Nel giorno peraltro di un evento internazionale come il mandato di cattura emesso dalla Corte Internazionale dell’Aja contro Putin, quanto meno ladro di bambini nella sua guerra all’Ucraina, a casa nostra si sono un pò tutti interrogati, fra giornali e salotti televisivi, chi abbia avuto più coraggio fra il segretario della Cgil Maurizio Landini e la presidente del Consiglio Giorgia Meloni: l’uno invitandola al congresso del suo sindacato, aperto da lui stesso con una relazione dura contro il governo, e l’altra accettando di andarvi interrompendo un’assenza quasi trentennale di premier, di centrodestra e di centrosinistra, da incontri di questo genere.
Di coraggio, in effetti, ne hanno avuto l’uno e l’altra. Il primo ha sfidato una dissidenza interna per fortuna contenuta nelle proteste, nelle uscite dalla sala, in qualche fischio e nel solito canto partigiano di Bella ciao, metaforicamente ricambiato dalla Meloni in una felice vignetta di Stefano Rolli sul Secolo XIX. L’altra, al di fuori di quella vignetta, ha realmente sfidato i contestatori esponendo la linea del governo sui temi del lavoro, e altro, con una nettezza riconosciuta da tutti, anche dalle testate giornalistiche più ostili alla premier più a destra di tutti quelli che l’hanno preceduta alla guida di un governo nella Repubblica, anche più del democristiano Fernando Tambroni nel lontano 1960 appoggiato dai missini. “Reazionaria, come sempre, ma coraggiosa”, ha titolato il Riformista di Piero Sansonetti, che sta per riportare nelle edicole la “sua” Unità, condiretta quando era l’organo ufficiale del Pci e delle edizioni successive.
“Meloni al congresso Cgil tira dritto”, le ha riconosciuto Repubblica. Addirittura “Meloni doma la Cgil, tana dei comunisti”, ha titolato il Giornale ormai in transito dalla piena proprietà della famiglia Berlusconi al controllo degli Angelucci, già editori di Libero e interessati anche all’acquisto della Verità fondata e diretta da Maurizio Belpietro.
Ma più che interrogarsi su chi dei due -Landini e Meloni, in ordine alfabetico- abbia avuto più coraggio, invitando e accettando l’incontro, sarebbe forse il caso di chiedersi che razza di Paese sia diventato il nostro, o che razza di democrazia si sia riusciti a realizzare in Italia 75 anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, se occorre del coraggio, appunto, per promuovere e realizzare eventi del genere. Sarebbe il caso, ripeto, di chiedersi questo e di condividere con Bertold Brecht nella vita di Galileo le famosissime parole “Beato un popolo che non ha bisogno di eroi”.
Per quanto coperto da ciò che rimane -“il carico residuale”, direbbe il prefetto e ministro dell’Interno Matteo Piantedosi- dell’articolo 68 della Costituzione, secondo il quale “i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”, il 31 gennaio scorso non si sapeva di quante cose avrebbe dovuto rispondere il giovane deputato della destra Giovanni Donzelli. Che, già colpevole di suo agli occhi degli avversari di essere collega di fiducia e di partito di Giorgia Meloni, rimasto fuori dal governo perché potesse occuparsi a tempo pieno dell’organizzazione dell’ormai prima forza politica d’Italia, aveva osato rivelare veri o presunti segreti d’ufficio, o d’altro tipo, e offendere l’onore del Pd criticandone vivacemente una visita in delegazione compiuta in carcere al detenuto anarchico Alfredo Cospito. Di cui persiste tuttora lo sciopero della fame contro l’assegnazione al carcere duro istituito con l’ormai famoso articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, riservato ai detenuti più pericolosi, o temuti, di mafia e poi anche altro, per i loro collegamenti con l’esterno.
Il fatto, appreso dal collega di partito, coinquilino e sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, che la delegazione del Pd andata a visitare Cospito avesse ritenuto di contattare anche detenuti d’altro tipo segnalati dallo stesso Cospito e interessati al successo della sua causa, aveva indotto Donzelli a interrogarsi e interrogare i colleghi parlamentari sulla posizione del partito del Nazareno di fronte alla tematica sollevata dalla protesta dell’anarchico. Lo avrei fatto modestamente anch’io nel mio campo, se informato di quelle circostanze, chiedendo al direttore di questo giornale di scriverne, anche a costo di ripetere una brutta esperienza giudiziaria, in materia di presunta violazione di segreto di Stato, già raccontata ai nostri lettori e vissuta fra il 1983 e il 1985, chiusa per intervento del governo Craxi col proscioglimento perché “il fatto non sussiste”.
Le reazioni del Pd a Donzelli, a cominciare dalla capogruppo Debora Serracchiani e dagli altri componenti della delegazione, fra i quali l’ex guardasigilli Andrea Orlando, per finire con l’allora segretario del partito Enrico Letta, furono di una forza politica e verbale tale che persino la Meloni s’impressionò chiedendo all’amico per telefono “che cazzo” -letteralmente- avesse combinato. Per loro fortuna il Pd commise anche l’autorete di chiedere un’indagine interna col ricorso al giurì d’onore, formato sotto la presidenza dall’ex ministro grillino e generale dei Carabinieri Sergio Costa, rigorosamente dell’opposizione.
Ebbene, questa commissione di onorevoli giurati, grazie al fatto di non essere magistrati ordinari, con ciò che l’esperienza ci ha insegnato a ritenere che cosa sia l’ordine di tempo e di modo nei tribunali, ha concluso in meno di 40 giorni il suo lavoro assolvendo l’imputato, diciamo così. Che è stato sentito al pari di tutti gli altri interessati alla diatriba.
Donzelli secondo il verdetto dei giurati poteva avere sbagliato, anzi aveva sbagliato di sicuro nei toni, troppo “aspri”, ma non aveva voluto disonorare i pur offesissimi esponenti del Pd esprimendo le sue opinioni e dubbi. In più, con l’aria di volere ribadire l’ovvio, il giurì d’onore ha ricordato che le legittime visite di parlamentari, singoli o in delegazione, ai detenuti non vanno confuse per condivisioni di loro eventuali lotte, proteste e simili. Se qualcuno quindi di quella delegazione del Pd -sembra il sottinteso del verdetto- aveva pensato di visitare Cospito per condividerne richieste e proteste, semplicemente aveva sbagliato. O si era esposto a legittime critiche.
In una stessa giornata, quella del 15 marzo, il Pd -sia quello della passata gestione Letta sia quello della gestione Schlein fresca d’avvio- ha subìto alla Camera due colpi a firma, diciamo, grillina. Questo della conclusione della vicenda Donzelli è solo il secondo, considerando l’appartenenza politica di Sergio Costa. Il primo è quello segnalato qui, sul Dubbio, dal buon Giacomo Puletti riferendo dell’intervento “appassionato” della nuova segretaria del Pd contro il governo, accusato di “incapacità, approssimazione e insensibilità”. Il discorso ha raccolto l’applauso del solo gruppo del Pd e della sostanziale appendice dei verdi e sinistra.”Dai banchi del Movimento 5 Stelle e terzo polo nessuno si alza, gli applausi si contano sulle dita di una mano”, ha raccontato Puletti. Così anche Maria Teresa Meli sul Corriere della Sera e altri sui loro giornali. Eppure la povera Schlein aveva scelto come tema del primo scontro diretto con la Meloni alla Camera, nella cornice del cosiddetto “question time”, un tema carissimo ai grillini come il salario minimo.
E’ dura evidentemente per il movimento guidato dall’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte l’idea di mettere nel conto la sola possibilità che la Schlein guidi l’opposizione dal vertice di un partito non più sorpassato nei sondaggi dai grillini, peraltro in una fase pentastellare ridimensionata dallo stesso fondatore con gli spettacoli della serie “Io sono il peggiore”, con tanto di magliette bianche con scritta nera o nere con scritta bianca vendute al pubblico. Più che un alleato oggi all’opposizione e domani -chissà- di nuovo al governo, come fra il 2019 e il 2022, il Pd della Schlein è avvertito da Conte come “un concorrente”, o addirittura “un usurpatore”, ha scritto con realismo sulla Stampa Annalisa Cuzzocrea, smentendo impressioni e speranze altrui.