo il Consiglio dei Ministri che ha approvato anche la riforma del fisco per evitare che Salvini rovinasse “la prima volta”di oggi della premier al congresso della Cgil a Rimini”. L’avrebbe rovinata, in particolare, appropriandosi politicamente del disegno di legge alle cui sole anticipazioni il segretario del maggiore sindacato italiano ha opposto un muro altissimo cercando di portarsi appresso anche la Cisl e la Uil in una mobilitazione contro il governo.

Opposta è la rappresentazione di altri giornali dei rapporti fra la Meloni e Salvini. “Ponte sullo Stretto, passa la linea Salvini: rinasce la società”, ha annunciato La Stampa. Non parliamo poi delle foto nelle quali Salvini si è fatto riprendere con i presidenti delle regioni Calabria e Sicilia davanti al plastico del ponte sullo stretto, appunto, di Messina mentre Berlusconi cercava di rivendicare in altre sedi il merito del progetto che sembra arrivato alla realizzazione. Ma “sembra”, ripeto, perché quelli di Repubblica ed altri hanno sottolineato che il via libero dato dal Consiglio dei Ministri ha la formula per niente liberatoria del “salvo intese”. 

In piena linea invece col video del famoso karaoke di Meloni e Salvini alla festa di compleanno del secondo, al Dubbio sono convinti che sia ormai in corso una completa “salvinizazzione” della premier. Che ha evitato, per esempio, la presenza del vice leghista all’incontro con i trenta fra superstiti e familiari delle vittime della strage di Cutro, preferendo la compagnia del vice berlusconiano Antonio Tajani, ma ha rivolto agli ospiti domande di stile leghista, come quella sul tipo di informazioni e garanzie chieste o ottenute dagli scafisti sul viaggio che avrebbe portato non meno di cento persone alla morte. 

“Salvinizzazione” o “salvinite”: ecco il nome di una nuova malattia, vera o immaginaria che sia, attorno alla quale si sono messi a lavorare medici, infermieri, ricercatori e quant’altri dell’informazione politica.   

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Tra i fuochi veri di Napoli e quelli metaforici di Meloni e Schlein a Montecitorio

Tutto preso anch’io, da vecchio cronista parlamentare, a fare i conti per cercare di capire chi, fra Giorgia Meloni ed Elly Schlein, meritasse la vittoria nel confronto di sei minuti concessi dal regolamento a Montecitorio per il cosiddetto “question time”, sono stato distratto, anzi strattonato dalle immagini televisive di Napoli messa a ferro e a fuoco. E ciò per colpa di qualche centinaio di tifosi tedeschi furenti per non potere assistere ad una partita della loro squadra, e fronteggiati dalla tifoseria locale, più ancora che dalla forza pubblica. Le cui perdite in termini di mezzi incendiati sono state subito addebitate, naturalmente, al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Che ormai è diventato un bersaglio facile, direi d’ufficio, dopo essere incorso nell’infortunio di prendersela con le vittime per la strage di migranti a Cutro, pur avendo avuto l’intenzione -ha assicurato- di prendersela con i cosiddetti scafisti.

Vuoi vedere- mi sono chiesto conoscendo certi polli della polemica, aumentati e peggiorati con l’elettronica social, chiamiamola così- che ora qualcuno commenterà lo spettacolo della Napoli devastata accusando i tedeschi di avere vendicato padri e nonni in divisa nazista che fra il 27 e il 30 settembre del 1943 furono costretti da una rivolta di popolo a trattare la resa, cioè il ritiro dalla città prima che vi arrivassero le truppe alleate? Il conteggio dei morti di quelle giornate non è mai stato concorde.

Ebbene, con sollievo ho visto che lo stato emotivo e informativo del nostro Paese non è poi così drammatico come spesso si è tentati di ritenere. Quelle quattro giornate non sono state richiamate o scomodate da nessuno. Meno male. 

Ma -mi chiederete- dello scontro nell’aula di Montecitorio fra una Meloni vestita prevalentemente di nero, per giunta “cingolata” secondo il manifesto, e una Elly Schlein in giacca bianca all’esordio parlamentare di segretaria del Pd che cosa si può dire?  Chi ne è uscita meglio o peggio sul piano politico, visto che su quello personale le due antagoniste hanno pareggiato il conto salutandosi amichevolmente all’uscita dall’aula, l’una correndo verso Palazzo Chigi e l’altra verso la buvette della Camera? Direi la presidente del Consiglio: più che per il merito di quello che ha detto motivando il no al salario minimo proposto dalla nuova leader del Pd, per la prova di compattezza che ha saputo guadagnarsi con gli applausi dalla sua maggioranza. Che un giorno si e l’altro pure finisce sulle prime pagine dei giornali e nei retroscena per i suoi problemi e umori interni. La Schlein invece è stata applaudita solo dai suoi compagni di partito. La leadership dell’opposizione, pur avendo rimproverato al governo “incapacità, approssimazione e insensibilità”, non le è stata riconosciuta dai silenti e immobili grillini, presente in aula lo stesso capo Giuseppe Conte. Eppure lei aveva scelto un loro cavallo di battaglia -il salario minimo, appunto- per  scontrarsi con la premier. 

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Il falso annuncio di sfratto ai “capibastone e cacicchi” del Pd di Elly Schlein

Senza voler togliere nulla al clamore di altri  eventi  politici che dominano sulle prime pagine dei giornali -dal drone americano abbattuto o caduto nel Mar Nero in coincidenza col passaggio di qualche caccia russo allo scivolamento lamentato dell’Italia verso l’est europeo solo perché la maggioranza di centrodestra, o destra-centro, ha praticamente bocciato al Senato il diritto rivendicato dalle coppie omosessuali di iscrivere all’anagrafe i figli ottenuti con l’utero in affitto- consentitemi di sottolineare quanto poco sia durato l’avviso di sfratto a “capibastone e cacicchi” partito lanciato domenica nella nuvola di Fuksas, a Roma,  dalla nuova segretaria del Pd Elly Schlein.

Dopo qualche ora soltanto, nella stessa giornata, l’assemblea nazionale del partito  ha eletto una direzione -l’una e l’altra di numero francamente incerto fra membri elettivi e di diritto- in cui sono entrati alla grande proprio gli sfrattati o sfrattandi. 

I numeri -ripeto- sono incerti, ma cronache non smentite o rettificate di un pò tutti i giornali hanno attribuito dai 17 ai 20 posti alla corrente di Dario Franceschini, dai 12 ai 15 a quella di Nicola Zingaretti, fra i 12 e 14 ad Enrico Letta, fra i 10 e i 12 all’ex ministro della Difesa Lorenzo Guerini, considerato a torto o a ragione un amico lasciato da Matteo Renzi nel partito da lui abbandonato nel 2019, fra i 7 e gli 8 all’ex ministro Andrea Orlando, fra i 3 e i 4 all’ex ministro Giuseppe Provenzano, che in verità non risultava titolare di una corrente. E’ rappresentato in direzione pure  Vincenzo De Luca, il presidente della regione Campania, dal figlio Piero in veste di vice capogruppo uscente della Camera. Seguono altre frattaglie di correnti o sottocorrenti.

In qualche dibattito televisivo o intervista i più o meno interessati alla gestazione e al parto della nuova direzione hanno liquidato l’uscita della Schlein conto i capibastone e i cacicchi come un contributo enfatico dato e consentito al clima di entusiasmo  e di  attesa di impetuosi rivolgimenti creatosi attorno all’elezione della nuova e prima segretaria di genere del partito. Il cui naso è stato oggetto, anche vignettistico, di odiose allusioni razzistiche giustamente deplorate da tutti, ma di cui bastava e basterebbe forse lamentare solo la lunghezza pinocchiesca. Una lunghezza pari a quella della vita delle correnti e dei loro leader, o proprietari. 

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La Meloni si è confessata col Segretario di Stato della Santa Sede, il cardinale Pietro Parolin

Com’era facile prevedere, Gorgia Meloni ha profittato dell’incontro da tempo programmato col Segretario di Stato del Vaticano, il cardinale Pietro Parolin, in occasione della presentazione di un libro del direttore di Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro, sui dieci anni del Papato di Francesco per confessarsi in pubblico e in privato coll’alto prelato. Al quale, per esempio, ha assicurato di avere “la coscienza a posto” sulla strage di migranti a Cutro e su ciò che sta accadendo ancora lungo le rotte dell’immigrazione clandestina. Dove ogni omesso o ritardato soccorso in mare dei disperati dei viaggi più della morte che della speranza gestiti dai trafficanti di carne umana è accollato dagli avversari alla coscienza, appunto, della presidente del Consiglio. Che sarebbe partecipe, complice e quant’altro di un sostanziale, odioso ed elettoralistico boicottaggio all’accoglienza perseguito dai ministri dell’Interno e delle Infrastrutture: i due Mattei del governo, Piantedosi e Salvini. Dei quali, uno espostosi anche pubblicamente con qualche infelice polemica con le stesse vittime del traffico di carne umana, e l’altro sottrattosi a qualsiasi confronto od esposizione parlamentare ma vantatosi, anche davanti alla premier, di avere avuto nella sua esperienza al Viminale il minor numero di morti grazie ai cosiddetti porti chiusi. Che per un pò gli erano stati permessi dagli allora alleati grillini.

La presidente del Consiglio ha inoltre riconosciuto alla Santa Sede di trovarsi, non avendo “interessi da difendere”, nella “condizione più idonea a favore di una soluzione negoziale” della guerra della Russia all’Ucraina: più idonea degli altri mediatori reali o potenziali che si alternano nelle cronache e nei retroscena internazionali. Andiamo dal presidente turco Erdogan a quello francese Macron, dal presidente cinese appena confermato al presidente indiano col quale la Meloni peraltro si è incontrata di recente. Il Papa in persona, d’altronde, si è più volte offerto pubblicamente in prima persona per un viaggio a Mosca e a Kiev, a condizione che Putin gli lasci “una finestra”  aperta di negoziato, ricevendo dal ministro degli Esteri una lettera di indisponibilità pur momentanea. 

Non so francamente se davvero il cardinale Parolin ne abbia parlato con la premier nei colloqui che hanno preceduto e seguito la parte pubblica del loro incontro, ma mi risulta da buona fonte che in Vaticano siano rimasti un pò spiazzati dall’iniziativa assunta proprio ieri dal governo, a più voci, di mettere nel contenzioso della guerra in Ucraina anche l’improvvisamente aumentato traffico di migranti, particolarmente dalle coste africane. Dietro al quale ci sarebbe direttamente o indirettamente la Russia di Putin per destabilizzare i paesi europei, a cominciare dall’Italia, che stanno aiutando l’Ucraina a difendere la propria sovranità ed esistenza. 

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