Considerazioni un pò controcorrente sulla “guerra” all’Ungheria

La copertina del Riformista

   Pur con tutto il sostegno che merita, per carità, e che ha ricevuto Ilaria Salis, esposta in manette, guinzaglio e altro in un tribunale ungherese, sino a sottrarre la premier Giorgia Meloni al guinzaglio -pure lei-  del suo omologo di Budapest, Orban, rinfacciatole da Matteo Renzi sul suo Riformista, e a farle fare una telefonata -spero- di poco amichevole protesta;  pur con tutto questo, ripeto, mi appello alla memoria della quale abbiano da poco celebrato la Giornata, con la maiuscola. E ciò per chiedermi e chiedervi se noi italiani abbiamo tutte le carte in regola per fare di questo caso il casino in corso. E tutto -temo e ripeto- solo per rimproverare meglio e di più alla Meloni il rapporto preferenziale, di tipo “sovranista” in Europa, che avrebbe con  Orban. E che sarebbe solo malamente coperto o contraddetto da quello appena confermato a Roma, in occasione della Conferenza ItaliAfrica, fra la premier italiana e la presidente tedesca della Commissione dell’Unione Europea, Ursula von der Layen

Enzo Tortora
Enzo Carra

         Appartengono purtroppo anche alla nostra storia giudiziaria, e direi pure politica, manette, schiavettoni e simili ai polsi sbagliati o nel momento sbagliato, o entrambi. Ci siano già dimenticati, abbiamo già rimosso dai nostri ricordi le manette, gli schiavettoni e simili -ripeto- ai polsi di Enzo Tortora? Abbiamo già dimenticato  gli schiavettoni con i quali fu esposto nei corridoi e per un po’ anche nell’aula del tribunale di Milano l’ex capo ufficio stampa della Dc Enzo Carra ?

La copertina di Identità

         Non ha poi tutti i torti l’ex parlamentare della sinistra Tommaso Cerno sulla prima pagina-copertina della sua Identità a chiedersi e chiedere “Chi sta peggio” fra  Beniamino Zuncheddu, reduce da 32 anni di carcere ingiustamente patito per un delitto attribuitogli con le solite forzature di inquirenti prevenuti e riusciti a convincere le corti dei tre gradi di giudizio, e Ilaria Salis. Della quale è lecito, oltre che augurabile, prevedere che possa uscire meglio dalla sua disavventura giudiziaria e umana in terra ungherese. Dove purtroppo -nonostante la rivoluzione che nel 1956, schiacciata nel sangue dai sovietici occupanti, aveva commosso tutto il pur impotente Occidente- i nipoti hanno smentito e tradito i nonni.

Titolo del manifesto
Guerra in Ucraina

         Già, perché fra tutte le cose che ho letto e sentito contro Orban e i suoi giudici e poliziotti è mancata l’unica che a mio avviso rende tragicamente comica la situazione in cui si trova quel Paese. Che in Europa ha voluto distinguersi anche per il rapporto solidale con Putin nella guerra in corso da due anni contro l’Ucraina per “denazificarla”, dicono ancora al Cremlino, dove il fantasma di Stalin regna sovrano. In Ucraina si muore per mano russa perché sotto sotto ci sarebbero ancora troppi nazisti e in Ungheria una giovane italiana finisce in carcere e sotto processo perché in una manifestazione avrebbe sferrato qualche cazzotto e calcio -pur negato- contro idioti di dichiarate e ostentate simpatie e nostalgie naziste.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Romano Prodi manda a quel paese, o quasi, il Pd della Schlein

   Romano Prodi, ormai sulla strada degli 85 anni da compiere in agosto,  si è stancato di essere chiamato “il padre del Pd”, peraltro fondato nel 2007 da Walter Veltroni in circostanze e con finalità -la famosa “vocazione maggioritaria”- non proprio in linea col modo di governare del professore. Che era apparso “mollaccione” già nel 1998 a Massimo D’Alema nei rapporti di mediazione tra i tanti e tanto diversi alleati dell’Ulivo. Come poi avrebbe fatto dieci anni dopo con quelli dell’Unione, finendo per perdere per strada a destra Clemente Mastella. Nel 1998 invece aveva perso a sinistra Fausto Bertinotti.

   Eppure era stato proprio D’Alema nel 1995 a incoronare Prodi  in un cinema romano, con rito quasi medievale, capo dello schieramento alternativo al centrodestra portato inaspettatamente alla vittoria da Silvio Berlusconi l’anno prima.  Inaspettatamente però -ha voluto precisare Prodi in una intervista oggi al Corriere della Sera- non per lui. Che, diversamente da Achille Occhetto alla guida della “gioiosa macchina da guerra”, aveva previsto che il Cavaliere vincesse la prima partita elettorale della cosiddetta seconda Repubblica, giocata con un sistema prevalentemente maggioritario. “Ero sicuro -ha detto il professore- che avrebbe vinto lui. Ci feci anche una scommessa con un amico, un mio futuro sottosegretario. Era troppo pervasiva e forte la sua onda. Si capiva bene che avrebbe sconvolto il sistema politico”.

   Quando previde quella vittoria il professore forse non immaginava neppure che sarebbe toccato poi a lui cercare di contenere l’irruzione di Berlusconi sconfiggendolo due volte nelle urne, pur per formare poi governi della durata effimera.

         Adesso, da nonno e non da “padre” del Pd com’è tornato a chiamarlo qualche giorno fa Antonio Polito, sempre sul Corriere, Prodi ritiene di potere “somministrare affetto, non influenza e comando” sul partito finito nelle mani di Elly Schlein. Che pure uscì dal quasi anonimato nel 2013 predicando l’occupazione delle sedi del partito per protesta contro i “traditori” che in Parlamento avevano impedito l’elezione di Prodi appena candidato al Quirinale.

   Ora la “ragazza”, come pare che Prodi la chiami con gli amici, lo abbraccia ma non lo sta tanto a sentire. Non ne ha sinora accettato, per esempio, il consiglio di non candidarsi alle elezioni europee per un Parlamento dove non intende andare, preferendo rimanere alla Camera e al Nazareno che dista qualche centinaio di metri.

         Alla Schlein il professore aveva anche detto di provare a “federare” gli oppositori della Meloni, ma se costoro avessero davvero voluto farsi federare. Invece -ha avvertito Prodi- “Conte deve ancora decidere dove sta”. E questo -è il sottinteso polemico dell’osservazione del professore -la Schlein non ha neppure il coraggio di contestarlo ogni tanto all’interessato. Finendo così anche per favorirne la concorrenza a sinistra e persino un soprasso elettorale che sarebbe la fine del Pd, e non solo della sua segretaria.

A ciascuno il sogno del sorpasso nella corsa verso le elezioni di giugno

   L’impegno, la promessa del “nuovo miracolo italiano” con cui Silvio Berlusconi chiuse il famoso videomessaggio della sua discesa in campo politico ricordato in questi giorni, a trent’anni di distanza da un evento che segnò più di ogni altro il passaggio dalla cosiddetta prima alla seconda Repubblica, evocava il miracolo degli anni Sessanta. Che lui aveva vissuto giovanissimo e di cui è generalmente interpretato tuttora come film evocativo “Il sorpasso”, diretto da Dino Rosi e interpretato da Jean-Louis Trintignant e Vittorio Gassman. Un film drammatico, a dispetto di ciò che doveva o voleva rappresentare, perché dei due protagonisti amici quasi per caso, e insieme inebriati dalla voglia di vita e di benessere di quegli anni uno- Roberto- muore nell’ultimo sorpasso della trama.

         Mi ha fatto una certa impressione leggere in questi giorni dell’ambizione al sorpasso, appunto, attribuita ad Antonio Tajani alla guida di Foza Italia in vista delle elezioni europee di giugno. Un sorpasso che, compiuto all’interno del centrodestra sui leghisti di Matteo Salvini, dovrebbe riportare il partito azzurro -come Silvio Berlusconi voleva che fosse chiamato- alle due cifre, da quella unica cui era sceso con lo stesso Cavaliere. Che mi risulta non se ne desse pace, per nulla consolato dai volenterosi che gli ricordavano il peso avuto nella storia della Repubblica da partiti di quelle pur modeste, anzi ancor più modeste dimensioni: ad esempio, il partito repubblicano di Ugo La Malfa e poi di Giovanni Spadolini, il primo peraltro ad avere interrotto la serie democristiana dei presidenti del Consiglio.

  Quelli erano partiti secondo Berlusconi -a dispetto dell’ammirazione e del riguardo avuti in particolare per Spadolini, compensato con la presidenza della sua Mondadori dopo la perdita della presidenza del Senato all’avvio della cosiddetta seconda Repubblica- adatti più al “teatrino” che al teatro al quale lui pensava di avere portato la politica italiana dedicandovisi. Un teatro nel quale Eugenio Scalfari, che notoriamente non gli voleva molto bene, considerava il Cavaliere -scrivendolo ogni tanto nei suoi fluviali articoli- non il protagonista e neppure un attore ma “l’impresario”. Cioè il proprietario, il padrone per la parte spettantegli rispetto a quello derivante dalla somma col teatro degli avversari. Fra i quali ultimi lo stesso Scalfari si considerava il grande consigliere, anzi il regolo, riuscendo spesso in effetti a influenzarli, indirizzarli e quant’altro.

         Grande pertanto fu la delusione del fondatore di Repubblica quando, dopo le elezioni del 1992 e la strage di Capaci, in un Parlamento costretto dalle circostanze a mandare al Quirinale uno dei suoi due presidenti, il democristiano Oscar Luigi Scalfaro dalla Camera o il repubblicano Spadolini dal Senato, l’ormai ex Pci guidato da Achille Occhetto osò disobbedirgli. A Spadolini, che aveva già preparato il suo discorso di insediamento, tanto era sicuro dell’elezione, il Pds preferì Scalfaro. E solo perché così si liberava la presidenza di Montecitorio per Giorgio Napolitano.

         Ma torniamo ai nostri più modesti giorni. Non so quante probabilità abbia davvero Tajani di fare i suo sorpasso, pur con tutta l’esposizione che gli dà il Ministero degli Esteri in questi tempi dominati dalla politica internazionale. L’ultimo sondaggio di Alessandra Ghisleri attribuisce sulla Stampa al partito azzurro il 7.5 per cento delle intenzioni di voto, con lo 0,2 per cento in meno rispetto a quasi un mese prima, contro l’8,4 dei legihisti, tuttavia in maggiore calo, avendo perduto lo 0,6 per cento. Le distanze degli uni e degli altri dai fratelli d’Italia di Gorgia Meloni sono ormai siderali, con quel 28,5 per cento della destra proiettato ormai verso il 30.

   Neanche se lo volesse per un misto di generosità e opportunismo la Meloni sarebbe in grado nel segreto delle urne, chissà quanto frequentate peraltro in giugno, di dirottare qualche voto della coalizione di governo da sé verso Tajani. Che, ad occhio e croce, con tutte le riserve necessarie nelle valutazioni politiche, potrebbe poi crearle meno problemi di Salvini nella gestione della maggioranza.

   Di sorpasso a sinistra, nel campo opposto a quello del governo, sarebbe possibile solo quello di Giuseppe Conte sul Pd di Elly Schlein, saliti entrambi in un mese -sempre nel sondaggio della Ghisleri-  rispettivamente al 17,8 e al 19,5 per cento. Ma salendo Conte, con l’uno per cento, più della Schlein, spostatasi solo dello 0,3 per cento.  Figuriamoci se, in questa situazione, al capo delle 5 Stelle verrà mai la voglia di ridurre la concorrenza che fa al Pd sul versante del populismo per diventare davvero il capo dell’opposizione che già sente di essere. Con quali conseguenze per il Pd, per le sue tensioni interne e per la salute politica della segretaria è facile immaginare.

Pubblicato sul Dubbio

Oltre, ben oltre le racchette di Sinner e Medvedev nella lontana Australia

   So bene che non è sportivo ciò che sto per scrivere, ma lasciate che mi faccia prendere dalla deformazione della politica che racconto quasi da quando avevo ancora i calzoni corti per considerare doppia la vittoria davvero storica del nostro Jannik Sinner agli Australian Open di tennis. Nostro, perché italiano, europeo, occidentale. E perché il suo avversario battuto in una partita al cardiopalmo ha un nome che -poveretto- più non potrebbe ricordare e riproporre la tragedia della guerra in corso da quasi due anni in Ucraina. Dove un popolo rischia un genocidio per mano russa che nessuno vuole guardare, mentre tanti altri stanno scambiando per genocidio, persino in una corte di cosiddetta giustizia internazionale, quello al quale i terroristi di Hamas hanno condannato i palestinesi di Gaza. Che sono diventati i loro scudi umani, sotto i bombardamenti israeliani provocati dai terroristi col  pogrom del 7 ottobre scorso, esso sì parte di una riedizione del genocidio consumato contro gli ebrei nella seconda guerra mondiale.

         Lo sconfitto di Sinner è un russo dello sfortunatissimo, dannato nome di Medvedev, come il predecessore di Putin e ora vice presidente del Consiglio di sicurezza della federazione russa, fra i primi e i più scatenati nel sostenere la cosiddetta “operazione speciale” di presunta “denazificazione” dell’Ucraina. I due Medvedev, a guardarne le foto, non si somigliano. Probabilmente non saranno neppure  parenti. E anche se lo fossero, certamente quello con la racchetta in mano ha tutto il diritto di non essere confuso con l’altro che in mano ha soltanto il ricordo del potere lasciatogli a suo tempo da Putin e il desiderio di riaverne ancora, magari prestandosi a rovesciare il despota se dovesse essere mai tentato dalla stanchezza o dalla paura. E  rinunciare al suo disegno sterminatore oggi dell’Ucraina e domani di chissà chi, in una reincarnazione di Pietro il Grande e di Stalin.

         Questi Medvedev -mi perdoni l’incolpevole campione piegato da Sinner- non sono imbattibili, come non lo sono tutti gli altri russi che Putin continua a mandare sul fronte ucraino per sostituire i morti, o quelli che lanciano i missili della morte sulle terre altrui. Questa guerra della quale pure tanti sono stanchi in Occidente di sostenere non è né ingiusta né perduta, come quella alla qual gli israeliani sono stati costretti a tornare per difendere il loro diritto di esistere. Il Papa ci soffrirà, anche lui stanco del realismo di Sant’Agostino, ma se ne farà una ragione pure lui.  

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

La memoria mutilata della Repubblica di carta dopo le parole di Meloni sulla “vergogna nazifascista”

    Se il 27 gennaio è stato il Giorno della Memoria, con tutte le maiuscole dovute ad una ricorrenza istituita con legge in Italia nel 2000, cinque anni prima che ci seguissero le Nazioni Unite con una risoluzione dell’assemblea generale, fra le poche rispettate anche al di fuori del Palazzo di Vetro di New York, il 28 gennaio è stato il giorno degli smemorati, al minuscolo imposto dal poco edificante livello degli attori.

    Fra questi si distinguono  naturalmente quelli di Repubblica, che hanno trovato spazio ieri solo in sesta pagina per informare i lettori del “passetto” -testuale nel titolo- compiuto dalla premier Giorgia Meloni parlando della “vergogna nazifascista” -sempre testuale e nel titolo- costituita dalla Shoah.

    Eppure il giorno prima, riferendo del  discorso del Presidente della Repubblica nella ricorrenza dell’Olocausto, il giornale del Quirinale di cartone aveva sparato su tutta la prima pagina: “Fascismo radice della Shoah”. E spiegato al suo pubblico che la presidente del Consiglio e tutto il suo governo avrebbero dovuto avvertire almeno un brivido nella schiena, e un po’ di rosso in faccia, di fronte a tanta “lezione” di storia, politica e altro impartita dal capo dello Stato ricordando il contributo delle leggi razziali italiane e dei fascisti allo sterminio degli ebrei pianificato dai nazisti.

    Beh, la Meloni non ha avvertito brividi e rossori e ha detto in tutta tranquillità la sua, coincidente con quella di Sergio Mattarella. E che ti fa la Repubblica? Toglie l’argomento dalla prima pagina, dominata da un nuovo fondo del direttore di autopromozione editoriale, diciamo così, inneggiante alla libertà di informazione mai così ben difesa e rappresentata dal suo giornale dopo “l’attacco della presidente del Consiglio” in evidente, clamorosa “carenza di rispetto”. Una carenza avvertita “dalla Federazione nazionale della stampa, dall’Ordine dei giornalisti e dalla Federazione internazionale dei giornalisti”. E vià giù con la storia che comincia, secondo Molinari, con “l’attacco”, ripeto della Meoni, e non con la sua risposta all’accusa formulatale qualche giorno prima da Repubblica di “vendere l’Italia” con le privatizzazioni. Come se fosse -si è permessa di far notare o capire la premier in una intervista- un qualsiasi Jon Elkann che si vende la Fiat all’estero: non un’auto Fiat, nuova o di seconda mano, ma la Fiat tutta intera, quelle che le auto le ha fabbricate per una vita. E che la Meloni, da ingenua patriota come si ritiene, vorrebbe che continuasse a fare in Italia, anche contando sugli incentivi con la cui storia si intreccia quella della storica azienda nata a Torino.

    Su questa faccenda della Meloni nata 34 anni dopo la caduta del fascismo e 32 dopo la sua sconfitta, se ho fatto bene i conti anagrafici, ma ugualmente prigioniera della memoria sua o dei suoi amici meno giovani o più anziani; di una Meloni che con la pretesa di essere un giorno eletta a Palazzo Chigi direttamente dagli italiani, e non solo nominata dal presidente della Repubblica, o di fare eleggere chi e quando ne prenderà il posto non si rende conto di essersi messa sula strada del manganello dei dittatori del Novecento;  di una Meloni colpevole di avere una sorella e un cognato entrambi in politica; su questa faccenda, dicevo, della Meloni pericolo pubblico numero uno si stanno francamente superando i limiti anche della decenza, oltre che della ragionevolezza. Come si fece a suo tempo, del resto, con Bettino Craxi impiccato a testa in giù nelle vignette del pur buon Giorgio Forattini, e poi con Silvio Berlusconi, e un po’ anche con Matteo Renzi quando si mise in testa, pure lui, di guidare davvero e riformare questo Paese.

   E pensare che fra gli ossessionati della o dalla Meloni ci sono fior di vecchi intellettuali cosiddetti progressisti che nella cosiddetta prima Repubblica rompevano l’anima, e anche qualcosa d’altro e di più, quando dei moderati -nient’altro che moderati- scommettevano sì sulla evoluzione dei comunisti, ma senza ubriacarsi, senza volere bruciare le tappe, o i ponti alle spalle. Persino ad Aldo Moro, che ne aveva gestito la partecipazione alla maggioranza di cosiddetta solidarietà nazionale dopo le elezioni politiche anticipate del 1976, ci fu chi rimproverò, non solo nel Pci ma pure fuori, di non avere permesso sino a pochi giorni prima di essere rapito dalle brigate rosse di portare il partito di Berlinguer nel governo, magari con qualcuno eletto come indipendente nelle liste della falce e martello, consentendogli solo di negoziare l’appoggio esterno.

    In un dibattito radiofonico cui partecipavo per Il Giornale di Montanelli mi sentii dare dell’”osceno” da un intellettuale di quelli che ora contestano l’evoluzione della destra meloniana per non avere preso per buona e definitiva la famosa “sicurezza sotto l’ombrello della Nato” annunciata da Enrico Berlinguer a Giampaolo Pansa. Eppure avevo osato solo osservare che quell’annuncio avrebbe dovuto essere verificato se la Nato avesse deciso di recuperare lo svantaggio accumulato nel riarmo missilistico del patto di Varsavia. Come, guarda caso, l’Alleanza Atlantica avrebbe poi deciso di fare mentre Berlinguer, guarda caso, si ritirava spontaneamente dalla maggioranza.

    Dite pure quello che volete, signori intellettuali di una certa sinistra, ma l’evoluzione della destra meloniana non è stata sinora interrotta da nessun emulo di Armando Cossutta. Che ai tempi di Berlinguer e dell’”esaurimento della spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre”, annunciata a una tribuna politica televisiva rispondendo ad una mia domanda sulla Polonia militarizzata, corse a Perugia per contestare “lo strappo”.  

    “I suoi non la seguono”, ha titolato ieri all’interno la Repubblica dopo la “vergogna nazofascista” dell’Olocausto lamentata dalla Meloni all’unisono col presidente della Repubblica. Ma i “suoi” chi? Ne aspetto l’elenco.

Pubblicato su Libero

Smemorati di carta dopo la matrice nazifascista della Shoah riconosciuta dalla Meloni

            All’indomani della Giornata della Memoria, politicamente caratterizzata dal richiamo del capo dello Stato alla matrice non solo nazista ma anche fascista della Shoah, usato dalle opposizioni politiche e mediatiche contro il governo in carica, il più a destra nella storia della Repubblica, più di quello democristiano di Fermando Tambroni del 1960 appoggiato esternamente dai missini fra sanguinose proteste di piazza; all’indomani, dicevo, di questa Giornata della Memoria solo il minore dei giornali del gruppo Gedi, cioè degli eredi degli Agnelli, ha ritenuto di dovere titolare sulla pronta e onesta reazione di Giorgia Meloni. E’ stato Il Secolo XIX, di Genova, la città peraltro in cui in quel 1960 il Movimento Sociale volle tenere provocatoriamente il suo congresso nazionale per vantarsi del maggiore ruolo assunto nella politica italiana partecipando alla maggioranza.

   “Meloni: la Shoah fu un crimine nazifascista”, ha titolato in apertura della prima pagina il quotidiano genovese dedicando il secondo rigo alla senatrice a vita Liliana Segre e al suo ricordo dei bimbi uccisi il 7 ottobre scorso in Israele dai terroristi di Hamas. Che adesso per le reazioni provocate dal loro pogrom si sentono sfrontatamente vittime di genocidio, con la popolazione di Gaza che essi continuano a usare come scudi umani.

   Il secondo giornale degli Agnelli, la storica Stampa di Torino, ha infilato solo nel cosiddetto sommario del titolo la “malvagità nazifascista” riconosciuta dalla Meloni, come anche il Corriere della Sera che ha preferito privilegiare le “tensioni” della giornata.

   Il primo giornale del gruppo, l’ammiraglia della flotta Gedi, la Repubblica di carta un po’ concorrente di quella vera del Quirinale, ha avuto altro di cui occuparsi a scopo, diciamo così, promozionale, continuando ad arrotolarsi con un editoriale del suo direttore Maurizio Molinari nel lenzuolo della vittima di un governo che ha osato dissentire dai suoi attacchi e dalle scelte del suo editore. “In difesa della libertà di informare”, è il titolo assegnatosi da Molinari, che intanto si è dimenticato -diciamo così-di informare i lettori in prima pagina delle dichiarazioni della premier che hanno smentito la contrapposizione attribuitale nei riguardi del discorso pronunciato dal presidente della Repubblica. Un’informazione alquanto distratta, direi per non scrivere di peggio, come forse meriterebbe.

   Anche al manifesto, che di solito riesce a darsi una misura nella polemica, hanno voluto lamentare “la memoria selettiva della destra” perché “il governo -hanno stampato in rosso ignorando le parole della Meloni- celebra il 27 gennaio aggirando la condanna del fascismo”.

   La ciliegina sulla torta della sfrontatezza è stata, come al solito, quella della vignetta del Fatto Quotidiano con la Meloni a braccio teso sotto il titolo della “brutta bestia la memoria”. E’ la stampa bellezza, diceva a Casablanca Humphrey Bogart già nel 1942.

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La memoria buona di Mattarella e quella distorta dei suoi presunti fedeli

    Peggiore della memoria perduta è quella manipolata e/o strumentalizzata. Che non è naturalmente la memoria di Sergio Mattarella, che ci ha appena ricordato le guerre, gli stermini e tutte le altre nefandezze del secolo scorso prodotte da  “capi”, cioè  dittatori, avvolti nel culto tragico che li accompagnò sino alla morte.

         La memoria manipolata e/o strumentalizzata, spero al di là delle sue stesse intenzioni o vocazioni polemihe, è quella di Massimo Giannini sulla Repubblica. Che in questi giorni si è rotolata nella bandiera della libertà e dell’indipendenza del giornalismo, come la magistratura immaginata dai padri costituenti con norme purtroppo prestatesi a tutt’altro uso,  e tira fendenti contro la premier Giorgia Meloni e quanti altri nel governo, nella maggioranza e negli altri quotidiani vorrebbero intimidirla e tapparle la bocca.

         “Usciamo subito dal solito equivoco”, ha cercato di mettere le mani avanti l’editorialista di Repubblica ed ex direttore della Stampa ancora consorella, visto che corrono voci sulla tentazione degli eredi degli Agnelli di liberarsi del quotidiano fondato nel 1976 da Eugenio Scalfari. “Nessuno -ha assicurato Giannini- vuole “tirare per la giacchetta il Capo dello Stato. Ripetiamolo a beneficio della solita Stumtruppen di servi sciocchi e squadristi digitali: nessuno pensa che le camicie nere stiano per marciare su Roma. Né che l’Italia stia per scivolare nell’abisso di una dittatura nazifascista”, in cui magari il ruolo del nazista stavolta potrebbe essere assegnato all’’ungherese Orban così tanto in buoni rapporti con la Meoni.

         A dispetto tuttavia di tanto scrupolo promesso, garantito e quant’altro nei riguardi della giacca ed altri indumenti del presidente della Repubblica, che se li porta sempre così ben stirati addosso sotto gli occhi soddisfatti della figlia, Giannini ha titolato -o ha lasciato titolare-  il suo  commento in un modo che più galeotto non poteva francamente essere: “Il pericolo del premierato”.

         Siamo insomma alle solite, da quando è cominciata questa legislatura con la vittoria del centrodestra a trazione melonana e la premier ha sfoderato il disegno di legge di riforma di cinque articoli -non di più- della Costituzione per l’elezione diretta del presidente del Consiglio, a poteri dichiaratamente invariati del presidente della Repubblica eletto invece dalle Camere.  

         Da quando questo disegno di legge è approdato  per giunta al Senato, dove il presidente Ignazio La Russa esercita una vigilanza quasi paterna, pronto a fare il possibile e l’impossibile per accelerane e facilitarne il percorso, il cuore pulsante della democrazia custodito dalla Repubblica di carta soffre le pene dell’inferno. Ogni mattina da quelle parti debbono svegliarsi nell’incubo e correre alle finestre, scostare leggermente le tende e sincerarsi che per strada non stiano carri armati o fantocci, magari, in camicia nera, giusto per fare paura a chi li guarda.

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Le pretese dei giornali-partito che hanno sostituito i giornali di partito

    Per favore, non lasciatemi morire affogato, per giunta alla mia età, a 85 anni dei quali quasi 65 vissuti nei giornali, in questo oceano di bugie e di ipocrisie sulla libertà di stampa minacciata dalla guerra in corso ad alta intensità politica fra la premier Giorgia Meloni e la Repubblica di carta, o viceversa. Un oceano nel quale ho visto -ahimè- galleggiare l’altra sera in un salotto televisivo  anche il mio amico, e bravissimo giornalista prestatoci dalla storia che sa insegnare come pochi: Paolo Mieli. Che pure ha vissuto anche lui l’esperienza di un giornale-partito come Repubblica, prima di salire sull’Olimpo del Corriere della Sera, autentico o non che sia, dirigendolo per due volte. Dai, Paolo, sii buono.

         Prima dei partiti in Italia – non importa se ammazzati dalle Procure della Repubblica o suicidatisi di loro con la pratica generale del finanziamento illegale, col quale sopperire al finanziamento ipocritamente troppo modesto assegnatosi per legge- sono moti i loro giornali ufficiali. Che pure erano stati molte volte scuole autentiche di giornalismo: dall’Avanti all’Unità. Erano morti quei giornali per mano di altri che avevano deciso di fare non solo informazione e commento ma anche politica vera e propria sotto le false insegne di testate “indipendenti”. Giornali che non a caso sottraevano copie e giornalisti ai quotidiani di partito, sino ad accelerarne la fine prima ancora che cominciassero a chiudere le edicole per un progressivo numero di copie invendute, spesso sostituite da giochi e simili.

         Nel 1974 Indro Montanelli, uscitosene dal Corriere smottato per lui troppo a sinistra, sino a licenziare da un momento all’altro il suo amico direttore Giovanni Spadolini;  Montanelli, dicevo, e tutti noi che ci arruolammo con lui, dallo stesso Corriere e da altre testate, non sapevamo forse di stare realizzando un giornale-partito contro la prospettiva del cosiddetto compromesso storico fra la Dc e il Pci?  Un giornale che, dovendo rivolgersi ad un lettorato prevalentemente democristiano e anticomunista, il laicissimo Montanelli volle fare uscire solo dopo il referendum promosso contro il divorzio.  Una campagna nella quale egli non volle impegnarsi a favore della riforma passata in Parlamento, che condivideva, proprio per non compromettere i rapporti con una parte di quelli che sarebbero stati i suoi lettori. Ai quali -mi confidò in quei giorni- volle anche offrire come gesto di rispetto il matrimonio in municipio, a Cortina d’Ampezzo, dopo la sua lunga convivenza con Colette.

         La presa del Giornale di Montanelli non solo sugli elettori ma anche sui parlamentari della Democrazia Cristiana fu tale che una volta sorpresi il buon Flaminio Piccoli borbottare nei corridoi di Montecitorio contro noi del Giornale, appunto, che riuscivano a “indottrinare “i deputati del suo gruppo più di lui. Erano i tempi in cui i parlamentari democristiani dovevano praticare la tregua e la cosiddetta solidarietà nazionale col Pci dopo un turno di elezioni anticipate, nel 1976, conclusosi con quelli che Aldo Moro chiamò “due vincitori”, la Dc e il Pci:  l’una incapace di fare a meno dell’altro se non tornando ricorrentemente alle urne e riducendo sempre di  più lo spazio dei patiti intermedi. Dei quali invece i due partiti maggiori avevano bisogno per riprendere  a lavorare per maggioranze che li rendessero uno autonomo dall’altro.

         E la Repubblica portata da Eugenio Scalfari nelle edicole nel 1976, a ridosso della tregua e della solidarietà nazionale fra la Dc e il Pci, non nacque forse per contrapporsi al Giornale e sostenere quella svolta che Montanelli non vedeva l’ora di vedere finire. E sempre la Repubblica di Scalfari, nel frattempo diventata di proprietà di Carlo De Benedetti, non fu il partito dell’opposizione al ritorno dell’alleanza fra i democristiani e i socialisti con Bettino Craxi, lo sforbiciatore della barba d Marx?  

   Del governo Craxi, fra il 1983 e il 1987, non passava giorno senza che Scalfari non facesse annunciare con titoloni di prima pagina l’imminente caduta. Che alla fine giunse, per carità, ma al prezzo di un governo monocolore democristiano presieduto da Amintore Fanfani al quale gli stessi democristiani alla Camera negarono la fiducia per fornire  a Francesco Cossiga, al Qurinale, la ragione per la quale sciogliere le Camere, come reclamato a Piazza del Gesù da Ciriaco De Mita. Non ricordo in quei giorni uno straccio di costituzionalista, fra i tanti che vi collaboravano, insorto su Repubblica contro quell’operazione.

         Non parliamo poi di ciò che accadde nell’epilogo più giudiziario che politico della cosiddetta prima Repubblica. Allora i giornali-partito divennero insieme giornali-procure: tutti a inseguire l’andamento peraltro unidirezionale delle indagini sul finanziamento illegale, corruzione, concussione e quant’altro. I quotidiani si scambiavano ogni sera notizie e titoli del giorno dopo. Gli avvisi di garanzia diventavano avvisi alla gogna, le custodie cautelari anticipi di pena, i suicidi prove lodevoli di dignità, le difese degli indagati o imputati sfacciate complicità.

    La cosiddetta “discesa in campo” di Silvio Berlusconi doveva servire solo a salvarlo dal carcere che meritava per essere stato aiutato dalla vecchia politica finita più o peno in manette a fare le sue fortune di imprenditore edile e editore. Ci sono voluti trent’anni da allora e quasi uno dalla sua morte, con le ceneri ben custodite nel mausoleo di Arcore, per poter leggere anche su Repubblica che non fu uno scherzo di plastica. E che quei nove minuti scarsi di registrazione del messaggio televisivo del Cavaliere una rivoluzione nella comunicazione politica. L’inizio di un nuovo percorso su cui tutti, a destra e a sinistra, si sarebbero rincorsi sino a perdere il fiato, e a volte anche la testa.

         In uno scenario politico, mediatico, sociale del genere, nella proliferazione delle Repubbliche -prima, seconda, terza, quarta, almeno quella della omonima rete televisiva-    a Costituzione sostanzialmente invariata, salvo la riduzione dell’immuntià parlamentare, una caotica modifica del titolo quinto sulle regioni cui si sta cercando di rimediare, e un auspicio-  nulla di più- di giusto processo; in uno scenario del genere, dicevo, coi giornali-partito che ormai occupano i tre quarti dello spazio, ci scanniamo un po’ tutti a parlare della libertà di stampa conculcata, di voglie di censura, di duci, ducetti e ducette  all’assalto di questa o quella testata, come se fosse una casamatta.

         Non c’è un solo giornale-partito, con tanto di campagne avviate e condotte con titoli a caratteri di scatola, che ammetta la sua natura, e i relativi inconvenienti. Che cono quelli di darle e prenderle, diciamo così.  Qualcuno come l’apparentemente mite Maurizio Molinari, fra una consultazione e l’altra delle sue carte nautiche o geo-politiche, invoca una specie di diritto all’extraterritorialità, con la redazioni avvolta nella bandiera di ordinanza.  Non c’è un giornale-patito che ammetta la sua natura, col diritto di criticare ma anche di essere criticato. E di non nascondersi dietro le proprietà dichiarandosene sempre e comunque estraneo Come se gli editori, peraltro, avessero politicamente il sesso degli angeli, e i cosiddetti conflitti d’interesse fossero solo e sempre quelli degli altri.

         Ma chi volete prendere in giro, signori opportunisticamente scandalizzati o preoccupati? Abbiate il coraggio di essere quelli che siete e di comportarvi da uomini. Fate pure la vostra opposizione al governo o all’opposizione, fra le varie, che vi piace ancor meno del governo; mescolate pure il vero col verosimile o col falso; sostituite alla scena il retroscena di turno, magari inventato di sana pianta, e reagite alle smentite confermando tutto con l’assicurazione di averlo appreso da fonte tanto “buona” quanto indistinta. Ma per favore -direbbe persino il Papa- decidetevi a darvi finalmente una calmata, una misura. E a salvare quel poco che ancora resta della nostra vera libertà di stampa.

Pubblicato su Libero

Ripreso da http://www.startmag.it il 28 gennaio

Una Verona che potrebbe risultare fatale al Pd di Elly Schlein

         Per quanto reduce da uno scontro a Montecitorio con Giorgia Meloni sui temi della sanità che l’ha inorgoglita ,fra aula e buvette; per quanto sia riuscita a recuperare un rapporto più solidale, o meno scettico, con quelli di Repubblica, da lei difesi a manetta nella polemica con la premier decisa a non ricevere da loro  lezioni di italianità con quell’editore che hanno, con interessi ormai più fuori che dentro i confini; per quanto decisa a rimanere al suo posto di segretaria del Pd a prescindere dai risultati delle elezioni di vario livello in programma fino a giugno, ritenendo che il suo mandato congressuale sia  più lungo e sicuro di queste scomode scadenze; per quanto non abbia più film da rincorrere nelle sale cinematografiche a costo di arrivare tardi agli appuntamenti di partito; per quanto infine -e mi scuso davvero per questa lunga premessa-  potrà cercare di ridurlo ad un fatto locale, temo per lei che costerà caro ad Elly Schlein l’incidente appena accaduto a Verona. Dove il segretario provinciale Franco Bonfante, svanita la misura della sospensione dal partito minacciata a botta calda fra le proteste di Graziano Delrio, ha deposto da vice segretaria la consigliere ragionale Anna Maria Bigon.  

         La colpa di costei è di non essere uscita dall’aula del Consiglio regionale veneto, come le era stato ordinato, quando si è votata una legge per facilitare nelle unità sanitarie locali l’applicazione di una sentenza della Corte Costituzionale per l’accesso al suicidio assistito. Rimasta in aula per astenersi, la consigliera e avvocata Bigon ha determinato la bocciatura della legge di iniziativa popolare già minacciata dai contrasti esplosi fra i leghisti, divisi tra il governatore Zaia favorevole e i salviniani di stretta osservanza contrari.

         Mancata la sospensione, Delrio non ha potuto sospendersi pure lui per ritorsione o solidarietà, ma ha ugualmente criticato il declassamento della Bigon. Lo stesso ha fatto l’ex governatrice del Friuli, ex capogruppo alla Camera e ancora altro del Pd Debora Serracchiani. Proteste infine si sono levate da Pier Luigi Castagnetti, da tempo in sofferenza nel partito dove, reduce dalla Dc e dal Ppi, era confluito con la Margherita  di Francesco Rutelli pensando che le sensibilità dei cattolici, diciamo così, avrebbero ricevuto più comprensione e rispetto di quanto ne stia rimanendo man mano che procede la segreteria Schlein. Che francamente il povero Castagnetti, come altri nel frattempo già usciti dal partito, non poteva neppure prevedere quando decise di mescolarsi con ciò che restava del Pci.

         Il suicidio assistito continuerà ad essere un problema per i malati del Veneto e, più in generale, d’Italia a causa delle resistenze opposte dal Parlamento all’intervento legislativo chiestogli dalla Corte Costituzionale. Ma potrebbe diventare più facile il suicidio neppure tanto assistito di un Pd che non riesce a tenere insieme tutte le componenti delle quali velleitariamente si volle a suo tempo comporre.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Quando Sergio Marchionne propose a Mario Sechi la comunicazione della Fiat

    Nei 56 anni che sta per compiere in questi giorni, 29 più di me che collaborando con lui al Tempo mi ci affezionai un po’ come al figlio maschio non avuto, ma tanto desiderato accanto all’unica figlia felicemente riservatami dalla vita, a Mario Sechi è accaduto qualcosa di rado che vale  la pena raccontare mentre è impegnato a difendere e condividere da direttore di Libero la delusione e quant’altro procurati a Giorgia Meloni da quella che fu la Fiat degli Agnelli. Che poi Sechi prima di approdare alla direzione di Libero sia stato il capo dell’ufficio stampa della premier passando per la direzione dell’agenzia Italia, dell’Eni, è un puro caso, credetemi. Un caso del quale mi dispiace francamente che ogni tanto gli vedo contestare come una colpa in qualche salotto televisivo, come se ne dovesse ancora rispondere. O dovesse riscattarsene sbertucciando la Meloni, o comunque prendendone le distanze “almeno una volta”, lo ha recentemente supplicato il comune amico Antonio Padellaro, spalleggiato col sorriso d Lilli Gruber, se non ricordo male.

         E’ accaduto di speciale a Sechi, in particolare, di apprendere di un suo editoriale a suo tempo sull’omonimo quotidiano romano che guidava letto e condiviso davanti al Consiglio di amministrazione della Fiat da Sergio Marchionne fra la sorpresa – non dico di più per carità professionale- di parecchi colleghi giornalisti che evitarono poi di riferirne. Cosa che sospetto avesse spinto Marchionne a seguirlo ancora di più e ad apprezzarlo. Sino a chiamarlo un giorno per invitarlo a raggiungerlo di prima mattina a Torino per fare colazione insieme. Ne nacque l’offerta di  responsabile della comunicazione della Fiat. Seguì un incontro a tre con Jhon Ekann, al termine del quale un commesso, accompagnando Sechi all’auto che lo avrebbe riportato in aeroporto, si spinse a dirgli “Arrivederci”, con l’esperienza che si era fatto delle persone in visita da quelle parti.

         La cosa invece finì lì. Il seguito, ve lo confesso, cioè il motivo della mancata nomina non lo conosco davvero per avere sempre avuto il pudore di non chiederlo a Sechi. Se avesse voluto, avrebbe potuto raccontarmelo lui. Se non me lo ha raccontato, avrà avuto le sue buone ragioni, che neppure da padre immaginario oserei chiedergli tuttora, pur avendo ogni tanto avuto occasione di sentirci, anche nel giorno dell’insediamento alla direzione di Libero. Dove però lo leggo in questi giorni- a proposito della polemica scoppiata fra la Meloni e Repubblica, un po’ come a tempi della Repubblica di Carlo De Benedetti con Silvio Berlusconi e, prima ancora, con Bettino Craxi- finendo sempre con la memoria a quella scintilla scoppiata fra lui e Marchionne. E spenta -temo- da Jhon Elkann, il nipote del mitico Gianni Agnelli, “l’avvocato” di cui il compianto Gianfranco Piazzesi si lamentava con me delle telefonate che riceveva di prima mattina per soddisfare la sua curiosità. E io, di rimando, mi lamentavo di quelle di Sandro Pertini, che una volta mi buttò giù dal letto per coinvolgermi emotivamente nella colpa che si dava di non avere fatto o fatto fare tutto il possibile, sul posto della tragedia, per salvare dalla morte il bambino caduto in un pozzo a Roma. Era il povero Alfredino Rampi.

         “Da una parte -ha scritto Sechi non più tardi di ieri, sempre a proposito della guerra dichiarata dalla Meloni alla Repubblica degli eredi Agnelli  o viceversa, come preferite- c’è una leadership politica che sottolinea la simbologia del produrre in Italia, dall’altra un gruppo che ha la testa smarrita in Francia. L’evento traumatico anticipatore di quello che sarebbe accaduto arriva nel 2018 con la morte di Sergio Marchionne. Un momento tragico non solo per il settore dell’auto, perché la sua scomparsa è stata uno shock che oggi è visibile nell’assenza di un punto di riferimento per l’intera industria italiana, la sua economia trasformatrice, la manifattura d’alta gamma. Non poteva esserci un successore. E non c’è stato”.

         “Sergio Marchonne -ha continuato a incidere Sechi su Jhon Elkann e sul franco-portoghese Carlos Antunes Tavares Dias, amministratore delegato di Stellantis- non era solo un manager geniale, era prima di tutto un patriota, Lo feriva essere chiamato “il manager canadese”, anzi lo faceva “incazzare” per dirla con le sue parole (anche questo abbiamo visto, cercare di strappare a una persona la sua bandiera). Era un duro negoziatore, un punto di riferimento, un uomo ricco di cultura e capacità di visione. Che è oggi l’interlocutore?…..Non si sa. Tutto è sospeso a mezz’aria. Quelli che fanno finta di saperla lunga liquidano queste domande con la frase “è solo un problema di comunicazione”. No, è un tema che in realtà riguarda la qualità della leadership dell’industria dell’auto nel nostro Paese”.

         E’ difficile dare torto, francamente, al mio mancato figlio maschio. E riconoscersi nel nipote per niente mancato del pur mitico avvocato che tanti in Italia imitavano mettendosi l’orologio sul polso della camicia, o ne sistemavano una foto sul comodino, come fece per un certo tempo persino Silvio Berlusconi. Altri tempi, altri uomini, altri gusti.

Pubblicato sul Dubbio

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