La situazione della maggioranza giallorossa tra spifferi e temporali

             Ce n’è per tutti i gusti leggendo le cronache e i commenti sulla preparazione della cosiddetta legge Corriere.jpgdi stabilità, anche su uno stesso giornale. Il Corriere della Sera, per esempio, riferisce in prima pagina dei “primi screzi nella maggioranza sulla possibile rimodulazione dell’Iva” e sul voto contrario già minacciato dal nuovo partito di Matteo Renzi, che quanto meno al Senato dispone dell’azione Mieli.jpgd’oro del governo giallorosso. E nella colonna a fianco, con l’editoriale dell’ex direttore Paolo Mieli, il quotidiano milanese di via Solferino già ridimensiona tutto a “qualche scaramuccia”, utile a “rendere il clima più frizzante”, come l’acqua che probabilmente hanno bevuto i partecipanti al vertice notturno che Giuseppe Conte ha dovuto convocare e presiedere in vista del Consiglio dei Ministri.

            Sarà pure “frizzante” il clima avvertito da Mieli, sarà pure brillante e sarcastico il rimprovero fatto dal nuovo ministro dell’Economia Roberto Gualtieri all’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini di aver lasciato al governo “il conto del Papeete” da pagare, che sarebbe appunto un intervento sull’Iva, ma certo è che Matteo Renzi in persona ha avvertito, in una lunga Renzi e Iva.jpgintervista al direttore del Foglio, che “l’aumento selettivo dell’Iva Renzi su ricchi.jpgsarebbe una presa per il naso selettiva”, cui il suo partito non si presterebbe, neppure per far “piangere i ricchi”, secondo una vecchia formula della sinistra. “Il mio obiettivo -ha avvertito l’ex segretario del Pd, ex presidente del Consiglio, il non più “semplice senatore di Scandicci” ma fondatore di Italia Viva e socio quindi autonomo e decisivo della maggioranza- non è la punizione sociale per chi sta bene ma aiutare chi sta peggio”.

            Stupisce, a dire il vero che della lunga, anzi lunghissima intervista ottenuta da Renzi, pur titolata in prima Renzi al Foglio.jpgpagina “Manifesto per un governo vivo”, il direttore del Foglio Claudio Cerasa abbia scritto come di “un’ora di chiacchiere”. Alle quali non possono obiettivamente essere declassate le parole spese dall’intervistato per ribadire le ragioni della sua uscita dal Pd, rivendicare orgogliosamente la sua azione di governo, fra il 2014 e il 2016, descrivere non meno orgogliosamente l’ambizioso Renzi e dimensioni Italia Viva.jpgprogetto del partito “a due cifre” che ha in mente di ispirare e guidare e puntualizzare infine alcuni limiti delle improvvise aperture da lui fatte ai grillini: aperture, peraltro, nel momento non della loro maggiore forza, come sarebbe avvenuto l’anno passato, ma della loro maggiore debolezza, dopo la scoppola elettorale del 26 maggio scorso, nel rinnovo del Parlamento europeo.

            I limiti posti da Renzi, in chiave allusivamente polemica con quanti nel Pd si sono già spinti oltre nella gestione dell’intesa con i pentastellati, risultano in tutta evidenza da questo passaggio, in particolare, dell’intervista: “ Non abbiamo fatto questo governo per diventare alleati in pianta Renzi e Casaleggio.jpgstabile di Casaleggio, sia chiaro. Salvare il paese è un dovere, salvare la Rousseau no. Alla fine di questa legislatura torneremo liberi e felici competitor…..Lavoriamo  insieme al governo fino al 2023. Poi ognuno per la propria strada. Una bella stretta di mano e via, non un abbraccio per sempre”. Ciò significa il rifiuto dell’esperienza attuale, come sembra invece desiderare e sognare, per esempio, Dario Franceschini nel Pd, come l’antipasto di un bipolarismo costituito da Pd e grillini da una parte e centrodestra, o come diavolo esso vorrà o potrà chiamarsi alla fine delle ristrutturazioni in corso, dall’altra.

            La stessa scadenza del 2023 indicata da Renzi, alla fine cioè della durata ordinaria delle Camere elette il 4 marzo del 2018, risulta ridimensionata in un altro passaggio significativo della sua intervista al Foglio. E’ quello nel quale egli ha tradotto l’intesa agostana di governo con i grilliniRenzi dixit.jpg in “un anno di tempo” strappato all’Europa rientrandovi dopo la marginalizzazione praticata e vissuta per effetto del peso di Salvini durante il primo governo di Giuseppe Conte. Questo “anno di tempo”, terminato il quale si potranno valutare i risultati dell’operazione, scadrà ben prima della fine ordinaria della legislatura. E prima anche del passaggio istituzionale del 2022, quando scadrà il mandato di Sergio Mattarella e dovrà essere eletto il suo successore al Quirinale, o potrà essere confermato il presidente uscente, come ha auspicato di recente il capo del governo Giuseppe Conte, non certamente un passante a Piazza Colonna o alla adiacente Galleria felicemente dedicata alla memoria di Alberto Sordi.

 

 

 

 

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L’insolita indifferenza dopo la rielezione di Mattarella auspicata da Conte

            A pensarci bene, vista anche la dose ormai abituale di tossicità del dibattito politico, densissimo di attacchi diretti e di allusioni, è sorprendente che -salvo due casi, che vedremo- sia passata inosservata, quasi come una banalità, l’apertura esplicita del presidente del Consiglio Giuseppe Conte all’ipotesi di una rielezione di Sergio Mattarella fra quasi due anni e mezzo, quando scadrà il suo mandato di presidente della Repubblica. “Se fosse disponibile, gli La Stampa.jpgriconosco tutte le qualità”, ha detto Conte apprezzandone, in particolare, la “saggezza, l’equilibrio e la semplicità”. E’ “anche alla mano”, ha assicurato il capo del governo con l’esperienza maturata in più di un anno e mezzo di frequentazione diretta. Anche dal Colle è giunto un silenzio totale, almeno in pubblico, non so se più compiaciuto o imbarazzato, che tuttavia ha probabilmente aiutato il quirinalista della Stampa Ugo Magri a ritenere che dietro “la sviolinatura” del presidente del Consiglio “nulla induce a sospettare un piano di rielezione” di Mattarella.

            Assai meno prudentemente ha invece intravisto un piano del genere Carlo Cambi sulla Verità di Maurizio Belpietro, inserendo nelle “manovre per il Quirinale” l’ ipotesi di un Mattarella dimissionario se il governo la Verità.jpgdovesse vacillare, in modo da farsi rieleggere da questo Parlamento prima di vedersi costretto da una crisi a scioglierlo. Ma francamente viene fuori da una simile congettura un Mattarella troppo cinico o spregiudicato, almeno per i miei gusti e per l’idea che ho maturato di lui.

             A Conte non è passato evidentemente neppure per la testa il sospetto o, peggio, la paura di introdurre nell’agenda politica una scadenza istituzionale non così vicina ma pur sempre importante, aprendo di fatto -si sarebbe detto in altri tempi- con largo anticipo quella che si è sempre chiamata “la corsa al Quirinale”.

            Tanto meno il presidente del Consiglio è stato trattenuto, parlando di questo argomento in una intervista come di un inciso, dal fatto che durante la crisi agostana di governo fra le ragioni pubblicamente addotte contro le elezioni anticipate reclamate dal leader leghista fosse stata invocata la necessità di impedire che ad eleggere il successore di Mattarella fosse un Parlamento a larga maggioranza di centrodestra, come sembrava scontato che avvenisse se si fossero sciolte, appunto, le Camere attuali. “Salvini ha in mente di liberarsi di Berlusconi mandandolo addirittura al Quirinale”, si mormorò nei palazzi romani del potere, o dell’intrigo, tanto cari ad una certa letteratura alla quale si sono formati i grillini prima di entrarvi pure loro.

            Non solo si era invocata la necessità di prevenire una simile evenienza, ma nella frenesia qualche volta persino scomposta delle trattative dei pentastellati col Pd ancora comprensivo di Matteo Renzi e, più in generale, con la sinistra, vista la partecipazione dei “liberi e uguali” di Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema, aveva fatto capolino fra gli oppositori il sospetto, poco riguardoso verso il presidente della Repubblica, che gli artefici della nuova maggioranza avessero cercato di guadagnarsi l’appoggio del capo dello Stato proponendogli o adombrandogli la rielezione.

            Quando Romano Prodi intervenne nel dibattito mediatico sposando la causa della maggioranza giallorossa, sino a proporne il nome italianizzato -Orsola- della presidente della Commissione dell’Unione Ursula von der Leyen, appena eletta dal Parlamento Europea con un analogo Prodi.jpgschieramento, allargato in verità a Silvio Berlusconi nell’assemblea di Strasburgo, ci fu subito chi ne interpretò la sortita come ritorno in campo proprio per il Quirinale. Dove il professore emiliano Grillo.jpgsarebbe stato sicuramente eletto nel 2013, alla scadenza del primo mandato presidenziale di Giorgio Napolitano, se Stefano Rodotà si fosse lasciato convincere da Rodotà.jpgBeppe Grillo a rinunciare alla propria candidatura. Ma Rodotà, che i grillini avevano preso l’abitudine di applaudire nelle piazze ritmando le finali del suo nome,  non volle neppure sentirne parlare. E lo stallo portò alla rielezione del presidente uscente.

            Di tutto questo nessuno si è ricordato o ha voluto ricordare, né sopra nè sotto né tra le righe, nel momento in cui il presidente del Consiglio a sorpresa ha parlato in questo autunno appena iniziato della non imminente e neppure vicina -ripeto- scadenza istituzionale del 2022. Segno di distrazione dell’opposizione, particolarmente di quella leghista, vista la scarsa popolarità di Mattarella fra i militanti del Carroccio, come si è visto di recente sui prati di Pontida ? Segno di imbarazzo tra le file della maggioranza giallorossa, magari nella consapevolezza di più ambizioni da conciliare, maturate o maturande? O, infine, a parte la fantasia della Verità di Belpietro,  è segno di svolta signorile, diciamo così, nel dibattito o confronto politico, dopo tanto becerume sparso a piene mani da tempo immemorabile, attribuendo ad avversari o semplici concorrenti le peggiori nefandezze, con o senza il soccorso delle cronache giudiziarie? Se fosse vera questa svolta, politica e mediatica, sarebbe molto bello. Ma chi ci crederebbe, onestamente?

 

 

 

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Messaggio di Casaleggio dagli Usa: Di Maio è saldo al suo posto…

             Beh, questa volta sarà difficile ai vertici grillini, più o meno “elevati” che siano, per stare a una definizione dello stesso Beppe Grillo, il fondatore, animatore, rigeneratore e quant’altro, allontanare quanto meno il sospetto di una gestione, diciamo così, anomala di un movimento come quello delle 5 stelle. Attorno al quale ruotano, per la forza parlamentare conquistata nelle elezioni politiche dell’anno scorso, gli equilibri politici del Paese, come una volta accadeva per la Democrazia Cristiana. Alla cui “centralità”, come la definì nel 1972 l’allora segretario Arnaldo Forlani, esso è sorprendentemente subentrato conservandola anche a conclusione della crisi agostana di governo, una volta sconfitta la linea delle elezioni anticipate sostenuta inizialmente sia dalla Lega di Matteo Salvini, con i cespugli ormai di quello che ancora si chiama centrodestra, sia dal Pd di Nicola Zingaretti. Che poi, come Paolo sulla via di Damasco, avrebbe avuto la conversione.

             Ormai di casa, diciamo così, al Corriere della Sera, che ha ospitato di recente un suo articolo, Davide Corriere.jpgCasaleggio vi si è lasciato intervistare telefonicamente dagli Stati Uniti. Dove ha un po’ dato il cambio, diciamo così,  all’amico ministro degli Esteri e capo ancòra del movimento griillino Luigi Di Maio, che ne è appena partito per tornare alla Farnesina e lì incontrare ministri e sottosegretari pentastellati, giusto per dispiacere al presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Che dopo un incontro analogo aveva raccomandato con pubbliche dichiarazioni di non fare uso, o di farne uno parco, delle sedi istituzionali, dove le riunioni di partito, di corrente e quant’altro stonano un po’.

              Casaleggio si trova negli Stati Uniti per partecipare, fra l’altro, ad un “evento” organizzato dal governo italiano nella sede delle Nazioni Unite dal titolo tutto inglese di “Digital Citizenship: Crucial Steps Towards Universal and Sustaineble Society”. Egli vi partecipa -ha precisato- “a sue spese” e come presidente dell’”Associazione Rousseau”, sulla cui piattaforma digitale si svolgono per il movimento grillino quelle che per gli altri partiti sono le riunioni delle direzioni, dei comitati centrali o simili, i congressi e quant’altro.

              Ad un certo punto, com’era naturale che avvenisse, messa da parte la qualità di “professionista e rappresentante della società civile” più generalmemte rivendicata da Casaleggio,Casaleggio 1 .jpg l’intervistatore lo ha interrogato sulle vicende interne al movimento. Dove le tensioni certamente non mancano, dopo il repentino cambio di alleati al governo, come anche i problemi di Di Maio. Che è ormai talmente Casaleggio 2 .jpgpreoccupato, sorpreso, scandalizzato e quant’altro da quello che ha appena definito “il mercato delle vacche” parlando dei grillini passati o tentati di passare ad altri partiti, da avere posto sul tappeto del dibattito politico, e dei rapporti con i suoi nuovi alleati, il cosiddetto vincolo di mandato dei parlamentari: l’opposto di quanto oggi stabilisca la Costituzione e sia in un uso nella quasi totalità dei Paesi democratici. Multe ed espulsioni dalla Camera di appartenenza, o qualcosa del genere: questo dovrebbe essere il destino dei dissidenti dalle decisioni di turno dei vertici del partito nelle cui liste sono stati eletti. 

            Casaleggio non ha avuto un attimo o una parola di esitazione. Senza timore di allungare un’ombra, almeno, di sospetto sul rischio che qualcuno possa dubitare dell’esito scontato dei referendum digitali in arrivo per risolvere le controversie nel movimento, egli ha praticamente detto che Di Maio è e rimarrà saldamente al suo posto di capo, affiancato presto da “un team del futuro”. Così il presidente dell’”Associazione Rousseau” ha voluto definire il collegio dei 12 esponenti che dovrebbe consentire al ministro degli Esteri di aggiungere l’aggettivo “collegiale” alla sua gestione. Dodici, come si sa, erano anche gli apostoli di Gesù, compreso Giuda naturalmente.

            Tutto è ormai scritto e scontato nell’organizzazione del movimento-partito di maggioranza relativa attorno al quale ruota la democrazia italiana. Rispetto alle elezioni e votazioni tradizionali, le consultazioni digitali hanno questo di buono: limitano le sorprese al minimo, o al massimo, come preferite.  

 

 

 

 

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Se 345 seggi parlamentari in meno servono a risparmiare lo 0,007% della spesa pubblica

Non potete immaginare il fastidio politico, culturale e persino fisico che mi procurano quei 500 milioni di euro, cioè mezzo miliardo di euro, di presunti risparmi in un quinquennio, pari a cento milioni l’anno, che i grillini sventolano come una bandiera ogni volta che parlano davanti a telecamere e microfoni della “storica” riduzione del numero dei parlamentari, di cui stanno per ottenere l’approvazione definitiva alla Camera.  E ciò “alla faccia di Matteo Salvini”, ha detto qualche giorno fa a New York il ministro degli Esteri e capo, ancòra, del Movimento 5 Stelle Luigi Di Maio.

In verità, la Lega di Salvini ha approvato in tutti i precedenti passaggi la riforma costituzionale che riduce di 345 parlamentari le Camere. E l’approverà anche nell’ultimo, già programmato a Montecitorio per il 7 e 8 ottobre, stavolta insieme anche alla sinistra una volta contraria. Non si capisce, quindi, quella espressione polemica di Di Maio, che può rimproverare a Salvini solo un peccato veniale, dopo quelli mortali di tradimento e attentato alla democrazia contestati per la crisi del governo gialloverde provocata in agosto perseguendo le elezioni anticipate. Che possono non piacere, per carità, specie quando si ha paura di perderle, ma non mi sembrano, francamente, assimilabili a un reato.

In Italia abbiamo avuto ben due scioglimenti anticipati delle Camere, nel 1972 e nel 1987, solo per il convergente interesse dei due partiti  allora maggiori e contrapposti -la Dc e il Pci- di rinviare referendum abrogativi di leggi ordinarie ma da entrambi ritenuti troppo scomodi perché “divisivi” dei loro elettorati. Nel 1972 si trattò del referendum sul divorzio, rinviato di ben due anni per effetto delle sopraggiunte elezioni politiche, e nel 1987 dei referendum contro la produzione di energia elettrica e le norme che impedivano ai magistrati di rispondere civilmente dei loro errori. Per questi ultimi referendum Dc e Pci si accontentarono di un rinvio di soli sei mesi perché, in realtà, c’era sotto quelle due prove un’altra ragione ancora più profonda che li univa: la necessità di liquidare il primo governo a conduzione socialista nella storia della Repubblica. Esso era stato realizzato da Bettino Craxi quattro anni prima con un accordo al quale l’allora segretario della Dc Ciriaco De Mita era stato costretto dall’arretramento elettorale seguito al suo avvento al vertice dello scudo crociato.

Allora era Craxi l’uomo che faceva paura. Ora è Salvini, imprudentemente scivolato -va detto- su quei “pieni poteri” reclamati prendendo forse troppo sole sulle spiagge. E’ lui l’Annibale alle porte ricordato con fine umorismo storico da Marco Follini per spiegare, condividendole solo in parte, e temendo gli abusi cui potrebbero prestarsi, la fretta, la disinvoltura e qualcosa ancor d’altro che hanno avuto grillini e sinistra di allearsi dopo essersene dette e date di tutti i colori, a Roma e in periferia.

A Salvini l’ex collega di governo Di Maio non perdona la perfidia di quell’offerta fatta, a crisi ormai avviata, di approvare la tanto ambita riduzione del numero dei parlamentari rinviandone però l’applicazione di cinque anni, cioè alla legislatura successiva a quella che avrebbe dovuto nascere dalle elezioni anticipate. Adesso invece il Pd, l’Italia Viva di Renzi e i “liberi e uguali” di Massimo D’Alema, Pier Luigi Bersani e compagni consentono ai grillini di portare a casa la riforma per applicarla già la prossima volta. Che però, curiosamente, sarà forse la stessa data alla quale pensava Salvini: il 2023, quando cioè sarà rinnovato l’attuale Parlamento appena scampato allo scioglimento prima della scadenza ordinaria.

Gli accordi di governo del Conte 2 -o Bisconte, come lo chiamano al Foglio– prevedono la riduzione del numero dei parlamentari compensata tuttavia da una riforma della legge elettorale -si vedrà in quale misura proporzionale- e dei regolamenti parlamentari. Ma, a governo insediato e fiduciato dal Parlamento, Di Maio ha chiesto e ottenuto una procedura diversa. Ha chiesto e ottenuto, cioè, di incassare subito l’approvazione definitiva della riduzione del numero dei parlamentari, cui seguirà il resto, se seguirà.

Si sta insomma ripetendo per la composizione delle Camere la vicenda vissuta dai leghisti, nel rapporto con i grillini, dell’abolizione della prescrizione. Che fu introdotta come una supposta nella cosiddetta legge spazzacorrotti a cominciare dall’anno prossimo, con l’intesa solo verbale di farla precedere in tempo dalla riforma del processo penale, per dargli termini e modalità tali da evitare che un imputato possa rimanere tale a vita. Siamo ormai a tre mesi dal nuovo anno e di questa riforma non si ha certezza. La fine del conteggio della prescrizione  con la sentenza di primo grado rimane invece scritta nel codice.

Dicevo, all’inizio, del fastidio politico, culturale e persino fisico procuratomi dal risparmio proclamato dai grillini per vantarsi del taglio di 345 fra deputati e senatori.  Dovrebbero essere ben altre, e più nobili, a cominciare da una maggiore funzionalità delle assemblee legislative, le finalità di una riforma del genere, che finisce così sommersa  da una demagogia persino sfrontata se paragoniamo i cento milioni di euro l’anno di presunto risparmio agli 850 miliardi di spesa pubblica e facciamo i conti. Via, il Parlamento avrebbe meritato e meriterebbe più rispetto, specie se si considera che un economista non certo fra i minori come Carlo Cottarelli ha calcolato i risparmi in soli 57 milioni di euro l’anno, pari allo 0,007 per cento della spesa pubblica.

I grillini non se ne rendono forse conto, presi come sono dai loro tormenti, a dir poco, interni non abbastanza frenati dalla pratica digitale della democrazia. Ma è come se avessero giustificato nelle scorse settimane il loro no alle elezioni anticipate con la necessità di risparmiare i 400 milioni di euro che sarebbero costate alle casse dello Stato, ripartiti fra i bilanci dei Ministeri dell’Interno, della Giustizia e degli Esteri.

 

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

Continua la figuraccia del Parlamento sul suicidio assistito

            Purtroppo la figuraccia del Parlamento con la Corte Costituzionale e, più in generale, col Paese sul suicidio assistito non è finita con la decisione che hanno dovuto prendere i giudici del Palazzo della Consulta, dopo un anno di inutile attesa che sulla questione provvedessero le Camere riformando l’articolo 580 del vecchio codice penale, come espressamente richiesto appunto dalla stessa Corte.

            La figuraccia continua con la contesa, di cui sono piene le cronache di tutti i giornali definendola nei modi più diversi, fra i presidenti delle Camere – Maria Elisabetta Casellati Alberti al Senato e Roberto Fico a Montecitorio- su quale dei  due rami del Parlamento abbia la precedenza sull’altro  per occuparsi di quel che resta della materia dopo il pronunciamento della Consulta.jpgCorte Costituzionale.  E quel che resta non è certamente poco, anche se i giudici hanno cercato di facilitare il compito ai legislatori elencando una serie di condizioni e principi cui attenersi per non varare una norma destinata, magari, a tornare al loro esame, come la vecchia, su iniziativa di qualche tribunale incapace di applicarla.

            Alla Camera non vogliono dare la precedenza al Senato perché non intendono buttare -dicono- le cinquanta e forse anche più audizioni in commissione con cui hanno riempito il tempo a disposizione per rispondere alla chiamata della Corte dirimpettaia del Quirinale.

            Al Senato non vogliono perdere la precedenza acquisita -dicono- con quel materiale d’archivio, e nulla di più purtroppo, di cui la presidente in persona ha tenuto a informare personalmente per telefono il presidente della Corte con l’aria, pur smentita ufficialmente, di chiedere un supplemento di tempo, magari con l’aggiornamento dell’udienza fissata nel Palazzo della Consulta per riprendere la discussione, deliberare e finalmente sbloccare il processo milanese in Corte d’Assise al radicale Marco Cappato. Che nel 2017 fa aiutò a morire, con un suicidio assistito in terra svizzera, il povero Fabio Antoniani, stanco di vivere penosamente da tre anni nella cecità e paralisi totale procuratagli da un incidente stradale.

            Lo spettacolo di un Parlamento rivelatosi incapace di rispondere ad una chiamata della Corte Costituzionale, e alle attese della collettività nazionale, e di trovare poi con una semplice e breve telefonata fra i presidenti delle due Camere un accordo almeno su chi delle due debba cominciare, o ricominciare, ad occuparsene dopo il pronunciamento per forza di cose limitato dei giudici della Consulta, stride col buon senso, a dir poco. Non sarebbe forse male se il presidente della Repubblica si facesse promotore di un intervento per sbloccare la situazione, come del resto hanno fatto i suoi predecessori per fatti anche meno clamorosi di questo.

            Una parola infine va spesa per e sul governo, che ha ritenuto e ritiene di doversene stare alla finestra, rimettendosi alle valutazioni, naturalmente discordi, dei partiti che lo compongono e dei rispettivi gruppi parlamentari, cresciuti nel frattempo di numero con la scissione del Pd e la nascita della renziana Italia Viva. Mi chiedo se il presidente del Consiglio, pur avvocato civilista e non penalista, ma uomo provvisto di carne e ossa, di cuore e di cervello,  e docente universitario di diritto, possa accontentarsi di assistere inerme a questo spettacolo.

 

 

 

 

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Quell’incredibile figuraccia del Parlamento sul suicidio assistito

             Già logorata nell’immagine dalla pur lecita soluzione data alla crisi di governo dal presidente della Repubblica con la formazione di un esecutivo motivato dalla paura di una vittoria leghista nelle elezioni anticipate rivendicate da Matteo Salvini liquidando la maggioranza gialloverde improvvisata l’anno scorso, questa diciottesima legislatura ha perduto altra credibilità con la decisione che la Corte Costituzionale ha dovuto prendere nella delicatissima materia del suicidio assistito. Che ora non sarà più punibile di fronte a una “patologia Repubblica.jpgirreversibile” e alla consapevole Il Foglio.jpgdeterminazione del paziente di sottrarvisi. “Più liberi di morire con dignità”, ha giustamente titolato su tutta la prima pagina la Repubblica. “Consulta eutanasica”, ha titolato in piccolo, parlando di “sconfitta della solidarietà umana”, Il Foglio di Giuliano Ferrara in versione molto eminente, quasi cardinalizia.

              Consapevoli della posta in gioco sotto il profilo politico, sociale ed etico -e investiti della Fabiano Antonioni.jpgquestione di legittimità dell’articolo 580 del codice penale sollevata dal tribunale dove è sotto processo il radicale Marco Consulta 3 .jpgCappato per l’assistenza fornita nel 2017, tra Italia e Svizzera, alla morte volontaria del tetraplegico Fabiano Antonioni- i giudici del Palazzo della Consulta avevano passato la parola al Parlamento l’anno scorso dandogli undici mesi per legiferare.

             Ciò era accaduto in ottobre, a legislatura ormai decollata, a crisi di governo risolta e ad esecutivo ben in carica, che un giorno sì e l’altro pure esibiva muscoli e quant’altro, sfidava mezzo mondo e si proponeva di durare cinque anni. Ricordate?  Vorranno pur trovare il tempo questi signori -si erano evidentemente detti i giudici della Corte Costituzionale- per occuparsi anche di questo problema e assumersi le loro responsabilità di governanti e di  legislatori, da soli o preferibilmente in concorso con le opposizioni, trattandosi di vita e di morte di sventurati ridotti in condizioni disperate. Ed essendo evidente -avevano aggiunto i giudici, stavolta ad alta voce, perché tutti sentissero bene- che le disposizioni in vigore non erano più adatte a regolare la materia, con tutti i nuovi mezzi di cui ora dispone la scienza per valutare le condizioni di un paziente.

              Niente da fare. Né i demiurghi gialloverdi del “governo del cambiamento” allestito facendo credere agli italiani che nulla, appunto, sarebbe rimasto come prima hanno mai trovato il tempo, la voglia e quant’altro di occuparsi del lascito della Corte Costituzionale, forse infastiditi addirittura del suo rispetto per le prerogative del Parlamento. Né i demiurghi che li hanno sostituiti qualche settimana fa, quelli cioè subentrati al governo e nella maggioranza ai leghisti, hanno ritenuto di occuparsene nelle trattative con i grillini sul programma, tutti presi dalla paura dichiarata di andare alle elezioni anticipate e di essere fatti a fettine da quel presunto macellaio travestito per 14 lunghi, interminabili mesi da ministro dell’interno, agente di Polizia, vigile del fuoco ed altro ancora, secondo le felpe e magliette di giornata.

             Ad un certo punto la povera presidente del Senato, ingenua di una donna, ha avuto l’idea di fare una telefonata Consulta 2.jpgal presidente della Corte Costituzionale per “informarlo” dei disegni di legge giacenti sulla materia del suicidio assistito, e derivati, e del loro stato procedurale, come per chiedere molto tra le righe un altro po’ di pazienza ai giudici. Non l’avesse mai fatto, la povera Maria Elisabetta Casellati Alberti. Si sono rovesciati su di lei dubbi, moniti e persino qualche insolenza. E il Parlamento è rimasto così nudo, solo davanti alle sue insufficienze, e la legislatura davanti alla sua insolvenza: una pagina decisamente brutta per l’uno e per l’altra. Ma, in fondo, anche per la Corte Costituzionale, illusasi l’anno scorso di poter fare affidamento sull’uno e sull’altra, appunto.

             Tenetevi stretta la vostra sartoria, signori giudici della Consulta. Usate forbici e persino ago e filo, con i vostri ragionamenti e moniti sulle condizioni necessarie per evitare abusi,  senza riguardo alcuno per i palazzi che vi circondano, perché  il riguardo si tradurrebbe solo in un ritardo. Ora la breccia che andava aperta nell’articolo del vecchio codice penale contro il suicidio assistito è stata finalmente praticata, dopo un anno di inutile e molto poco onorevole attesa, e due giorni di  proficua camera di Consiglio nel Palazzo dirimpettaio del Quirinale.

 

 

 

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Luigi Di Maio tra le feste di New York e quella che hanno cercato di fargli a Roma

              Diviso nella lontana New York tra le festose frequentazioni del Palazzo di Vetro dell’Onu, dove ha fatto l’esordio da ministro degli Esteri, affiancato dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, e di una pizzeria italiana, dove ha partecipato Di Maio 2 .jpga suo modo alla battaglia della mitica Greta per salvare il pianeta, affiancato questa volta dal ministro e compagno di partito Sergio Costa, appena confermato all’Ambiente, Luigi Di Maio dev’essere rimasto maluccio apprendendo le notizie giuntegli da Roma. Dove 70 dei 103 senatori pentastellati hanno tentato di fargli la festa in un’assemblea, diciamo così, infuocata. Non sono volate contro di lui solo grida, ma anche parole scritte in un documento che una certa carità di movimento, gestita dal vice presidente del gruppo che presiedeva l’assemblea, non ha fatto mettere ai voti.

            Il solito Mario Giarrusso, noto per quelle vecchie riprese televisive e foto in baldanzosa richiesta di manette Mario Giarrusso.jpgall’uscita da una riunione della giunta del Senato per le autorizzazioni a procedere, è stato il più esplicito a contestare i troppi poteri concentrati nelle mani di Di Maio all’intero del movimento e, visto che si trovava, anche la sua scarsa competenza, per ragioni non foss’altro di età e di esperienza nel settore, per fare il capo della diplomazia italiana.

            Si sono levati dal gruppo pentastellato del Senato richiami all’”elevato”, garante e quant’altro del movimento, cioè Beppe Grillo, perché intervenga a rimettere ordine o misura. E a non cavarsela, come al solito, con qualche battuta nei suoi spettacoli di comico in teatro o sul suo blog personale, magari fingendo di parlare direttamente con Dio, come ha preso l’abitudine di fare durante la crisi agostana di governo, quando è intervenuto per dettare la linea a favore dell’alleanza di governo con il Pd e della conferma di Conte a Palazzo Chigi.

            E’ augurabile che almeno questa volta, vista la dovizia di particolari pubblicati da un po’ tutti i giornali, Corriere.jpgcon la sola eccezione, almeno in prima pagina, del distratto -una volta tanto- Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, il giovane capo -ancòra- del movimento delle 5 stelle Messaggero.jpgeviti di sentirsi e dichiararsi vittima di notizie false, diffuse ad arte da una stampa perfida e prevenuta per danneggiarne l’immagine e il lavoro nel quale è impegnato. E di cui fa parte in questi giorni la preparazione, la regìa e quant’altro dell’elezione dei nuovi capigruppo parlamentari, dopo la promozione al governo di quelli uscenti. E’ un lavoro diventato particolarmente difficile alla Camera per la maggiore presenza e partecipazione degli amici del presidente di Montecitorio Roberto Fico, non proprio in linea con Di Maio, e al Senato per i numeri, al solito, molto stretti della maggioranza di governo, per cui malumori non gestiti con la necessaria accortezza potrebbero provocare seri e irreparabili danni.

            Forse Danilo Toninelli.jpgè anche per questo che sembra avere perso quota nelle ultime ore la candidatura a capogruppo pentastellato al Senato dell’ex ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli, cui lo stesso Di Maio sembra che avesse pensato per compensarlo del posto negatogli al governo, dopo le notissime vicissitudini del no-Tav affossato alla fine dal presidente del Consiglio in persona. Che decise di dire sì facendo poi finta di non accorgersi di una mozione presentata proprio al Senato dai grillini per cercare di sconfessarlo, con la scusa di impegnare ancora per il no l’assemblea di Palazzo Madama, anziché il governo. La mozione fu naturalmente bocciata per la convergenza fra le opposizioni e i leghisti, ancora per qualche ora partecipi della maggioranza gialloverde. Ma ormai è storia vecchia, anzi vecchissima, nonostante risalente solo al mese scorso: esattamente il 7 agosto.

 

 

 

 

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Salvini contesta l’intesa di Malta sui migranti anziché rivendicarla

              Matteo Salvini si è forse lasciata scappare una buona occasione per rivendicare un merito acquisito in 14 mesi di lavoro al Viminale, dove ha contestato con forza la sostanziale indifferenza dell’Unione Europea di fronte al soverchiante approdo di migranti sulle coste italiane. Anziché rivendicare la partecipazione al merito della pur parziale intesa raggiunta dal nuovo ministro dell’Interno Lamorgese.jpgLuciana Lamorgese con i colleghi di Francia, Germania e altri paesi riuniti a Malta in vista del Consiglio degli Affari Interni dell’Unione convocato per l’8 ottobre a Lussemburgo, il leader leghista ha liquidato tutto come una “sòla” e “calata di braghe”.

            So bene che Salvini potrebbe coprirsi dietro la provocazione nei suoi riguardi costituita dalle dichiarazioni del presidente del Consiglio Giuseppe Conte a New York, dove col ministro degli Esteri Luigi D Maio segue l’assemblea Conte e di Maio all'Onu .jpggenerale delle Nazioni Unite. Egli si è vantato, in particolare, con la solita enfasi del Fatto Quotidiano in prima pagina, che “abbiamo fatto più a Malta in un giorno di Salvini in un anno”. E’ un po’ la ripetizione, o prosecuzione, della gaffe compiuta di recente dallo stesso Conte raccontando un una festa di partito Il Fatto.jpgche l’ospitava di avere trascorso troppo tempo al telefono, nella sua prima esperienza di presidente del Consiglio, con una maggioranza gialloverde, a chiedere ai suoi omologhi europei “la cortesia personale” di farsi carico di un po’ dei migranti bloccati al largo dal suo ministro dell’Interno. Da cui pertanto in qualche modo egli prendeva e continua a prendere distanze non meno imbarazzanti degli eccessi che potevano essere stati compiuti dal suo allora alleato di governo. Ma alle gaffe di Conte l’ex ministro dell’Interno dovrebbe cominciare a sapere opporre atteggiamenti diversi, costruttivi, non foss’altro per evidenziarne i torti. Non ci vuole molto, francamente, a capirlo.

             Un comportamento responsabile e non distruttivo, positivo e non di ripicca, renderebbe peraltro più agevole e fruttuosa una vigilanza dell’ora capo dell’opposizione alla maggioranza giallorossa sul processo in corso nell’Unione Europea. Dove qualcosa sta indubbiamente cambiando sul terreno dell’immigrazione ma non siamo ancora arrivati, francamente, alla “svolta storica” vantata da Conte e condivisa dalla Repubblica di carta con quel titolo di prima paginaRepubblica.jpg sull’Europa che “si è desta”. Non è tanto desta, per esempio, da farsi carico anche degli sbarchi che avvengono quotidianamente sulle coste italiane con barche a vela, a motore e gommoni senza preventivi soccorsi in mare, per cui risultano a questo punto privilegiate, con le ripartizioni concordate di massima a Malta,  le operazioni delle navi del cosiddetto volontariato. Se n’è resto conto, del resto, anche il presidente del Consiglio quando ha promesso, sempre a New York, smentendo quindi il trionfalismo di altre sue dichiarazioni, che “non accetteremo alcun meccanismo che possa risultare incentivante per nuovi arrivi”.

               Con le sue reazioni del tutto negative, liquidando -ripeto- la pur parziale intesa di Malta come “una sòla”e “un calo di braghe”, Salvini si è fatto prendere la mano dalla campagna elettorale nella quale ormai si sente impegnato di giorno e di notte, pur non avendo ottenutoSalvini.jpg dalla crisi promossa il mese scorso lo scioglimento delle Camere e il ricorso anticipato alle urne. Egli sta scambiando per elezioni politiche, a strascico, le pur rilevanti ma diverse elezioni regionali in programma nei prossimi mesi, a cominciare da quelle del 27 ottobre in Umbria. Scambia insomma per politiche le elezioni regionali come quelle europee del 26 maggio scorso, con tutti gli effetti che ne sono derivati quando ha tentato di “capitalizzarne” i risultati, secondo la formula adottata e contestatagli da Conte.  Peccato per lui, Salvini, che pure aspira a diventare prima o poi presidente del Consiglio, a dispetto del cordone quasi sanitario che cercano di creargli intorno gli avversari,  perché il pregiudizio è un cattivo affare, sia in entrata sia in uscita, cioè sia quando lo si subisce sia quando lo si pratica.

 

 

 

 

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Di Maio scarica su Conte le tensioni fra i grillini e lo sconfessa sulle tasse

              Nella sua veste di capo del movimento delle cinque stelle, e della relativa “delegazione” al governo, come anche  i grillini hanno accettato di chiamarla accettando una volta tanto il linguaggio e le formule in uso nella tanto odiata prima Repubblica, Luigi Di Maio ha Conte con cane .jpgbruscamente interrotto le emozioni itineranti, diciamo così, del presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Che, compiaciuto di frequentare “per la prima volta” tante feste o raduni di partito e di sindacato, si è visto e sentito invitare per via elettronica, attraverso un messaggio su facebook, a smetterla di parlare di nuove tasse o balzelli. Così aveva fatto il presidente del Consiglio, per esempio, in una delle sue sortite di fine settimana aprendo alla proposta del ministro grillino della Pubblica Istruzione e dell’Università, Lorenzo Fioramonti, di finanziare interventi sulla scuola con tasse su merendine, bevande gassate e viaggi aerei.

               Anche allo scopo spiazzare il suo compagno di partito, evidentemente non del suo giro stretto, com’è appunto il ministro dell’Istruzione, e scaricando  così su Conte le tensioni fra i grillini che spiegano la sconfessione di Fioramonti, il “capo” Di Maio ha letteralmente avvertito: “Fermi tutti. Noi abbiamo come obiettivo Di Maio.jpgquello di abbassare le tasse, non di aumentarle. E’ totalmente sbagliato scatenare un dibattito ogni giorno per parlare di nuovi balzelli”. E, immaginando già gli effetti della sua  uscita, perché ormai una certa esperienza politica se l’è fatta, ha aggiunto: “Qualcuno dice che stiamo dando un ultimatum al governo. Ma io non sono stato eletto per passare le mie giornate a dire che non è così”, fuori e dentro il suo stesso partito.

            Di Maio vuole solo ricordare che “se questo governo esiste, è solo perché il movimento delle 5 stelle lo sostiene”. E per il suo movimento parla e conta evidentemente soltanto lui, per quanto crescano fra i parlamentari grillini le richieste di una gestione o conduzione meno solitaria o più “collegiale” dopo i rovesci elettorali subiti,  soprattutto quello del 26 maggio scorso per il rinnovo del Parlamento europeo, per quanto al riparo di una legislatura nazionale sopravvissuta alla crisi d’agosto e alle richieste di ricorso anticipato alle urne avanzate dalla Lega. Che ingenuamente aveva  puntato su un’analoga posizione assunta dal segretario del Pd Nicola Zingaretti, prima di un improvviso cedimento alla linea opposta di Dario Franceschini e infine di Matteo Renzi.

            Messe al riparo con la sua uscita anche le merendine e le bevande gassate, per non parlare dei biglietti d’aereo, e ristabiliti i suoi gradi a chi li avesse dimenticati o sottovalutati nel suo movimento, Di Maio si è affrettato anche ad attribuirsi il merito, se non la paternità politica, del candidato “civico” che la maggioranza giallorossa sosterrà il 27 ottobre nelle elezioni regionali in Umbria. Bianconi.jpgE’ il presidente della federazione locale degli albergatori Vincenzo Bianconi. “E’ una candidatura  bella e forte”, ha commentato il segretario del Pd  Nicola Zingaretti. “Vincenzo è supercompetente”, ha garantito Di Maio chiamando significativamente  per nome l’amico. Che, dal canto suo, ha assicurato di “amare” la sua terra, come Silvio Berlusconi disse dell’Italia candidandosi nel 1994 alla guida del governo. E non è forse casuale che Bianconi nelle già citate elezioni di maggio avesse sostenuto una candidata berlusconiana al Parlamento europeo.

            Quella della candidatura di Bianconi è stata una svolta anche di genere, seguita alla rinuncia della Stefania Proietti.jpgsindaca di Assisi, Stefania Proietti, e di Francesca DI Maiolo.jpgFrancesca Di Maiolo, presidente dell’Istituto Serafico, sempre  di Assisi. Donna era anche la presidente piddina uscente della regione, travolta dalle indagini giudiziarie sulla sanità. Donna infine è la candidata del centrodestra Donatella Tesei, sponsorizzata in modo particolare da Matteo Salvini, che ostenta ottimismo di fronte ai problemi incontrati dai suoi avversari sulla strada dell’intesa, cambiando -secondo lui- troppi candidati e “prendendo in giro” gli elettori con la “maschera” di una soluzione “civica”, dietro la quale nascondere i partiti rimasti ugualmente protagonisti.     

 

 

 

 

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Matteo Renzi ha già sorpassato Silvio Berlusconi nei sondaggi

            A meno di una settimana dall’annuncio della sua uscita dal Pd, e quando ancora non si è formalizzata la composizione dei gruppi parlamentari autonomi della sua “Italia viva”, Matteo Renzi ha già sorpassato Silvio Berlusconi nel sondaggio Winpoll condotto per il giornale della Confindustria Sole 24 Ore. Che è stato illustrato dal professore Roberto D’Alimonte, pur con la cautela imposta ad uno studioso serio, nella consapevolezza che i sondaggi non sono oracoli, come ha avvertito qualche giorno fa sul Corriere della Sera Nando Pagnoncelli.

           Il 6,4 per cento delle intenzioni di voto, o qualcosa di simile, raccolto dal partito di Renzi non ancora battezzato in alcuna competizione elettorale, e destinato a rimanere in fasce per un bel po’ perché D'Alimonte.jpgè già stata esclusa la sua partecipazione ai prossimi rinnovi delle amministrazioni regionali, risulta provenire per l’1,8 per cento dalla formazione +Europa di Emma Bonino e Bruno Tabacci, peraltro in crisi per l’opposto atteggiamento assunto dai due in Parlamento: l’una negando e l’altro accordando la fiducia al secondo governo di Giuseppe Conte. Per l’1,6 per cento l’area d’interesse per Renzi proviene dal Pd e per l’1,5 da Forza Italia, alla quale però basta e avanza questo per ritrovarsi sotto Italia viva nella graduatoria dei partiti.

           Pur senza avvalersi di questo sondaggio, probabilmente a lui già noto nel momento dell’intervista ma non ancora diffuso, Renzi in una intervista al Messaggero si è mostrato ottimista sulle prospettive della sua creatura. Che comunque si è riservato di non rappresentare personalmente nelle trattative, incontri e quant’altro si svolgeranno all’interno della maggioranza giallorossa perché basteranno la ministra dell’agricoltura Teresa Bellanova e il vice presidente della Camera Ettore Rosato, provvisori coordinatori del nuovo partito. “Nessuno dovrà subire l’onta -ha scherzato Renzi parlando degli altri soci della nuova maggioranza, preoccupati della sua uscita dal Pd- di sedere al tavolo con me. Rassicuriamoli”.

                Il passaggio forse più significativo dell’intervista di Renzi al Messaggero, e meno rasserenante per il presidente del Consiglio, è quello in cui egli ha detto che non questo governo ma “questa legislatura arriverà al 2023”, cioè alla sua scadenza ordinaria. Sul governo in carica il senatore Renzi ha solo detto che “deve sfruttare la tranquillità dei mercati e dell’Europa” per stabilizzare i conti e perseguire la ripresa, peraltro senza aumentare la pressione fiscale per sostenere gli investimenti nell’economia verde.

            Delle tasse sulle merendine e sulle bibite gassate di cui Conte ha parlato per finanziare la scuola, parlando alla festa dell’opposizione di destra di Giorgia Meloni, di cui è stato ospite rispettato, Renzi non ha voluto occuparsi. O non glien’è stata data l’occasione nell’intervista. Si è invece occupato della riforma elettorale proporzionale in cantiere nella maggioranza, peraltro fraRenzi.jpg contrasti già esplosi nel Pd, ma per dire che l’argomento non lo eccita per niente. Egli si è vantato di avere tentato, per quanto inutilmente, di rafforzare con le sue riforme il sistema maggioritario, quando era al governo, e di essere indifferente davanti alle modifiche di cui si parla, essendo convinto che le sorti del suo nuovo partito saranno positive in tutti i casi, cioè con qualsiasi sistema di voto.

             In coincidenza, ancora una volta, con la partita di Renzi s’infittiscono le cronache giudiziarie sui vecchi finanziatori dei suoi raduni annuali alla Leopolda di Firenze e, più in generale, delle Il Fatto.jpgsue iniziative. Tornano quasi a sovrapporsi, inseguendo la Procura fiorentina, i titoli La Verità.jpgdi due giornali pur così diversi fra loro come Il Fatto Quotidiano di Matteo Renzi e la Verità di Massimo Belpietro, entrambi molto attenti alle indagini che da Arturo Bianchi, il presidente della peraltro disciolta “Fondazione Open”, come ha ricordato lo stesso Renzi nella già citata intervista al Messaggero, si sono estese al gruppo abruzzese di Alfonso Toto.

              Si moltiplica anche lo scetticismo, fra gli addetti, diciamo così, all’argomento e alle prospettive di una nuova area centrale nello schieramento politico italiano, sulla possibilità ch’essa possa crescere attorno a Renzi. Il Fatto Quotidiano ha contato e sbandierato in prima paginaIl Fatto 2 .jpg ben 40 tentativi praticamente falliti di animare o rianimare il centro negli ultimi 25 anni. Ed Eugenio Scalfari sulla sua Repubblica ha espresso addirittura l’opinione che Beppe Grillo sia “più saggio di Renzi”.

            Evidentemente anche Scalfari ritiene che la nuova centralità nella politica italiana sia quella guadagnatasi Scalfari.jpgdai grillini col 32 per cento e più di voti l’anno scorso e con la conseguente forza di cui dispongono in Parlamento, messa in sicurezza dalla maggioranza giallorossa che ha consentito al presidente della Repubblica di non chiudere la crisi d’agosto con lo scioglimento delle Camere e con le conseguenti elezioni anticipate, come reclamato invece da Matteo Salvini -dopo avere raddoppiato i voti della Lega e dimezzato quelli penstalleati nelle elezioni europee del 26 maggio-  dagli altri partiti del centrodestra ancora operante a livello locale e per un po’ anche dal segretario del Pd Nicola Zingaretti. Che poi si è allineato alla posizione di Dario Franceschini e infine di Renzi. La cui concezione però della maggioranza giallorossa va sempre più rivelandosi diversa dai suoi ex compagni di partito. Lo si capisce, fra l’altro, da queste dichiarazioni del renzianissimo Sandro Gozi, attuale consigliere del presidente francese Emmanuel Macron, alla Repubblica di ieri: “L’alleanza con i grillini è stata dettata dalla necessità democratica e di rilancio europeo contro Gozi.jpgla politica dei pieni poteri” reclamati da Matteo Salvini, “ma per noi non è una prospettiva politica”, come mostrano invece di intenderla nel Pd i fautori delle intese anche locali col movimento delle 5 stelle. E ciò, va detto, anche se Renzi, sempre al Messaggero, ha voluto precisare che “se umbro, voterebbe” il 27 ottobre per la presidenza della regione il candidato civico su cui stanno trattando ancora faticosamente, almeno nel momento in cui scrivo, piddini e grillini all’insegna della soluzione “civica”. Renzi tuttavia è toscano. E si vedrà cosa dirà se anche nella sua regione si tenterà nei prossimi mesi una soluzione analoga.

 

 

 

 

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